Corriere della Sera - La Lettura
Si dice «dono» ma si legge «reciprocità»
La crisi delle visioni utilitariste rilancia un concetto studiato e valorizzato da Marcel Mauss
La mano invisibile del mercato, di questi tempi, appare piuttosto silenziosa. Domina la scena per contro quello che, fino a qualche mese fa, sembrava avviarsi a divenire una pallida comparsa della contemporaneità: lo Stato nella sua forma più classica o in quella più composita dell’Unione europea. Davanti al ritorno imprevisto dello Stato si alternano visioni «salvifiche», che gli attribuiscono cioè il potere, le risorse e le capacità di far ripartire un mondo sospeso; e visioni «terrifiche», che paventano la persistenza dei dispositivi di confinamento e di limitazione della libertà ben oltre l’attuale emergenza.
Nel dibattito in corso è curiosamente assente o, piuttosto, nascosta quella che Karl Polanyi, nel suo famoso libro del 1944 La grande trasformazione (Einaudi, 1974), considerava la prima forma di integrazione dell’economia nella società, ovvero la «reciprocità», seguita dalla redistribuzione e dallo scambio di mercato. Ancor di più il grande assente è Marcel Mauss, teorico del «dono», un pensatore recuperato in grande stile a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, da quegli autori — per esempio Jacques Godbout, Lo spirito del
dono (Bollati Boringhieri, 1993) o Alain Caillé, Il terzo
paradigma, (Bollati Boringhieri, 1998) — che hanno sottolineato il ruolo fondamentale del volontariato, della comunità e della prossimità, dell’economia sostenibile e del consumo responsabile, della reciprocità tra generazioni (si pensi al rapporto nonni-nipoti) come uno dei fondamenti del welfare state.
Fa una certa impressione, in effetti, rileggere in questi giorni il Saggio sul dono di Mauss del 1923 (Einaudi, 2002) e soprattutto la sua conclusione. Dopo aver presentato, in pagine di rara bellezza anche se non prive di ambiguità e contraddizioni, la sua scoperta fondamentale — il carattere universale di quella legge che ci spinge a dare, a ricevere e a ricambiare doni e prestazioni — facendo riferimento particolare a civiltà antiche o a contrade esotiche (Tonga, Samoa, gli «Indiani» della costa del Pacifico), Mauss effettua una rapida virata verso il «noi». Quel principio che spinge a «uscire da sé stessi, a dare, liberamente e per obbligo», quel tessuto fine della «reciprocità» come la chiamerà Claude Lévi-Strauss, fa parte ancora del «noi». «Una parte considerevole della nostra morale e della nostra stessa vita staziona tuttora nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e, insieme della libertà. Non tutto, per fortuna, è ancora esclusivamente classificato in termini di acquisto e di vendita».
L’atmosfera del dono, suggerisce Mauss, non aleggia solo a Natale e nei compleanni ma, per esempio, in quelle riforme sociali che spingono a creare forme di assicurazione per la vecchiaia o per la disoccupazione. «Coloro che hanno beneficiato delle prestazioni del lavoratore non si liberano da ogni obbligo nei suoi
confronti con il pagamento del salario», scriveva Mauss. «Le casse di assistenza famigliare» rispondono al medesimo principio «arcaico». La reciprocità è il principio che, di fatto, istituisce la società come un tessuto di relazioni, in cui non scorre solo il potere ma anche la solidarietà, una parola-chiave cara alla tradizione etnologica francese.
Marcel Mauss scrive il suo Saggio pochi anni dopo la Grande guerra, che gli aveva sottratto amici e colleghi (uno su tutti, Robert Hertz), e dopo l’epidemia della cosiddetta «influenza spagnola» che colpì tutto il mondo e uccise 250 mila francesi, un quarto degli abitanti delle isole Tonga e un quinto di Samoa (per citare alcuni dei Paesi di cui si occupa il Saggio). E forse non è un caso che i concetti chiave del suo pensiero siano proprio solidarietà, dono, aiuto, legame. Con una precisazione però, ben espressa da due slogan tratti dall’ultima pagina del suo testo: «Contrapporsi senza massacrarsi e darsi senza sacrificarsi l’uno all’altro» è il segreto della convivenza.
Mauss sosteneva che il conflitto è parte essenziale della vita democratica, ma non credeva nella rivoluzione (la sua freddezza verso il comunismo gli è valsa la freddezza di generazioni di scienziati sociali). E il suo «dono» non è affatto, come tale viene spesso equivocato, un elogio della gratuità e del sacrificio. Il dono, un concetto meglio espresso dalla nozione di «reciprocità», è la rete a maglie fini che anima quella che noi chiamiamo oggi «società civile» e che gli antropologi chiamano la «cultura». È quel dare e quel fare che, anche senza garanzie, si fonda sulla fiducia della relazione. La reciprocità richiede impegno, responsabilità, ma non è la ragione calcolatrice che basa ogni gesto sulla massimizzazione del profitto. La reciprocità si basa piuttosto sul «culto» della società e sulla fiducia nei propri simili.
Rileggere Mauss oggi e valorizzarne l’eredità e la tradizione di studi a cui ha dato vita come fa Matteo Aria nel libro I doni di Mauss (Cisu, 2016) serve anche a creare un contrappeso alla diffusa e pressoché esclusiva teoria delle élite. Dai populisti che gridano contro i «politici» agli intellettuali che paventano una regia mondiale della pandemia per limitare le libertà dei cittadini, il discorso sembra concentrarsi sempre e soltanto sulle élite. Come se l’intreccio di reciprocità che dà vita al sociale di cui parlano Antti Kujala e Mirkka Danielsbacka in Reciprocity in Human Societies
(Palgrave, 2019), come se la società non avesse in sé una capacità creativa di reazione e non fosse altro che spettatrice passiva del teatro dei potenti.