Corriere della Sera - La Lettura
Lezioni dal divano: fine degli alibi digitali
Distanziamento didattico Sull’informatica ci siamo spesso divisi tra entusiasti, ma superficiali, e scettici, ma prevenuti. L’accelerazione sperimentata in queste settimane da studenti e docenti ci impone una vera presa di coscienza. Che, forse, è già mat
«Verrà un giorno, e non è molto lontano, in cui potremo concludere affari, studiare, conoscere il mondo e le sue culture, assistere a importanti spettacoli, stringere amicizie, visitare i negozi del quartiere e mostrare fotografie a parenti lontani senza muoverci dalla scrivania o dalla poltrona». Quel giorno è arrivato già da un po’ ma quando Bill Gates scriveva queste parole era molto difficile immaginare che sarebbe successo davvero. L’edizione originale del suo La strada che porta a domani è del 1995. A quel tempo da noi il prefisso tele era associato più che altro alla televisione, e il trionfo elettorale di Berlusconi aveva diffuso neologismi come telecrazia, teleincantatore, teleparlamento. L’anno dopo, in una Bustina di Minerva, Umberto Eco definiva l’email «una diavoleria telematica»: con quel tele che — tra stupore e ammirazione — si riferiva ora alla distanza coperta dalle parole scritte. Come nei vecchi telegrammi, certo: solo che adesso si potevano «mandare pagine e pagine, anche in Australia, al costo di una telefonata urbana, in pochi secondi». Telelavoro, teledidattica, teleconferenze e anche teleaperitivi: oggi la telematica ci sta salvando la vita. (Proprio come hanno fatto finora e speriamo facciano presto di nuovo i vaccini: altra idea fissa di Bill Gates, che così rappresenta l’ideale bersaglio incrociato di antivaccinisti e tecnofobi).
Te la do io la telematica
Anche etimologicamente, d’altra parte, la telematica proviene da quella che Gates chiamava «l’età dell’informazione»: figlia dell’incontro tra le telecomunicazioni e quell’informatica che a sua volta era nata dal fondersi in una sola parola — anche in quel caso, dapprima in francese — dell’informazione automatica. «La differenza fondamentale che contraddistinguerà l’informazione del futuro è che essa sarà quasi completamente digitale». Di qui l’idea di dedicare un intero capitolo all’Istru
zione: l’investimento più importante.
Facile ironizzare sul fatto che il consiglio potesse non essere disinteressato: «Oste, è buono il vino?», si dice a Roma in questi casi. Meno facile scherzare sul fatto che, un quarto di secolo dopo, l’Italia — non avendo investito abbastanza su questo tipo di sviluppo — si trovi, per coprire le distanze, a dover affannosamente recuperare il ritardo accumulato. I dati Istat sono impietosi: un terzo delle famiglie non ha in casa un pc o un tablet; due terzi dei ragazzi tra 14 e 17 anni mostra competenze digitali basse o di base. È il digital divide: quel ritardo nella tecnologia e nella competenza digitale che da noi si è accumulato fin dall’inizio ma è stato mascherato almeno in parte dalla diffusione del telefonino e dei suoi succedanei smart.
Il digitale e la luna
Eppure, fino a poco fa, c’era chi scriveva libri contro l’invadenza omologante del digitale nell’istruzione; chi considerava le Lim (Lavagne interattive multimediali) uno spreco di soldi; chi demonizzava l’uso dei tablet nella didattica; chi lanciava moniti sul possibile abbandono dell’insegnamento del corsivo. Si era scambiato il digitale per quel compulsivo digitare su una tastiera. Il digitale indicava il futuro, e invece si continuava a guardare il dito.
Ora, tutto d’un colpo, ci stiamo rendendo conto che era solo un’illusione ottica, e stiamo cominciando a capire cosa significa quel ritardo. Ci stiamo accorgendo che finora non abbiamo dato abbastanza importanza a questi aspetti: ne abbiamo sottovalutato le potenzialità o, al contrario, li abbiamo dati per scontati. La situazione che stiamo vivendo ci ha messo di fronte a una sfida e sta portando tutti — insegnanti e studenti — a fare nuove esperienze.
La prima volta che mi sono messo davanti al computer per cominciare una lezione a distanza, mi sono sentito terribilmente solo: temevo che dopo qualche minuto mi sarei messo a gridare aiuto, come Nanni Moretti quando — in quella scena di Sogni d’oro — viene chiuso in una stanza davanti alla telecamera accesa. Poi ho scoperto che, anche se non li riesco a vedere (o forse proprio per quello?), durante le lezioni gli studenti intervengono per iscritto più di quanto non facessero a voce in presenza.
Tuffi dalla piattaforma
Quando ho cominciato a usare la piattaforma digitale messa a disposizione dalla mia università, mi sono accorto che potevo condividere materiali didattici di ogni tipo: pagine web, video, documenti in ogni formato. Po
tevo assegnare esercitazioni e correggerle, somministrare test, fare sondaggi: collaborare in vari modi con gli studenti e renderli partecipi di vari tipi di progetto. Potevo, ma finora non l’avevo mai fatto.
Grazie ai compiti che le assegnano le sue maestre di quarta elementare, mia figlia ha cominciato a usare il computer per attività diverse dal guardare video e videogiochi: e non ha più smesso di sperimentare. Sta imparando a scrivere in Word, fa ricerche in internet, crea storie fatte di parole e immagini, riempie i suoi documenti di gattini e coniglietti semoventi. Tutto questo sta cambiando il suo rapporto con la tecnologia. Quando — avrà avuto tre-quattro anni — le avevo raccontato che al tempo in cui noi eravamo bambini il computer non esisteva, lei aveva sgranato i suoi occhioni e mi aveva detto: «Allora giocavate con l’ipèd?». Ora ha scoperto che con tablet e computer si possono fare molte altre cose interessanti oltre a giocare.
Ludismo e luddismo
Questo passaggio da una dimensione passiva a una attiva — dal giocare al fare, dal comunicare all’imparare — dovrebbe aiutarci finalmente a superare la contrapposizione tra quei due estremismi che si puntellano e
giustificano a vicenda. Il ludismo, appunto, e il luddismo: l’odio verso le macchine che — esploso più di due secoli fa, durante la rivoluzione industriale — non ha mai smesso di trovare proseliti. Da una parte l’identificazione tra le cosiddette nuove tecnologie e il gioco o la comunicazione giocosa: poco più che un passatempo; dall’altra l’idea che quelle tecnologie vadano tenute fuori dall’istruzione, proprio perché sarebbero soltanto una perdita di tempo.
È una vecchia storia, d’altronde: ogni rivoluzione tecnologica mette in crisi un paradigma culturale. Già nell’antica Grecia c’era chi se la prendeva con la scrittura, perché stava sostituendo la tradizionale cultura orale. E nel Rinascimento furono in tanti a demonizzare l’invenzione della stampa, considerata una pericolosa innovazione rispetto alla scrittura a mano. Marshall McLuhan, quello dello slogan «il mezzo è il messaggio», negli anni Sessanta del Novecento aveva preconizzato la rapida scomparsa del telefono: «Un irresistibile intruso capace di penetrare ovunque in qualsiasi momento». La diffidenza verso il nuovo è quasi inevitabile, perché il nuovo ci costringe a uno sforzo di comprensione e di adattamento: ci obbliga a rimettere in discussione le nostre convinzioni e le nostre abitudini. E questo è sempre faticoso.
Smupido è chi sa di non sapere
Le situazioni difficili, d’altra parte, hanno sempre richiesto uno sforzo per superare le distanze. E il pensiero va a situazioni ancor più drammatiche di questa: come l’emigrazione di massa o la guerra, in cui la disperata necessità di comunicare con i propri cari ha portato tante persone a cimentarsi faticosamente con la lettura e con la scrittura.
Oggi la distanza da superare non è tanto quella fisica, quanto quella tra le generazioni. Riuscire a usare i nuovi strumenti per trasmettere — e ampliare — quelle conoscenze e quelle competenze che riteniamo fondamentali per la nostra cultura. Senza cadere ancora una volta nel pregiudizio universale per cui chi viene dopo di noi dev’essere sempre più stupido. O smupido, come si sente dire oggi, ricalcando una parola inglese formata da
smart e stupid. Parola a cui, peraltro, il suo inventore (lo scrittore canadese Douglas Coupland, quello di Genera
zione X) aveva dato un significato diverso e quasi opposto: la sensazione di smarrimento che si prova di fronte allo sterminato sapere digitale. «Una possibile spiegazione della smupidità è che le persone sono generalmente molto più consapevoli di quanto non siano mai state di tutte le informazioni che non conoscono».