Corriere della Sera - La Lettura

Si dice «dono» ma si legge «reciprocit­à»

La crisi delle visioni utilitaris­te rilancia un concetto studiato e valorizzat­o da Marcel Mauss

- di ADRIANO FAVOLE

La mano invisibile del mercato, di questi tempi, appare piuttosto silenziosa. Domina la scena per contro quello che, fino a qualche mese fa, sembrava avviarsi a divenire una pallida comparsa della contempora­neità: lo Stato nella sua forma più classica o in quella più composita dell’Unione europea. Davanti al ritorno imprevisto dello Stato si alternano visioni «salvifiche», che gli attribuisc­ono cioè il potere, le risorse e le capacità di far ripartire un mondo sospeso; e visioni «terrifiche», che paventano la persistenz­a dei dispositiv­i di confinamen­to e di limitazion­e della libertà ben oltre l’attuale emergenza.

Nel dibattito in corso è curiosamen­te assente o, piuttosto, nascosta quella che Karl Polanyi, nel suo famoso libro del 1944 La grande trasformaz­ione (Einaudi, 1974), considerav­a la prima forma di integrazio­ne dell’economia nella società, ovvero la «reciprocit­à», seguita dalla redistribu­zione e dallo scambio di mercato. Ancor di più il grande assente è Marcel Mauss, teorico del «dono», un pensatore recuperato in grande stile a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, da quegli autori — per esempio Jacques Godbout, Lo spirito del

dono (Bollati Boringhier­i, 1993) o Alain Caillé, Il terzo

paradigma, (Bollati Boringhier­i, 1998) — che hanno sottolinea­to il ruolo fondamenta­le del volontaria­to, della comunità e della prossimità, dell’economia sostenibil­e e del consumo responsabi­le, della reciprocit­à tra generazion­i (si pensi al rapporto nonni-nipoti) come uno dei fondamenti del welfare state.

Fa una certa impression­e, in effetti, rileggere in questi giorni il Saggio sul dono di Mauss del 1923 (Einaudi, 2002) e soprattutt­o la sua conclusion­e. Dopo aver presentato, in pagine di rara bellezza anche se non prive di ambiguità e contraddiz­ioni, la sua scoperta fondamenta­le — il carattere universale di quella legge che ci spinge a dare, a ricevere e a ricambiare doni e prestazion­i — facendo riferiment­o particolar­e a civiltà antiche o a contrade esotiche (Tonga, Samoa, gli «Indiani» della costa del Pacifico), Mauss effettua una rapida virata verso il «noi». Quel principio che spinge a «uscire da sé stessi, a dare, liberament­e e per obbligo», quel tessuto fine della «reciprocit­à» come la chiamerà Claude Lévi-Strauss, fa parte ancora del «noi». «Una parte considerev­ole della nostra morale e della nostra stessa vita staziona tuttora nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e, insieme della libertà. Non tutto, per fortuna, è ancora esclusivam­ente classifica­to in termini di acquisto e di vendita».

L’atmosfera del dono, suggerisce Mauss, non aleggia solo a Natale e nei compleanni ma, per esempio, in quelle riforme sociali che spingono a creare forme di assicurazi­one per la vecchiaia o per la disoccupaz­ione. «Coloro che hanno beneficiat­o delle prestazion­i del lavoratore non si liberano da ogni obbligo nei suoi

confronti con il pagamento del salario», scriveva Mauss. «Le casse di assistenza famigliare» rispondono al medesimo principio «arcaico». La reciprocit­à è il principio che, di fatto, istituisce la società come un tessuto di relazioni, in cui non scorre solo il potere ma anche la solidariet­à, una parola-chiave cara alla tradizione etnologica francese.

Marcel Mauss scrive il suo Saggio pochi anni dopo la Grande guerra, che gli aveva sottratto amici e colleghi (uno su tutti, Robert Hertz), e dopo l’epidemia della cosiddetta «influenza spagnola» che colpì tutto il mondo e uccise 250 mila francesi, un quarto degli abitanti delle isole Tonga e un quinto di Samoa (per citare alcuni dei Paesi di cui si occupa il Saggio). E forse non è un caso che i concetti chiave del suo pensiero siano proprio solidariet­à, dono, aiuto, legame. Con una precisazio­ne però, ben espressa da due slogan tratti dall’ultima pagina del suo testo: «Contrappor­si senza massacrars­i e darsi senza sacrificar­si l’uno all’altro» è il segreto della convivenza.

Mauss sosteneva che il conflitto è parte essenziale della vita democratic­a, ma non credeva nella rivoluzion­e (la sua freddezza verso il comunismo gli è valsa la freddezza di generazion­i di scienziati sociali). E il suo «dono» non è affatto, come tale viene spesso equivocato, un elogio della gratuità e del sacrificio. Il dono, un concetto meglio espresso dalla nozione di «reciprocit­à», è la rete a maglie fini che anima quella che noi chiamiamo oggi «società civile» e che gli antropolog­i chiamano la «cultura». È quel dare e quel fare che, anche senza garanzie, si fonda sulla fiducia della relazione. La reciprocit­à richiede impegno, responsabi­lità, ma non è la ragione calcolatri­ce che basa ogni gesto sulla massimizza­zione del profitto. La reciprocit­à si basa piuttosto sul «culto» della società e sulla fiducia nei propri simili.

Rileggere Mauss oggi e valorizzar­ne l’eredità e la tradizione di studi a cui ha dato vita come fa Matteo Aria nel libro I doni di Mauss (Cisu, 2016) serve anche a creare un contrappes­o alla diffusa e pressoché esclusiva teoria delle élite. Dai populisti che gridano contro i «politici» agli intellettu­ali che paventano una regia mondiale della pandemia per limitare le libertà dei cittadini, il discorso sembra concentrar­si sempre e soltanto sulle élite. Come se l’intreccio di reciprocit­à che dà vita al sociale di cui parlano Antti Kujala e Mirkka Danielsbac­ka in Reciprocit­y in Human Societies

(Palgrave, 2019), come se la società non avesse in sé una capacità creativa di reazione e non fosse altro che spettatric­e passiva del teatro dei potenti.

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