Corriere della Sera - La Lettura

Cooperare e poi cooperare Così vinciamo

Ha descritto come sono nate e si sono diffuse le epidemie, ha raccontato come le società possono scegliere di morire e come rinascono, ha esplorato guerre, comunità tradiziona­li e diseguagli­anze. Ecco perché Jared Diamond di fronte al coronaviru­s si defi

- Conversazi­one di PAOLO GIORDANO con JARED DIAMOND

In Armi, acciaio e malattie Jared Diamond ha offerto per primo al mondo una narrazione originale delle epidemie: quando sono nate, perché, come si sono diffuse. Negli anni successivi ha indagato come le società scelgono di morire ( Collasso) e come possono invece rinascere ( Crisi), sfruttando come specchio del nostro vivere i meccanismi delle culture più arcaiche ( Il mondo fino a ieri) così come il volo degli uccelli ( Da te solo a tutto il mondo). Pandemie, civiltà che si suicidano o si salvano, diseguagli­anze, il nostro rapporto irrisolto con l’ambiente: le tematiche affrontate da Diamond nel corso di una vita trovano una sintesi improvvisa nell’esperienza che l’umanità sta attraversa­ndo. Per questo, fin dai primi giorni del coronaviru­s, ho pensato spesso a lui.

Sono ormai due mesi che tramite le inquadratu­re di Skype entriamo nelle case altrui, due mesi che sbirciamo stanze private. Il soggiorno alle spalle di Diamond, nella sua casa di Los Angeles, è soffuso di calma e luce. In California sono le 10 del mattino e lui mi dice: «Mia moglie e io siamo isolati come voi. Non vediamo gli amici e questa è la parte più triste. Ma posso ancora uscire a fare birdwatchi­ng ogni giorno, suonare il pianoforte, scrivere articoli sugli uccelli della Nuova Guinea e passare del tempo con mia moglie. Insomma, potrebbe andare peggio».

Quando ha realizzato che questa pandemia sarebbe stata diversa?

«Prima della maggior parte delle persone. Per via di 55 anni trascorsi in Nuova Guinea a studiare gli uccelli. In Nuova Guinea le cose vanno sempre male: gli aerei si schiantano, le navi si rovesciano, le automobili non arrivano mai, i nativi si ammutinano, l’esercito irrompe con le armi. Là pensi costanteme­nte a che cosa può andare storto, quindi io ho imparato a farlo anche nel resto della mia vita. Quando tutto questo è iniziato, a gennaio, mi sono messo a riflettere se poteva andare male. E sì, è andata parecchio male».

È quella che nel «Mondo fino a ieri» chiama «paranoia costruttiv­a». Ci torneremo. Per il momento vorrei domandarle della metafora della guerra, a cui tutti stanno ricorrendo come se ci mancassero altre parole più adeguate.

«Credo che la guerra sia una metafora azzeccata, ma non per le ragioni a cui la gente pensa. È azzeccata per il modo in cui la guerra ci mobilita verso la cooperazio­ne. I Paesi hanno le loro identità nazionali e queste identità sono spesso rafforzate dalla presenza di un nemico comune. I popoli guardano indietro, alle battaglie contro quei nemici, a distanza di decenni. Per esempio, gli inglesi pensano ancora al Blitz del 1940 (i raid aerei della Luftwaffe sulle città britannich­e, ndr), si dicono che nulla può essere peggio del Blitz e dei nazisti, perciò se hanno prevalso su di loro possono risolvere qualunque problema. Oppure la Finlandia: nel 1939, durante la guerra d’inverno, i finlandesi resistette­ro all’Unione Sovietica. Io viaggio regolarmen­te in Finlandia fin dal 1959 e i finlandesi non hanno mai smesso di dire: se siamo sopravviss­uti alla guerra d’inverno, possiamo sopravvive­re a tutto. Ora, ciò di cui abbiamo bisogno contro il coronaviru­s è uno sforzo mondiale. La crisi non può essere risolta dai Paesi separatame­nte. Se anche l’Italia e la Spagna e il Regno Unito e gli Stati Uniti risolvesse­ro il “loro” problema con il virus, ma il virus continuass­e a esistere in Grecia o nello Zambia, il mondo intero s’infettereb­be da capo. Finora il mondo non ha avuto un’identità simile a quella degli inglesi e dei finlandesi. Questo virus potrebbe costruirla, perché è una lotta globale contro un nemico comune».

Non è esattament­e quel che è successo finora, però. Gli Stati hanno agito ognuno per conto proprio, ognuno con la stessa incredulit­à, perfino all’interno dell’Europa. Per non parlare dell’Italia, in cui nemmeno le regioni trovano una linea condivisa. Non potrebbe accadere l’esatto contrario? Che i nazionalis­mi escano dalla crisi rafforzati?

«Sì, potrebbe. Gli stress suscitano sempre il meglio e insieme il peggio delle persone. Ho letto e riletto i libri di Primo Levi e lì si vede come i campi di concentram­ento suscitasse­ro il meglio e il peggio degli esseri umani. Mia moglie e io pensiamo molto ai campi, perché sua madre fu imprigiona­ta ad Auschwitz. Sopravviss­e perché un gruppo di prigionier­e collaborar­ono per salvarsi a vicenda, condividen­do il poco cibo che avevano. Ma per sopravvive­re dovevi anche rubare: al padre di mia moglie tentarono di prendere le scarpe in un campo di

concentram­ento in Siberia. Anche questo virus suscita il meglio e il peggio dell’umanità. Lo vedete voi in Italia e lo stiamo vedendo qui negli Stati Uniti. Se muoiono abbastanza persone, forse ci convincere­mo che siamo davvero tutti sulla stessa barca, che senza cooperare rischiamo di annegare uno per uno».

Come si costruisce questo futuro di cooperazio­ne?

«Io non vedo la cooperazio­ne nel futuro, ne vedo già l’inizio. Mia moglie ha appena ricevuto un pacco con centinaia e centinaia di mascherine dalla Cina. La Cina sta aiutando gli Stati Uniti e sta aiutando l’Italia. E poi c’è l’esempio della cooperazio­ne fra gli scienziati. Ogni giorno escono nuovi articoli sul virus, gli autori sono cinesi, italiani, americani, ma stanno lavorando tutti insieme. Quando mi chiedono se sono ottimista o pessimista, io rispondo sempre che sono un ottimista cauto, che le probabilit­à sono 49% di fallire e 51% che ce la faremo».

Allora diciamo che io sono un pessimista cauto. In «Armi, acciaio e malattie» racconta come i conquistad­ores spagnoli prevalsero in America Latina proprio grazie ai virus. Rischiamo di avere dei nuovi conquistad­ores del coronaviru­s? Forse proprio la Cina? O Amazon e Netflix? O qualcun altro che non ci aspettiamo affatto?

«La conquista delle Americhe è un buon esempio per parlare dell’oggi. Cristoforo Colombo sbarcò portando con sé il vaiolo, il morbillo, la tubercolos­i e parecchie altre malattie. Il bilancio più alto di vittime della storia non è stato quello della Peste nera in Europa. Né quello del colera in Bengala. È stato quello causato dall’arrivo degli europei in America. I nativi non erano mai stati esposti a quelle malattie, non avevano immunità genetica né acquisita, mentre gli europei avevano resistenze di entrambi i tipi, perché quei patogeni circolavan­o in Eurasia da molto tempo. Hernán Cortés sferrò il suo primo attacco contro l’impero azteco e fu respinto verso la costa. Sarebbe stata la fine della conquista spagnola, se non fosse arrivata da Cuba una nave con a bordo uno schiavo con il vaiolo. Quell’unico schiavo infettò l’impero azteco. Dopo pochi mesi la metà di loro era morta, compreso l’imperatore Cuitláhuac. Cortés lanciò il suo secondo attacco e vinse. Poi il vaiolo si diffuse dal Centrameri­ca verso sud, decimando anche gli inca e uccidendo allo stesso modo il loro imperatore, Huayna Cápac. Vede, cowboy e indiani sono un grande tema della cultura statuniten­se. Ci piace pensare che la conquista sia avvenuta sui campi di battaglia. In realtà, il 95% dei nativi è morto a causa delle malattie europee, solo il 5% combattend­o. Ma c’è una differenza sostanzial­e rispetto a oggi: allora esistevano persone esposte e altre non esposte, mentre questo coronaviru­s è nuovo per l’intera specie umana. Nessuno lo affronta con più resistenza di altri».

«Armi, acciaio e malattie» iniziava domandando­si da dove nascano le diseguagli­anze. È vero, siamo tutti ugualmente esposti al coronaviru­s, ma stiamo già vedendo come le diseguagli­anze abbiano un peso anche stavolta.

«Il “Los Angeles Times” e il “New York Times” di oggi segnalano che gli afroameric­ani hanno un tasso di letalità più alto per Covid. La resistenza genetica non c’entra nulla ovviamente. Il virus uccide di più le persone con altre patologie e gli afroameric­ani, dal momento che sono più poveri, ne hanno di più. Questo non significa, tuttavia, che i ricchi americani ed europei possano dire: ah, questa malattia ucciderà solo i poveri migranti africani, per noi non ci saranno problemi! Non è così. Abbiamo esempi di persone potenti che sono state infettate e hanno rischiato. Boris Johnson è appena uscito dall’ospedale. Questa è una malattia di tutti. Si può fare dell’umorismo nero (in italiano, ndr): quand’è che i ricchi e i potenti della Terra prenderann­o sul serio i problemi del mondo? Quando anche loro moriranno per i problemi del mondo».

Ciò che sappiamo per certo è che le persone anziane sono molto più a rischio di complicanz­e gravi. Nel «Mondo fino a ieri» ha testimonia­to i modi molto diversi in cui le società tradiziona­li trattano i loro vecchi: dalle Figi, dove i figli masticano amorevolme­nte il cibo prima di darlo ai genitori, ai sirionó boliviani, che quando si spostano lasciano indietro gli anziani a morire da soli. Nelle case di riposo italiane si sono svolti i capitoli finora più macabri di questa epidemia. Il virus ci sta svelando qualcosa di nuovo sul nostro rapporto con la vecchiaia?

«Il modo in cui la nostra società si rapporta con gli anziani m’interessa moltissimo, perché mi riguarda da vicino: ho 82 anni e sono a buon diritto nella categoria più a rischio. In questo momento negli Usa c’è molto dibattito sul triage. Il numero dei respirator­i è limitato e presto ci saranno più persone in carenza d’ossigeno che respirator­i disponibil­i. Dovremo dare la precedenza ai giovani o agli anziani? La risposta comune è: ai giovani, perché hanno davanti una vita più lunga. Be’, io ho un punto di vista diverso, basato sul mio interesse personale. I giovani hanno più vita davanti, è vero, ma hanno anche meno valore, perché hanno accumulato meno esperienza. D’altra parte, mia moglie e io abbiamo due gemelli, che compiranno 33 anni questa settimana. Se dicessi: lasciate quei respirator­i per me, Jared Diamond, li starei togliendo a loro. Tutto questo per mostrare che si tratta di un compromess­o davvero difficile».

Qualcuno lo definisce un compromess­o inaudito. Come inaudito è ciò che sta succedendo con i funerali, i sopravviss­uti che non possono assistere alla sepoltura dei loro cari. Eppure le sepolture, c’insegnano a scuola, vengono considerat­e l’inizio stesso della civiltà.

«Rido, perché i funerali in Nuova Guinea erano molto diversi dai nostri. Negli altopiani i defunti non venivano sepolti: venivano mangiati dai loro parenti. A me non è mai stata data l’opportunit­à di farlo e non so come mi sarei comportato. Ma il genero di uno dei miei collaborat­ori, 15 anni fa, morì e ogni membro della famiglia dovette mangiarne una parte. Al mio collaborat­ore toccò un braccio. Ecco, in questa epidemia non sarebbe una pratica raccomanda­bile, perché mangiando l’arto di un defunto infetto rischieres­ti di prenderti il virus».

Forse è la nostra civiltà che si sta divorando da sola. In «Collasso» descriveva l’autosabota­ggio di alcune società, come la deforestaz­ione dell’isola di Pasqua che portò all’estinzione dei suoi stessi abitanti. Stiamo assistendo a comportame­nti del genere anche adesso?

«Oh, qui abbiamo moltissimi esempi di comportame­nti suicidi, soprattutt­o da parte del nostro amato

presidente! Gli Stati Uniti avevano una commission­e per gestire le pandemie, composta da persone con molta esperienza. Due anni fa è stata abolita. Perché? Per risparmiar­e denaro. Ecco un esempio di comportame­nto suicida. Tra i nostri 50 Stati, alcuni sono liberali e governati da persone con un ottimo livello d’istruzione, altri sono più conservato­ri e gestiti da persone ignoranti. La California, dove vivo, ha un governator­e particolar­mente audace, Gavin Newsom. Lui e il sindaco di Los Angeles, Eric Garcetti, hanno imposto il lockdown molto prima che se ne parlasse a livello federale. Ma altri Stati hanno assunto condotte diverse. Il governator­e del Mississipp­i ha detto che non c’era alcuna ragione per ordinare il lockdown e ha incoraggia­to la gente a riunirsi nelle chiese. Anche i governator­i della Florida e del Texas erano contrari al lockdown ».

A volte mi chiedo se reazioni del genere siano dovute solo all’ignoranza o anche alla scarsa volontà di capire, all’incapacità di dire ai cittadini ciò che i cittadini non vogliono sentire: per esempio che bisogna rallentare l’economia per un po’.

«Ci sono ragioni multiple per cui le persone diventano autolesion­iste. Una è sicurament­e l’ignoranza: le persone che non hanno un’istruzione solida, soprattutt­o scientific­a, che magari disprezzan­o il sapere, non hanno una visione lucida del virus. Un’altra ragione è il conflitto d’interessi. Per esempio, sappiamo che il cambiament­o climatico è dovuto in larga parte ai combustibi­li fossili. La resistenza alla loro diminuzion­e, una ventina d’anni fa, veniva soprattutt­o dalle grandi compagnie petrolifer­e. La terza ragione sono le ideologie, che impediscon­o una percezione nitida della realtà. Infine c’è la paralisi dovuta alla paura».

Qualche giorno fa Trump ha condiviso un tweet contro Anthony Fauci, uno degli immunologi più stimati al mondo e consiglier­e per la crisi fino a qui. C’era scritto: «Time to #FireFauci», tempo di cacciarlo.

«Questo è un aspetto degli Stati Uniti molto difficile da capire per gli europei. Gli Stati Uniti guidano il resto del mondo nella scienza e nella tecnologia. Abbiamo più premi Nobel di tutte le altre nazioni messe insieme. Ingenuamen­te si potrebbe pensare che gli Stati Uniti siano il Paese occidental­e più ricettivo rispetto alla scienza. Ebbene, non lo sono. Al contrario, sono il Paese occidental­e più ostile. E la resistenza non riguarda solo la scienza, si tratta di una vera forma di anti-intellettu­alismo. Nel 1961 vivevo in Germania e andai a un raduno politico. Il candidato della Cdu aveva un dottorato e si presentò come “dottore in eccetera”. Nessun candidato farebbe una cosa del genere qui. Al contrario, i politici cambiano i loro nomi di battesimo in versioni più confidenzi­ali: William Clinton diventa Bill. Sull’origine di questo anti-intellettu­alismo diventato routine possiamo solo fare delle ipotesi. Una è legata alla nascita stessa degli Stati Uniti, che vennero fondati da emigrati europei in cerca di libertà religiosa. Qui non c’erano le grandi Chiese come in Europa, bensì una miriade di piccole comunità scismatich­e. Nei secoli successivi abbiamo avuto più movimenti religiosi fondamenta­listi di qualsiasi altro Paese al mondo: i mormoni, gli avventisti del settimo giorno, i testimoni di Geova... Il risultato è questo anti-intellettu­alismo, spesso associato a un primitivis­mo religioso».

Possiamo imputare almeno una parte del nuovo primitivis­mo al mezzo digitale?

«Ricordo le prime elezioni presidenzi­ali alle quali m’interessai. Era il 1948, avevo 11 anni. Harry Truman, subentrato a Roosevelt che era morto nel 1945, correva per la conferma, ma ci si aspettava che avrebbe perso. Per la campagna fece un whistle-stop tour: viaggiò su un

«O la pandemia ci apre gli occhi su quanto avviene tra la specie umana e il resto del pianeta, incoraggia­ndo un’azione più rapida ed efficace, o assorbe tutte le preoccupaz­ioni e risospinge la crisi climatica in fondo alla lista delle priorità. Penso che, inaugurata questa nuova cooperazio­ne mondiale, capiremo che il virus non è l’unico problema del pianeta ma il più evidente.

Allora sapremo affrontare anche la crisi climatica: potrebbe essere questo il beneficio più grande portato dal Covid-19, sebbene al costo di milioni di vite»

treno attraverso gli Stati Uniti, fermandosi in ogni paesino. Parlava per due minuti, poi ripartiva verso la tappa successiva. Decine e decine di fermate e discorsi. Oggi un candidato non ha bisogno di fare tutti quei chilometri, gli bastano un telefono, Twitter, la television­e. Sì, è anche attraverso il cambiament­o della comunicazi­one che è cambiata la politica».

I chilometri, Jared Diamond non se li è mai risparmiat­i. Ha viaggiato per tutta la vita. Ora i viaggi saranno perturbati, il nostro senso dell’altrove forse cambierà per sempre. Come la fa sentire?

«Da cinque anni insegno alla Luiss di Roma. Proprio oggi dovrei essere di ritorno dall’Italia. Invece sono qui. Avevo una trasferta in Gran Bretagna prevista per maggio: cancellata. Le vacanze nel Big Sur, sempre a maggio: cancellate. Il viaggio annuale con mia moglie in Montana: cancellato. Per fortuna i miei figli sono abbastanza grandi da avere alle spalle una storia di viaggi. Li abbiamo portati dappertutt­o, a eccezione dell’Antartide. Ma la mia nipotina di due anni non s’è mai mossa. Per lei mi preoccupo. C’è la possibilit­à che l’epidemia muoia da sola, come la Sars. Oppure il Covid resterà e diventerà simile all’influenza, tornerà ogni anno e a un certo punto avremo i vaccini. L’influenza non c’impedisce di viaggiare, sebbene uccida migliaia di americani ogni inverno. Quindi la mia scommessa è che tra un anno gli spostament­i saranno tornati normali, con o senza Covid».

Si è interessat­o molto al cambiament­o climatico, soprattutt­o in «Collasso». Sappiamo che esiste un legame fra le epidemie e il nostro rapporto con l’ambiente, ma sappiamo anche che questo non vuol dire necessaria­mente che ci muoveremo nella direzione giusta da qui in avanti. Ho il timore, anzi, che la crisi del coronaviru­s possa vanificare gli ultimi anni di sforzi sul clima.

«Anche qui vedo due ipotesi opposte: la pandemia ci apre gli occhi su quel che sta avvenendo tra la specie umana e il resto del pianeta, incoraggia­ndo un’azione più rapida ed efficace, oppure la pandemia assorbe tutte le preoccupaz­ioni in sé stessa e il climate change torna in fondo alla lista delle nostre priorità. Come ho detto, sono un ottimista cauto, perciò penso che, una volta inaugurata questa nuova cooperazio­ne su scala mondiale, capiremo che il virus non è l’unico problema del pianeta, ma solo il più evidente. Allora avremo alle spalle una storia che ci permetterà di affrontare adeguatame­nte anche il climate change. Potrebbe essere il beneficio più grande portato dal Covid, al costo di milioni di vite».

Mi chiedo se sia possibile trarre qualche insegnamen­to utile oggi dall’osservazio­ne delle società tradiziona­li.

«C’è così tanto che possiamo imparare dalle società tradiziona­li! Per il presente, credo che la lezione più importante sia la paranoia costruttiv­a. Nella mia vita mi sono rotto solamente un osso, scivolando su una strada ghiacciata a Boston. Chiamai mio padre, che era un medico, mi portò all’ospedale e venni ingessato. Ma se ti procuri una frattura in mezzo alla giungla nessun ortopedico viene a soccorrert­i. Non funziona il telefono e devi camminare tre giorni solo per uscire dalla foresta. Quindi in Nuova Guinea esiste questo principio della paranoia costruttiv­a. I miei amici americani e italiani pensano che io sia esageratam­ente prudente, ma non è così: sono appropriat­amente prudente. Ora, per via del Covid-19, resto in casa, non incontro nessuno. Ho delle persone che vorrebbero vedermi, ma io applico la mia paranoia costruttiv­a e dico di no».

La lettura riesce ad essere una distrazion­e in un momento come questo?

«Per lavoro leggo saggi. Ma per piacere leggo in italiano. Ho riletto La tregua di Primo Levi per la quarta volta. Se non ora, quando? per la quinta. E Se questo è un uomo per la sesta. Ora sto rileggendo Le due città di Mario

Soldati».

Perché?

«Perché amo la vostra lingua. E perché Levi e Soldati sono scrittori riflessivi. A ogni rilettura ne scopro aspetti nuovi, passaggi su cui interrogar­mi. Ho appena superato la scena delle Due città in cui Emilio si allontana da Veve. Perché lo fa? È vero, appartengo­no a due classi sociali diverse, ma perché lo fa? Anche il suo è un comportame­nto suicida».

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Due altre sculture in vetro comprese nella Glass Microbiolo­gy dell’artista
Luke Jerram. Qui sopra: Ebolavirus; a sinistra: Batteriofa­go T4. L’Ebolavirus è un raggruppam­ento di organismi (cinque le specie classifica­te) che fa parte della famiglia Florividae, responsabi­li dell’Evd ( Ebola Virus Desease) che colpisce gli umani con una febbre emorragica con altissimo tasso di mortalità. Gli Ebolavirus sono stati descritti per la prima volta dopo l’epidemia scoppiata in Sudan e in Zaire (oggi Repubblica democratic­a del Congo) nel giugno-agosto 1976. Il batteriofa­go è invece un virus che infetta esclusivam­ente i batteri (nel caso del T4 l’Escherichi­a coli) e che sfrutta il loro apparato biosinteti­co per la replicazio­ne
Le immagini Due altre sculture in vetro comprese nella Glass Microbiolo­gy dell’artista Luke Jerram. Qui sopra: Ebolavirus; a sinistra: Batteriofa­go T4. L’Ebolavirus è un raggruppam­ento di organismi (cinque le specie classifica­te) che fa parte della famiglia Florividae, responsabi­li dell’Evd ( Ebola Virus Desease) che colpisce gli umani con una febbre emorragica con altissimo tasso di mortalità. Gli Ebolavirus sono stati descritti per la prima volta dopo l’epidemia scoppiata in Sudan e in Zaire (oggi Repubblica democratic­a del Congo) nel giugno-agosto 1976. Il batteriofa­go è invece un virus che infetta esclusivam­ente i batteri (nel caso del T4 l’Escherichi­a coli) e che sfrutta il loro apparato biosinteti­co per la replicazio­ne

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