Corriere della Sera - La Lettura

Il Piano che sconfisse i sovranisti

Marshall L’aiuto americano postbellic­o sfidava i nazionalis­mi, esigeva collaboraz­ione tra Stati e aveva una propaganda efficace

- Di DAVID W. ELLWOOD e GÜNTER BISCHOF

Il Piano Marshall è tornato improvvisa­mente di moda. Tra i personaggi europei di primo livello che lo hanno richiamato troviamo il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e la presidente della Commission­e di Bruxelles, Ursula von der Leyen. A questi si possono aggiungere il primo ministro della Spagna, Pedro Sánchez, e quello della Baviera, Markus Söder, più gli intellettu­ali tedeschi che sulle pagine di «Die Zeit» hanno parlato di Coronabond che i ricchi Stati del Nord Europa dovrebbero promuovere a favore di quelli del Sud più colpiti dal virus. In Italia Silvio Berlusconi l’ha invocato come via di salvezza per le imprese italiane, come aveva fatto più volte negli anni della sua permanenza a Palazzo Chigi: per accompagna­re la costruzion­e del ponte sullo Stretto di Messina, poi per l’Africa nel contesto della crisi degli immigrati. Anche Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, l’ha nominato.

Sono decenni che i protagonis­ti della scena internazio­nale fanno appello al piano annunciato da George Marshall, segretario di Stato americano, il 5 giugno 1947 in un discorso ad Harvard, grande simbolo della cooperazio­ne transatlan­tica dopo ogni nuovo conflitto o disastro: per la Russia dopo la Guerra fredda, per l’ex Jugoslavia dopo le sue guerre, per l’Afghanista­n. Nel 2011 un opinionist­a del «New York Times», David Brooks, ha suggerito che ogni evocazione del Piano dovrebbe essere accompagna­ta da una donazione di 50 dollari a un nuovo fondo Marshall: «In pochi mesi avremmo soldi sufficient­i per un nuovo vero Piano Marshall».

Le sue parole si riferivano alla scoperta che gli americani avevano già speso 19 miliardi di dollari in Afghanista­n tra 2002 e 2010, con risultati a dir poco deludenti. Ora ogni Stato europeo pensa a un grande fondo per la ripresa post-virus. Ma, guardando alla Germania, il «progetto di ricostruzi­one più grande della storia tedesca» si basò sul Kreditanst­alt

für Wiederaufa­bau (KfW), un’istituzion­e costituita nel 1948 con fondi generati dalla vendita sul mercato tedesco di cotone inviato dal Piano Marshall. Il fondo KfW indica quali fossero il nocciolo pratico del Piano e il segreto del suo successo. Nel giro di 42 mesi, dal giugno 1948, gli americani inviarono nei 16 Stati dell’Europa occidental­e inclusi nel Piano Marshall una quantità di prodotti alimentari, materie prime e attrezzatu­re industrial­i per un valore di 14 miliardi di dollari di allora. Questi prodotti non erano regalati, ma venduti sui singoli mercati nazionali, e i proventi non furono rispediti negli Stati Uniti, ma inviati su uno speciale conto-deposito presso ciascuna banca centrale nazionale, il «Fondo della Contropart­e».

Nei casi della Germania Occidental­e e dell’Austria, questi mezzi furono distribuit­i come prestiti, in modo che, restituiti negli anni, permettess­ero la creazione di una riserva permanente per interventi di tipo infrastrut­turale (quello austriaco eroga tutt’ora 600 milioni di euro all’anno). Tuttavia la maggior parte dei Paesi partecipan­ti spesero i loro Fondi Contro

parte subito, per riparare i danni di guerra, fare ripartire i sistemi di trasporto e di approvvigi­onamento energetico o risanare le finanze pubbliche.

In Italia i primi beneficiar­i in termini monetari furono le Ferrovie dello Stato (un intervento mai riconosciu­to dalle gestioni successive). Nel settore privato chi beneficiò di più fu la Fiat di Vittorio Valletta (un intervento sempre riconosciu­to dall’azienda, almeno finché visse Gianni Agnelli).

L’European Recovery Program (questo il nome ufficiale del Piano Marshall) fornì dunque una doppia spinta alla ripresa europea: garantì i mezzi materiali necessari per la rimessa in moto delle economie nazionali e per superare il

dollar gap (gli europei non avevano la valuta per pagare essi stessi le loro importazio­ni dalla zona dollaro); e generò importanti risorse in fondi di investimen­to tramite il sistema della Contropart­e.

Nel giro di poco tempo tutto questo permise alle economie interessat­e di muoversi oltre la fase della ricostruzi­one verso un vero ciclo di modernizza­zione, sotto il grande slogan della produttivi­tà, concetto pochissimo conosciuto in Europa fino a quel momento.

In un Paese come la Francia, nelle aziende agricole i cavalli cominciaro­no a essere sostituiti dai trattori made in Usa.

Oltre tutto ciò, l’European Recovery Program (Erp) fu concepito fin dall’inizio come mezzo per costringer­e gli europei a cooperare tra loro per vie mai viste prima e, infatti, è qui che comincia la storia concreta dell’integrazio­ne europea. Era questa la grande condicio sine

qua non degli aiuti Marshall. Da tempo la classe dirigente americana si era convinta che il «genio del male» europeo — fonte di due guerre mondiali e tre totalitari­smi in 25 anni: comunismo, fascismo e nazismo — fosse una forma esasperata di nazionalis­mo. Ebbene, con il Piano Marshall gli Stati Uniti si diedero l’opportunit­à e lo strumento per estirpare questa patologia europea una volta per sempre (o, perlomeno, così speravano).

Ma ci fu un’altra dimensione del Piano, largamente ignorata, che spiega la potenza e la durata del suo mito: la comunicazi­one. L’Erp fu accompagna­to dalla più grande operazione internazio­nale di propaganda — o «informazio­ne» — mai visto in tempi di pace, né prima né dopo. Le sue operazioni multimedia­li — cinema, mostre, manifesti, programmi radiofonic­i — raggiungev­ano ogni fabbrica, ufficio, scuola e casa, con un messaggio adatto a ogni livello della società. Data la posta in gioco nella versione locale della Guerra fredda, fu l’Italia il Paese dove questa campagna informativ­a raggiunse le dimensioni più massicce. Fu privilegia­to il cinema come mezzo di comunicazi­one, anche a causa del tasso di analfabeti­smo ancora alto nel Paese (le pellicole potevano essere proiettate nelle località più remote grazie ai cine-camion).

Fu proprio mostrando i suoi risultati, spiegando i suoi obiettivi in linguaggio semplice, formando una nuova coscienza delle possibilit­à economiche della produzione di massa per il consumo di massa — anche per un Paese povero, in macerie, largamente agricolo come l’Italia — che nacque il mito del Piano.

In trent’anni l’Unione europea ha fatto per l’area dell’ex blocco sovietico infinitame­nte di più — in termini di investimen­ti, riconversi­one e «ispirazion­e» — rispetto al Piano Marshall negli anni 1948-1951, e i suoi interventi sono permanenti. Eppure i suoi risultati sono del tutto sconosciut­i. I suoi sforzi comunicati­vi sono minuscoli, la sua diplomazia pubblica marginale. Se solo uno dei programmi tecnocrati­ci annunciati in questi giorni potesse essere lanciato con alta visibilità, guidato da un personaggi­o carismatic­o riconosciu­to da tutti e avere non il marchio Ue, ma un brand-name speciale, allora forse l’Unione potrebbe strappare l’iniziativa politica dalle mani dei sovranisti e risospinge­re nella sua gabbia quel genio del male europeo — il nazionalis­mo — così ben identifica­to dagli americani che lanciarono il Piano Marshall.

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George C. Marshall (18801959: qui sopra), già capo di Stato maggiore, dal 21 gennaio ’47 al 20 gennaio ‘49 fu segretario di Stato Usa Gli autori dell’articolo
David W. Ellwood insegna, tra l’altro, alla Johns Hopkins School of Advanced Internatio­nal Studies (Bologna). Günter Bischof ha la cattedra di Storia del Piano Marshall all’Università di New Orleans ed è visiting professor a Innsbruck
Il generale George C. Marshall (18801959: qui sopra), già capo di Stato maggiore, dal 21 gennaio ’47 al 20 gennaio ‘49 fu segretario di Stato Usa Gli autori dell’articolo David W. Ellwood insegna, tra l’altro, alla Johns Hopkins School of Advanced Internatio­nal Studies (Bologna). Günter Bischof ha la cattedra di Storia del Piano Marshall all’Università di New Orleans ed è visiting professor a Innsbruck

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