Corriere della Sera - La Lettura
Il Piano che sconfisse i sovranisti
Marshall L’aiuto americano postbellico sfidava i nazionalismi, esigeva collaborazione tra Stati e aveva una propaganda efficace
Il Piano Marshall è tornato improvvisamente di moda. Tra i personaggi europei di primo livello che lo hanno richiamato troviamo il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione di Bruxelles, Ursula von der Leyen. A questi si possono aggiungere il primo ministro della Spagna, Pedro Sánchez, e quello della Baviera, Markus Söder, più gli intellettuali tedeschi che sulle pagine di «Die Zeit» hanno parlato di Coronabond che i ricchi Stati del Nord Europa dovrebbero promuovere a favore di quelli del Sud più colpiti dal virus. In Italia Silvio Berlusconi l’ha invocato come via di salvezza per le imprese italiane, come aveva fatto più volte negli anni della sua permanenza a Palazzo Chigi: per accompagnare la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, poi per l’Africa nel contesto della crisi degli immigrati. Anche Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, l’ha nominato.
Sono decenni che i protagonisti della scena internazionale fanno appello al piano annunciato da George Marshall, segretario di Stato americano, il 5 giugno 1947 in un discorso ad Harvard, grande simbolo della cooperazione transatlantica dopo ogni nuovo conflitto o disastro: per la Russia dopo la Guerra fredda, per l’ex Jugoslavia dopo le sue guerre, per l’Afghanistan. Nel 2011 un opinionista del «New York Times», David Brooks, ha suggerito che ogni evocazione del Piano dovrebbe essere accompagnata da una donazione di 50 dollari a un nuovo fondo Marshall: «In pochi mesi avremmo soldi sufficienti per un nuovo vero Piano Marshall».
Le sue parole si riferivano alla scoperta che gli americani avevano già speso 19 miliardi di dollari in Afghanistan tra 2002 e 2010, con risultati a dir poco deludenti. Ora ogni Stato europeo pensa a un grande fondo per la ripresa post-virus. Ma, guardando alla Germania, il «progetto di ricostruzione più grande della storia tedesca» si basò sul Kreditanstalt
für Wiederaufabau (KfW), un’istituzione costituita nel 1948 con fondi generati dalla vendita sul mercato tedesco di cotone inviato dal Piano Marshall. Il fondo KfW indica quali fossero il nocciolo pratico del Piano e il segreto del suo successo. Nel giro di 42 mesi, dal giugno 1948, gli americani inviarono nei 16 Stati dell’Europa occidentale inclusi nel Piano Marshall una quantità di prodotti alimentari, materie prime e attrezzature industriali per un valore di 14 miliardi di dollari di allora. Questi prodotti non erano regalati, ma venduti sui singoli mercati nazionali, e i proventi non furono rispediti negli Stati Uniti, ma inviati su uno speciale conto-deposito presso ciascuna banca centrale nazionale, il «Fondo della Controparte».
Nei casi della Germania Occidentale e dell’Austria, questi mezzi furono distribuiti come prestiti, in modo che, restituiti negli anni, permettessero la creazione di una riserva permanente per interventi di tipo infrastrutturale (quello austriaco eroga tutt’ora 600 milioni di euro all’anno). Tuttavia la maggior parte dei Paesi partecipanti spesero i loro Fondi Contro
parte subito, per riparare i danni di guerra, fare ripartire i sistemi di trasporto e di approvvigionamento energetico o risanare le finanze pubbliche.
In Italia i primi beneficiari in termini monetari furono le Ferrovie dello Stato (un intervento mai riconosciuto dalle gestioni successive). Nel settore privato chi beneficiò di più fu la Fiat di Vittorio Valletta (un intervento sempre riconosciuto dall’azienda, almeno finché visse Gianni Agnelli).
L’European Recovery Program (questo il nome ufficiale del Piano Marshall) fornì dunque una doppia spinta alla ripresa europea: garantì i mezzi materiali necessari per la rimessa in moto delle economie nazionali e per superare il
dollar gap (gli europei non avevano la valuta per pagare essi stessi le loro importazioni dalla zona dollaro); e generò importanti risorse in fondi di investimento tramite il sistema della Controparte.
Nel giro di poco tempo tutto questo permise alle economie interessate di muoversi oltre la fase della ricostruzione verso un vero ciclo di modernizzazione, sotto il grande slogan della produttività, concetto pochissimo conosciuto in Europa fino a quel momento.
In un Paese come la Francia, nelle aziende agricole i cavalli cominciarono a essere sostituiti dai trattori made in Usa.
Oltre tutto ciò, l’European Recovery Program (Erp) fu concepito fin dall’inizio come mezzo per costringere gli europei a cooperare tra loro per vie mai viste prima e, infatti, è qui che comincia la storia concreta dell’integrazione europea. Era questa la grande condicio sine
qua non degli aiuti Marshall. Da tempo la classe dirigente americana si era convinta che il «genio del male» europeo — fonte di due guerre mondiali e tre totalitarismi in 25 anni: comunismo, fascismo e nazismo — fosse una forma esasperata di nazionalismo. Ebbene, con il Piano Marshall gli Stati Uniti si diedero l’opportunità e lo strumento per estirpare questa patologia europea una volta per sempre (o, perlomeno, così speravano).
Ma ci fu un’altra dimensione del Piano, largamente ignorata, che spiega la potenza e la durata del suo mito: la comunicazione. L’Erp fu accompagnato dalla più grande operazione internazionale di propaganda — o «informazione» — mai visto in tempi di pace, né prima né dopo. Le sue operazioni multimediali — cinema, mostre, manifesti, programmi radiofonici — raggiungevano ogni fabbrica, ufficio, scuola e casa, con un messaggio adatto a ogni livello della società. Data la posta in gioco nella versione locale della Guerra fredda, fu l’Italia il Paese dove questa campagna informativa raggiunse le dimensioni più massicce. Fu privilegiato il cinema come mezzo di comunicazione, anche a causa del tasso di analfabetismo ancora alto nel Paese (le pellicole potevano essere proiettate nelle località più remote grazie ai cine-camion).
Fu proprio mostrando i suoi risultati, spiegando i suoi obiettivi in linguaggio semplice, formando una nuova coscienza delle possibilità economiche della produzione di massa per il consumo di massa — anche per un Paese povero, in macerie, largamente agricolo come l’Italia — che nacque il mito del Piano.
In trent’anni l’Unione europea ha fatto per l’area dell’ex blocco sovietico infinitamente di più — in termini di investimenti, riconversione e «ispirazione» — rispetto al Piano Marshall negli anni 1948-1951, e i suoi interventi sono permanenti. Eppure i suoi risultati sono del tutto sconosciuti. I suoi sforzi comunicativi sono minuscoli, la sua diplomazia pubblica marginale. Se solo uno dei programmi tecnocratici annunciati in questi giorni potesse essere lanciato con alta visibilità, guidato da un personaggio carismatico riconosciuto da tutti e avere non il marchio Ue, ma un brand-name speciale, allora forse l’Unione potrebbe strappare l’iniziativa politica dalle mani dei sovranisti e risospingere nella sua gabbia quel genio del male europeo — il nazionalismo — così ben identificato dagli americani che lanciarono il Piano Marshall.