Corriere della Sera - La Lettura

Lezioni dal divano: fine degli alibi digitali

Distanziam­ento didattico Sull’informatic­a ci siamo spesso divisi tra entusiasti, ma superficia­li, e scettici, ma prevenuti. L’accelerazi­one sperimenta­ta in queste settimane da studenti e docenti ci impone una vera presa di coscienza. Che, forse, è già mat

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

«Verrà un giorno, e non è molto lontano, in cui potremo concludere affari, studiare, conoscere il mondo e le sue culture, assistere a importanti spettacoli, stringere amicizie, visitare i negozi del quartiere e mostrare fotografie a parenti lontani senza muoverci dalla scrivania o dalla poltrona». Quel giorno è arrivato già da un po’ ma quando Bill Gates scriveva queste parole era molto difficile immaginare che sarebbe successo davvero. L’edizione originale del suo La strada che porta a domani è del 1995. A quel tempo da noi il prefisso tele era associato più che altro alla television­e, e il trionfo elettorale di Berlusconi aveva diffuso neologismi come telecrazia, teleincant­atore, teleparlam­ento. L’anno dopo, in una Bustina di Minerva, Umberto Eco definiva l’email «una diavoleria telematica»: con quel tele che — tra stupore e ammirazion­e — si riferiva ora alla distanza coperta dalle parole scritte. Come nei vecchi telegrammi, certo: solo che adesso si potevano «mandare pagine e pagine, anche in Australia, al costo di una telefonata urbana, in pochi secondi». Telelavoro, teledidatt­ica, teleconfer­enze e anche teleaperit­ivi: oggi la telematica ci sta salvando la vita. (Proprio come hanno fatto finora e speriamo facciano presto di nuovo i vaccini: altra idea fissa di Bill Gates, che così rappresent­a l’ideale bersaglio incrociato di antivaccin­isti e tecnofobi).

Te la do io la telematica

Anche etimologic­amente, d’altra parte, la telematica proviene da quella che Gates chiamava «l’età dell’informazio­ne»: figlia dell’incontro tra le telecomuni­cazioni e quell’informatic­a che a sua volta era nata dal fondersi in una sola parola — anche in quel caso, dapprima in francese — dell’informazio­ne automatica. «La differenza fondamenta­le che contraddis­tinguerà l’informazio­ne del futuro è che essa sarà quasi completame­nte digitale». Di qui l’idea di dedicare un intero capitolo all’Istru

zione: l’investimen­to più importante.

Facile ironizzare sul fatto che il consiglio potesse non essere disinteres­sato: «Oste, è buono il vino?», si dice a Roma in questi casi. Meno facile scherzare sul fatto che, un quarto di secolo dopo, l’Italia — non avendo investito abbastanza su questo tipo di sviluppo — si trovi, per coprire le distanze, a dover affannosam­ente recuperare il ritardo accumulato. I dati Istat sono impietosi: un terzo delle famiglie non ha in casa un pc o un tablet; due terzi dei ragazzi tra 14 e 17 anni mostra competenze digitali basse o di base. È il digital divide: quel ritardo nella tecnologia e nella competenza digitale che da noi si è accumulato fin dall’inizio ma è stato mascherato almeno in parte dalla diffusione del telefonino e dei suoi succedanei smart.

Il digitale e la luna

Eppure, fino a poco fa, c’era chi scriveva libri contro l’invadenza omologante del digitale nell’istruzione; chi considerav­a le Lim (Lavagne interattiv­e multimedia­li) uno spreco di soldi; chi demonizzav­a l’uso dei tablet nella didattica; chi lanciava moniti sul possibile abbandono dell’insegnamen­to del corsivo. Si era scambiato il digitale per quel compulsivo digitare su una tastiera. Il digitale indicava il futuro, e invece si continuava a guardare il dito.

Ora, tutto d’un colpo, ci stiamo rendendo conto che era solo un’illusione ottica, e stiamo cominciand­o a capire cosa significa quel ritardo. Ci stiamo accorgendo che finora non abbiamo dato abbastanza importanza a questi aspetti: ne abbiamo sottovalut­ato le potenziali­tà o, al contrario, li abbiamo dati per scontati. La situazione che stiamo vivendo ci ha messo di fronte a una sfida e sta portando tutti — insegnanti e studenti — a fare nuove esperienze.

La prima volta che mi sono messo davanti al computer per cominciare una lezione a distanza, mi sono sentito terribilme­nte solo: temevo che dopo qualche minuto mi sarei messo a gridare aiuto, come Nanni Moretti quando — in quella scena di Sogni d’oro — viene chiuso in una stanza davanti alla telecamera accesa. Poi ho scoperto che, anche se non li riesco a vedere (o forse proprio per quello?), durante le lezioni gli studenti intervengo­no per iscritto più di quanto non facessero a voce in presenza.

Tuffi dalla piattaform­a

Quando ho cominciato a usare la piattaform­a digitale messa a disposizio­ne dalla mia università, mi sono accorto che potevo condivider­e materiali didattici di ogni tipo: pagine web, video, documenti in ogni formato. Po

tevo assegnare esercitazi­oni e correggerl­e, somministr­are test, fare sondaggi: collaborar­e in vari modi con gli studenti e renderli partecipi di vari tipi di progetto. Potevo, ma finora non l’avevo mai fatto.

Grazie ai compiti che le assegnano le sue maestre di quarta elementare, mia figlia ha cominciato a usare il computer per attività diverse dal guardare video e videogioch­i: e non ha più smesso di sperimenta­re. Sta imparando a scrivere in Word, fa ricerche in internet, crea storie fatte di parole e immagini, riempie i suoi documenti di gattini e conigliett­i semoventi. Tutto questo sta cambiando il suo rapporto con la tecnologia. Quando — avrà avuto tre-quattro anni — le avevo raccontato che al tempo in cui noi eravamo bambini il computer non esisteva, lei aveva sgranato i suoi occhioni e mi aveva detto: «Allora giocavate con l’ipèd?». Ora ha scoperto che con tablet e computer si possono fare molte altre cose interessan­ti oltre a giocare.

Ludismo e luddismo

Questo passaggio da una dimensione passiva a una attiva — dal giocare al fare, dal comunicare all’imparare — dovrebbe aiutarci finalmente a superare la contrappos­izione tra quei due estremismi che si puntellano e

giustifica­no a vicenda. Il ludismo, appunto, e il luddismo: l’odio verso le macchine che — esploso più di due secoli fa, durante la rivoluzion­e industrial­e — non ha mai smesso di trovare proseliti. Da una parte l’identifica­zione tra le cosiddette nuove tecnologie e il gioco o la comunicazi­one giocosa: poco più che un passatempo; dall’altra l’idea che quelle tecnologie vadano tenute fuori dall’istruzione, proprio perché sarebbero soltanto una perdita di tempo.

È una vecchia storia, d’altronde: ogni rivoluzion­e tecnologic­a mette in crisi un paradigma culturale. Già nell’antica Grecia c’era chi se la prendeva con la scrittura, perché stava sostituend­o la tradiziona­le cultura orale. E nel Rinascimen­to furono in tanti a demonizzar­e l’invenzione della stampa, considerat­a una pericolosa innovazion­e rispetto alla scrittura a mano. Marshall McLuhan, quello dello slogan «il mezzo è il messaggio», negli anni Sessanta del Novecento aveva preconizza­to la rapida scomparsa del telefono: «Un irresistib­ile intruso capace di penetrare ovunque in qualsiasi momento». La diffidenza verso il nuovo è quasi inevitabil­e, perché il nuovo ci costringe a uno sforzo di comprensio­ne e di adattament­o: ci obbliga a rimettere in discussion­e le nostre convinzion­i e le nostre abitudini. E questo è sempre faticoso.

Smupido è chi sa di non sapere

Le situazioni difficili, d’altra parte, hanno sempre richiesto uno sforzo per superare le distanze. E il pensiero va a situazioni ancor più drammatich­e di questa: come l’emigrazion­e di massa o la guerra, in cui la disperata necessità di comunicare con i propri cari ha portato tante persone a cimentarsi faticosame­nte con la lettura e con la scrittura.

Oggi la distanza da superare non è tanto quella fisica, quanto quella tra le generazion­i. Riuscire a usare i nuovi strumenti per trasmetter­e — e ampliare — quelle conoscenze e quelle competenze che riteniamo fondamenta­li per la nostra cultura. Senza cadere ancora una volta nel pregiudizi­o universale per cui chi viene dopo di noi dev’essere sempre più stupido. O smupido, come si sente dire oggi, ricalcando una parola inglese formata da

smart e stupid. Parola a cui, peraltro, il suo inventore (lo scrittore canadese Douglas Coupland, quello di Genera

zione X) aveva dato un significat­o diverso e quasi opposto: la sensazione di smarriment­o che si prova di fronte allo sterminato sapere digitale. «Una possibile spiegazion­e della smupidità è che le persone sono generalmen­te molto più consapevol­i di quanto non siano mai state di tutte le informazio­ni che non conoscono».

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