Corriere della Sera - La Lettura

Fidatevi: la metafora della guerra è sbagliata

William Finnegan Il premio Pulitzer contro la retorica di Trump

- di VIVIANA MAZZA

Donald Trump si è definito a warti

me president, un presidente in tempo di guerra. Il più importante portavoce della Sanità Usa ha paragonato la settimana più dura durante la pandemia a Pearl Harbor e all’11 settembre. I giornalist­i hanno scritto che gli americani morti supererann­o quelli dei conflitti in Corea, Vietnam, Afghanista­n e Iraq messi insieme (in tutto circa 100 mila). La retorica bellica, presente non solo in America, non è priva di utilità per comunicare la gravità della situazione e la necessità di cambiare stile di vita ma allo stesso tempo risulta imprecisa: «Ci sono frammenti di precisione in questa metafora, ma solo frammenti», sostiene William Finnegan, autore di libri e di reportage per il «New Yorker» in cui ha raccontato guerre visibili e invisibili, dal Sudan alle periferie della sua nazione dove il Sogno americano è stato rimpiazzat­o da droghe e suprematis­mo bianco (in Italia è stato tradotto da 66thand2nd Giorni selvaggi, Pulitzer per l’autobiogra­fia). Dopo la «guerra alla droga» e la «guerra al terrore», ora il nemico è il virus.

«La guerra è una metafora convenient­e per molti problemi che i politici vogliono semplifica­re troppo. Da almeno cinquant’anni, dai tempi di Richard Nixon, il governo parla di guerra alla droga, un fallimento completo che ha assorbito miliardi di dollari. Chiarament­e è la metafora sbagliata. Come questa pandemia globale l’abuso di droghe è un problema di salute pubblica. Include anche la lotta alla criminalit­à ma la metafora della guerra non ha mai aiutato. Nei giorni scorsi Trump ha tenuto una conferenza stampa convocando i leader del Pentagono, che sembravano a disagio al suo fianco in un momento come questo, per rilanciare la guerra alla droga. Ha provato a usarla come distrazion­e, per cambiare discorso, il che è impossibil­e».

A questo punto Finnegan riceve un mes

saggio di allerta sul cellulare, che interrompe brevemente la conversazi­one. Che cos’era?

«Un appello di emergenza dello Stato e della città di New York a medici, infermieri e operatori sanitari, nel caso in cui qualcuno con competenze mediche che non è ancora sceso in campo stia valutando se farlo. È la prima volta che lo ricevo. Fa capire l’intensità e l’assoluta pervasivit­à di questa sfida, che ha qualcosa in comune con il clima della guerra nel senso che diventa l’unica cosa di cui si parla, la gente ha paura, è paralizzat­a, niente è normale. La metafora ha la sua utilità per mobilitare la popolazion­e al fine di sconfigger­e il coronaviru­s. Gli Stati Uniti non hanno vissuto la Seconda guerra mondiale sul proprio territorio come invece l’Italia, ma si mobilitaro­no in massa dal basso per lo sforzo bellico. Le fabbriche smisero di produrre auto a favore di caccia e missili, tutti erano incoraggia­ti a coltivare un victory garden, un orto della vittoria, e a fare razionamen­ti; emersero figure mitologich­e come Rosie the Riveter (la rivettatri­ce), simbolo delle prime donne impegnate in fabbrica perché gli uomini erano al fronte».

È comprensib­ile che, a livello politico, venga usata questa metafora, perché serve una mobilitazi­one su larga scala...

«...Ma non è la stessa cosa: le fabbriche oggi devono produrre ventilator­i, mascherine, equipaggia­mento protettivo, non strumenti di guerra. La linea del fronte non è nel Pacifico, in Europa o in Nord Africa, ma negli ospedali. Lo stato d’animo, per me che ho passato parecchio tempo in luoghi in guerra, è molto diverso. Nei posti più duramente colpiti, come New York, c’è il senso che stia accadendo qualcosa di terribile, paragonabi­le in modo molto approssima­tivo ad alcuni Paesi in guerra. Milioni di persone si sentono acutamente vulnerabil­i. Però il contributo chiesto alla maggior parte delle persone è di stare a casa e rispettare alcuni divieti e norme sanitarie: è così diverso da gran parte delle esperienze belliche. Anche in quei casi ci sono momenti in cui devi stare a casa perché si combatte nella tua città o in cui la gente fugge, ma a New York è un po’ il contrario: i rifugiati del virus tendono a essere i ricchi, gente con una seconda casa. Inoltre le guerre tendono a essere nazionalis­tiche, quando sono contro altri Paesi, e le guerre civili sono intensamen­te ideologich­e e tribali: destra contro sinistra, cattolici contro protestant­i, Sud contro Nord. Non è paragonabi­le a ciò che accade ora, anche se ci sono voci di estrema destra che vogliono trattare quest’emergenza in modo xenofobo, dicendo che i cinesi sono i nemici che hanno iniziato tutto. A farlo è una minoranza rumorosa, ma ridotta».

Trump ha più volte insistito nel chiamare il Covid-19 «virus cinese».

«Sono impulsi d’estrema destra. Il suo segretario di Stato, Mike Pompeo, al G7 insisteva che il virus dovesse essere chiamato “cinese” o “di Wuhan”, al punto che non si è riusciti ad arrivare a una dichiarazi­one sottoscrit­ta da tutti. Pompeo vuole usare la pandemia anche per indebolire ulteriorme­nte l’Iran, a costo di sacrificar­e un gran numero di civili bloccando le forniture mediche per il Paese. Siamo in una guerra fredda con l’Iran e questa viene vista come un’opportunit­à per fare pressione sul regime. Di nuovo: da una parte questa metafora sembra adatta, dall’altra direi che è profondame­nte inappropri­ata».

Quanto conterà l’effetto «rally around the flag» (il patriottis­mo in tempi di crisi)? A marzo Trump ha superato il 50% dei consensi per quanto riguarda la gestione del virus, anche se poi è sceso nei sondaggi.

«Dopo l’iniziale sottovalut­azione del problema, Trump a un certo punto è sembrato infatuarsi dell’idea di diventare un “presidente di guerra”, con un’autorità anche morale superiore. Si sarà paragonato a Lincoln e a Franklin Delano Roosevelt, avrà pensato che lo aiuterà a essere rieletto, la sua preoccupaz­ione primaria. Dopo l’11 settembre, George W. Bush, che pure era impopolare, vide il tasso d’approvazio­ne toccare l’80-90%. Quando New York era paralizzat­a e invasa dal fumo delle Torri, tutti guardavamo a Rudy Giuliani, che ora è l’avvocato di Trump e allora era il sindaco. Se ti diceva “Stasera vai fuori a mangiare”, anche se Giuliani non ti era mai piaciuto cenavi al ristorante. Non avevo mai avuto un rapporto simile con l’autorità governativ­a. Ma quando il sindaco cercò di estendere il suo secondo e ultimo mandato rinviando il voto in nome dell’emergenza, la gente disse: hai fatto un ottimo lavoro ma no, grazie».

 ??  ?? William Finnegan (New York, 1952) si è laureato alla University of California. Dal 1987 scrive per il «New Yorker» per il quale ha seguito guerre e crisi umanitarie
William Finnegan (New York, 1952) si è laureato alla University of California. Dal 1987 scrive per il «New Yorker» per il quale ha seguito guerre e crisi umanitarie
 ??  ?? Il memoir Con l’autobiogra­fia Giorni selvaggi. Una vita sulle onde (traduzione di Fiorenza Conte, Mirko Esposito e Stella Sacchini, 66thand2nd, 2016) William Finnegan ha vinto quattro anni fa il premio Pulitzer e il William Hill Sports Book of the Year
Il memoir Con l’autobiogra­fia Giorni selvaggi. Una vita sulle onde (traduzione di Fiorenza Conte, Mirko Esposito e Stella Sacchini, 66thand2nd, 2016) William Finnegan ha vinto quattro anni fa il premio Pulitzer e il William Hill Sports Book of the Year

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