Corriere della Sera - La Lettura
Cari amici tedeschi combattiamo insieme
Distanziamento geografico Conosco bene la Germania, amo la sua cultura, la mia prima moglie viene da lì. Ci separano tanti luoghi comuni e tanti fantasmi. Ma non credo che Angela Merkel si farà condizionare da un gruppetto di banchieri olandesi
Un fantasma si aggira per l’Europa: è il virus antitedesco, lo spettro che minaccia l’Europa. Perché sappiamo bene che quando si sgretola il potere morale della Germania, con tutta la sua forza, è la stessa Europa che si sgretola. È un rischio per i tedeschi, ma anche per tutti noi. Giacché i tedeschi, soprattutto negli anni di Bonn, la piccola capitale della Germania divisa, il potere morale perduto con Hitler l’avevano rapidamente riconquistato grazie alla loro economia e, perché no, anche grazie alla loro cultura. È bene tenerlo a mente oggi, alla viglia di un Consiglio europeo che dovrà stabilire il livello e la capacità di solidarietà dell’Unione.
Fu il Gruppo 47 di Günter Grass e di Hans Magnus Enzensberger a ricordarci che prima di Hitler era esistita la Repubblica di Weimar, dove avevano agito scrittori come Bertolt Brecht e Thomas Mann, pittori come Otto Dix e Max Ernst, architetti come Walter Adolph Gropius e Ludwig Mies van der Rohe, musicisti come Paul Hindemith e Kurt Weil. Da lì, da quel gruppo di intellettuali fiorito sulle macerie della guerra perduta, era ripartita una spinta irresistibile al rinnovamento in chiave democratica del sapere universale. Non solo con la letteratura, ma anche con le arti visive, l’architettura, e naturalmente la musica, se non vogliamo dimenticare i famosi incontri di Darmstadt: aperti non solo al tedesco Karlheinz Stockhausen, ma anche al francese Pierre Boulez o all’italiano Bruno Maderna, che lì si ritrovarono a casa, in un clima di sperimentazioni culturali e civili che riscattava la stagione più buia. Se poi si mette in conto che presto sarebbero tornati gli ebrei dall’Est (almeno una parte) si può dire che la Germania aveva saldato il conto.
La stessa azione politica è stata improntata a questo sentimento fin dai tempi di Konrad Adenauer (cancelliere dal 1949 al 1963), certamente un conservatore ma altrettanto sicuramente un antinazista di ferro. Fu naturale che tutto accelerasse con l’accesso al potere dei socialdemocratici, quando il cancelliere Helmut Schmidt ( 1 9 7 4 - 1 9 8 2 ) , a s s i e me a l f r a n c e s e Va l é r y Gi s c a r d d’Estaing, pose le basi per un «serpente monetario» che avrebbe sollevato l’Europa in uno dei momenti più difficili della sua storia. Una storia che, almeno così pareva, aveva toccato il suo punto più alto con la genuflessione riparatrice di Willy Brandt (cancelliere dal 1969 al 1974) nel ghetto di Varsavia.
Neppure il ritorno della Cdu al governo, prima con Helmut Kohl (cancelliere della riunificazione del 1989) e poi con Angela Merkel, ha segnato una battuta d’arresto, in quanto è rimasta in piedi la vocazione democratica del Paese. Tanto che viene citato come un caso esemplare quello del conservatore Kohl che, in un momento di crisi economica, incrementò i fondi di una celebre orchestra (se non ricordo male la Filarmonica di Berlino) considerata dai più timorati un covo di comunisti. Mi pare per ciò impossibile che proprio la signora Merkel, figlia di un caritatevole pastore evangelico, della quale la mia amica Brigitte mi parla con rispetto tutte le mattine al telefono — un rispetto ampiamente condiviso da tanti europei —, si lasci ora trascinare in un limbo di indifferenza da un gruppuscolo di banchieri d’Olanda (i più ostinati avversari dei cosiddetti coronabond per sostenere la ripresta del dopo-virus), immemori della generosa, liberale accoglienza che il loro Paese seppe concedere in un tempo remoto a esuli e fuggiaschi di mezzo mondo, permettendo a Spinoza di riflettere e pensare per tutti in un’Europa almeno culturalmente integrata.
Il risultato è sotto i nostri occhi: la mia cara Germania, quasi certamente a torto, riaccende i timori di sempre. Non amo vivere di memorie. Non sono un saggista. Vivo come un privilegio la mia condizione di artista e di scrittore che attinge alle proprie viscere per capire dove stiamo andando, verso quale precipizio, e come possiamo fermarci.
Così non riesco a dimenticare che quando i miei genitori mi iscrissero alle medie, sulle rovine della Seconda guerra mondiale, fui inserito dal preside della mia scuola nella Sezione E, a studiare una lingua tedesca che era la lingua degli sconfitti. Gli altri ragazzi, provenienti da famiglie più in vista della mia, venivano smistati nella Sezione A (a studiare il francese) o nella Sezione B (inglese). Allora si sapeva molto poco di Auschwitz. Quasi niente. Appena un sentore di catastrofe e di tragedia. Eppure io, ancora in calzoncini corti, fui felice di essere capitato nella sezione dei perdenti, grazie a una professoressa messinese molto aperta alle domande degli studenti. Fu lei a parlarci di un grande poeta tedesco chia
mato Heinrich Heine e a dirci che si era fatto protestante. Senza informarci, tuttavia, che era di origine ebraica. Forse perché neppure lei lo sapeva. Precisò, d’altra parte, che Heine era con Goethe il poeta che meglio aveva usato la lingua tedesca. Una cosa che certamente sarebbe dispiaciuta a Hitler. La mia professoressa di tedesco era molto giovane e carina, ma il suo occhio destro era offuscato da una minuscola macchia bianca che s’era procurata da sola giocando in campagna sotto una siepe di rovi. Ma l’occhio sinistro era bellissimo e nero e lo spalancava in un sorriso quando ci parlava della straordinaria amicizia intellettuale tra Goethe e Schiller o ci leggeva La meravigliosa storia di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso. E noi spalancavamo i nostri occhi di bambini più di quanto lei spalancasse il suo. Li spalancammo ancora di più quando, in quarta ginnasio, un’altra insegnante ci lesse le struggenti parole di Schiller: «Possono trattarci umilmente, non umiliarci».
Certo non bastarono quei pochi anni di studio (un’ora alla settimana) per imparare una lingua così complessa. Ma furono più che sufficienti per instillarmi un amore assoluto per la cultura tedesca.
Quelle poche parole che ero riuscito comunque a imparare dovevano servirmi, già adulto, quando incontrai a Milano una studentessa di nome Brigitte, l’amica mattutina della quale parlavo. Proveniva dall’accademia di Belle arti di Karlsruhe e conosceva l’italiano perfettamente: questa circostanza mi avrebbe impedito definitivamente di approfondire la sua lingua, anche quando, anni dopo, sarebbe diventata la mia prima moglie. Racconto tutto questo per dire che l’evidenza smentisce quasi sempre il luogo comune, e il luogo comune, negli anni Sessanta, era che i tedeschi fossero tutti nazisti e feroci. Io stesso, pur avendo sposato una tedesca, ne ero in qualche modo vittima, e quando incontravo a Brema o a Francoforte mio suocero, Herr Doktor Wilhelm Kopp, meteorologo e docente universitario, la sua faccia mi insospettiva. Invece era un uomo buono e gentile, solo un po’ burbero, come la moglie Luise, timida e chiusa, che faceva la farmacista e quando poteva regalava medicine sottobanco agli immigrati italiani sbarcati in cerca di lavoro. Seppi anche, in quegli anni di matrimonio, che Brigitte aveva contratto la tubercolosi sotto i bombardamenti di Berlino (dove all’epoca viveva) e per guarire era andata in Svizzera presso parenti che l’avevano accolta come una figlia. Se poi rivedo le fotografie berlinesi di Brigitte, ce n’è almeno una che mi ricorda un episodio che lei non ha mai raccontato a nessuno e solo tanti anni dopo ha avuto il coraggio di confidare a me.
L’immagine è quella di una ragazzina con grandi occhi melanconici e una coroncina di trecce in testa. Accanto a lei c’è una ragazzina identica, con gli stessi occhi e le stesse treccine, sua compagna di banco alle elementari. Un giorno — c’era la guerra — quella bambina la prese per mano e, spinta da chissà quale ispirazione, le chiese di accompagnarla fuori. Brigitte la seguì finché entrarono in un cunicolo buio e profondo che pareva non finisse mai. Camminarono a lungo, mano nella mano, come in una fiaba dei fratelli Grimm. Alla fine lo spazio si allargò in una stanza luminosa con tante candele accese e i rotoli della Torah aperti su un altare di fortuna. Brigitte era troppo giovane per sapere che la sua compagna l’aveva trascinata in una sinagoga clandestina. Lo capirà molti anni dopo, come capirà più tardi che il custode di quello spazio catacombale, munito di barbone bianco, riccioli e kippah, era in realtà uno degli ultimi rabbini rimasti a Berlino. L’uomo si gonfiò di collera per l’imprudenza della sua piccola correligionaria che, un po’ per affetto, un po’ per eccesso di sicurezza, si era fidata di una compagna non ebrea che poteva diventare anche involontariamente una spia. Così il povero rabbino fu costretto a terrorizzare anche Brigitte, minacciandola addirittura di morte se avesse svelato a qualcuno, genitori compresi, ciò che aveva visto quella mattina. Brigitte mi ha giurato, anche di recente, che ha mantenuto il segreto per più di settant’anni. Io sono stato il primo al quale lo ha confidato. Non posso che crederle. Primo: perché è una donna leale. Secondo: perché i tedeschi sono così. Molti (non tutti per fortuna) preferiscono non sapere e non vedere, come molti italiani. Mentre oggi è arrivato il momento, anche per loro, di sapere e di vedere prima che sia tardi. Se è vero, come qualcuno sostiene, che questa contro il coronavirus è una guerra, vorrei suggerire ai miei amici tedeschi di stare attenti: evitiamo, tutti insieme, di alimentarla.