Corriere della Sera - La Lettura

Ci hanno uccisi molte volte Succederà ancora

La vita di cinque milioni di nativi americani è messa a dura prova dal coronaviru­s. No, dice Tommy Orange, scrittore dei Cheyenne del Sud, non c’è giustizia: come possiamo lavarci se non abbiamo acqua? Come possiamo isolarci se non abbiamo spazi suffici

- Di MARCO BRUNA

Per un popolo segnato dalle cicatrici della storia, i fantasmi del passato ritornano sempre sotto nuove forme. La vita di cinque milioni di nativi americani è oggi messa a dura prova dalla minaccia del Covid-19, che negli Stati Uniti ha già fatto oltre trentamila vittime tra t ut t a l a popolazi one. Un quarto dei membri delle 574 tribù indigene d’America sotto i 65 anni non è coperto da un’assicurazi­one sanitaria. Nelle riserve, oltre trecento, non c’è acqua corrente a sufficienz­a per tutti. Per lavarsi le mani spesso si deve usare la stessa acqua con cui si cucina e si pulisce. La mancanza di elettricit­à in alcune aree non permette di rifornire i frigorifer­i; gli spazi ristretti nei quali vivono famiglie multigener­azionali rappresent­ano il primo veicolo di contagio. Il Covid-19 rischia di aggravare i problemi endemici dei nativi, risultato di secoli di discrimina­zioni: tassi vertiginos­i di diabete e di cancro, malattie cardiache al di sopra della media, crisi d’asma.

Come i l va i ol o port a to dal l ’ uomo bianco nei secoli scorsi, il coronaviru­s può essere la nuova condanna a morte dei first peoples del Nord America. Gli Oglala Sioux del South Dakota, una delle sette tribù Lakota, sono cinquantam­ila e hanno a disposizio­ne 24 test per il Covid-19 e sei ventilator­i al Pine Ridge Hospital. I Cherokee dell’Oklahoma (Tsalagihi Ayeli) hanno chiuso i loro dieci casinò, attività che ne garantisce la sopravvive­nza. La nazione Navajo (Diné), tra le più colpite finora con 38 morti ufficiali, può contare su 400 letti ospedalier­i per 170 mila membri.

«Le nostre terre sono la nostra vita e il nostro respiro. Se ce ne separiamo, ci separiamo dal nostro sangue». Le parole di un capo creek all’indomani dell’entrata in vigore della Northwest Ordinance del 1787, con cui il Congresso si preparava a conquistar­e il West, risuonano ancora oggi nell’America di Trump, dove la nuova battaglia si combatte contro un nemico senza volto.

Per fare il punto sulla situazione dei nativi, «la Lettura» ha raggiunto al telefono lo scrittore Tommy Orange nella sua casa della California centrale, vicino al parco nazionale di Yosemite. Orange appartiene ai Cheyenne del Sud. Il suo esordio nella narrativa, There There (2018, edito in Italia da Frassinell­i con il titolo Non qui, non altrove) è stato un caso editoriale: è un mosaico di storie con protagonis­ti dodici uomini e donne della comunità indigena di Oakland, dove

l’autore è nato nel 1982. Storie di violenza, di rabbia, di perdita.

Negli Usa, il Covid-19 è una minaccia soprattutt­o per le comunità ai margini della società: i nativi, gli afroameric­ani, i bianchi poveri o impoveriti. Come sta reagendo la sua tribù?

«La comunità rurale nella quale vivo è isolata e, per fortuna, non è stata ancora colpita in modo serio. Parlo spesso con mio padre, che vive in Oklahoma con mia sorella maggiore e i due figli di lei. Lui è molto attivo nella tribù, è un profondo conoscitor­e delle cerimonie tradiziona­li. Lo considero un “irriducibi­le della tradizione”. Sono sorpreso, e felice, che stia chiuso in casa. Mia sorella è più incauta, esce spesso. Un rischio che non dovrebbe correre, perché la mia famiglia soffre di seri problemi di immunodepr­essione. In Oklahoma la nostra tribù ha chiuso i casinò e ha organizzat­o una rete di aiuti per gli anziani, tra cui la consegna di generi alimentari a domicilio. Dicono di avere soldi a sufficienz­a per sopravvive­re altri quattro mesi senza un introito fisso. Quello di cui hanno bisogno, tuttavia, dovrebbe arrivare dal governo federale».

Qual è stata, finora, la risposta di Trump?

«Trump odia i nativi americani e non ha mai perso occasione per dimostrarl­o. Pensi che il presidente che più ammira è Andrew Jackson, che in lingua creek, ai primi dell’Ottocento, era soprannomi­nato “Sharp Knife” (coltello affilato, ndr) per la sua crudeltà. Jackson fu un incubo per la nostra gente. Approfitta­ndo di questo momento, dell’attenzione di tutti verso il coronaviru­s, Trump prova a sottrarci le nostre terre sacre per sfruttarne le risorse naturali. Ai Mashpee Wampanoag del Massachuse­tts ha già portato via oltre 120 ettari a fine marzo, mettendo a rischio la loro sovranità su quegli antichi territori. La crudeltà di questa amministra­zione non ha limiti».

I nativi si trovano a combattere una nuova battaglia, un’altra ancora. Come si fa a resistere dopo secoli di soprusi?

«Alcune tribù sono indipenden­ti e possono prendersi cura in maniera efficace della propria gente. Altre devono fare affidament­o soltanto sul governo federale. Spero nella generosità di chi ha di più. Migliaia di afroameric­ani e di poveri ai margini della società sono un facile bersaglio per il virus. Il razzismo prende forma anche durante emergenze come questa».

Può essere, questa, un’occasione per tornare a fare sentire la propria voce?

«Non è facile. In un mondo ideale sarebbe il momento migliore per pretendere di essere ascoltati e aiutati. Purtroppo abbiamo a che fare con un presidente che non ama essere contraddet­to e che non è capace di ascoltare. Chiunque lo abbia ostacolato politicame­nte non ha fatto una bella fine».

Se potesse parlare con un politico più ragionevol­e, che cosa gli direbbe?

«Chiederei a questa persona di distribuir­e in maniera più equa le risorse economiche. Chiederei a questa persona di consentire l’accesso al servizio sanitario pubblico a chi non è autosuffic­iente. Chiederei a questa persona di fare test per il Covid-19 a tappeto, innanzitut­to a coloro che sono più a rischio, non solo a chi se lo può permettere. Mi dispiace che Bernie Sanders abbia abbandonat­o la corsa democratic­a alle presidenzi­ali, le sue idee in materia di sanità pubblica andavano nella direzione giusta. Considero Joe Biden un democratic­o molto vicino all’universo repubblica­no».

I l c oronavirus è s t ato defi nito i l grande «equalizzat­ore», perché tutti noi siamo a rischio, indipenden­temente dal nostro status sociale.

«Sì, il virus può colpire chiunque; ma definirlo così è improprio. Molti nativi vivono in spazi ristretti, per loro mettersi in isolamento è impossibil­e; molti nativi non hanno accesso all’acqua: come possono lavarsi le mani così spesso come ci viene chiesto? I nativi, a differenza dei bianchi ricchi, non possiedono case di campagna dove ritirarsi. Siamo vittime ideali: il capitalism­o è crudele».

I governi di tutto il mondo hanno chiesto per settimane ai cittadini di stare a casa. Per uno scrittore l’isolamento è una condizione essenziale. Come vive questo periodo?

«Ho viaggiato molto in questi mesi per promuovere There There. Il mio ultimo evento pubblico è stato il 5 marzo. Avere la possibilit­à di trascorrer­e più tempo con mia moglie e mio figlio piccolo è oggi un grande sollievo. Abbiamo comprato questa casa, la nostra prima casa, a settembre: ci avrò passato due settimane in tutto. Da scrittore vivo l’isolamento in modo positivo, non sono una persona estroversa, ho bisogno di ritirarmi nel mio mondo e amo la solitudine. La quarantena mi permette anche di concentram­i sul secondo libro, che è un sequel del primo. Il titolo provvisori­o è

Wandering Stars (“Stelle erranti”); dovrei finirlo tra poco».

Che cosa racconta?

«Comincia dove finisce There There, dopo il grande powwow, un ritrovo tradiziona­le nativo che nel romanzo si era trasformat­o in una rapina finita male. Questa volta ho voluto esplorare il concetto di guarigione. Mi sono chiesto se si possa guarire da qualcosa di cui non si conosce l’origine, da qualcosa su cui nessuno è d’accordo. È il grande dramma dei nativi, la cui storia, la cui “malattia”, è narrata in molteplici versioni diverse. La nostra nazione deve guarire, e con essa i popoli nativi».

Da scrittore, lei ricrea il mondo attraverso le parole. Quale userebbe per descrivere il periodo che stiamo vivendo?

«Spine. In questo momento vedo un mondo pieno di spine. Ovunque tu vada, ne crescono sempre di più. Fanno paura e sono pericolose».

 ??  ?? Le opere
Qui sopra: Nicholas Galanin, The American
Dream is Alie and Well (2012, installazi­one, mixed media, courtesy dell’artista). Il titolo dell’opera è un gioco di parole tra i vocaboli inglesi lie (bugia) e alive (vivo): «Il sogno americano è una bugia e sta bene». Galanin (1979) è un artista e musicista nativo, membro della Sitka Tribe of Alaska. Le sue opere esplorano la difficile realtà delle comunità indigene degli Stati Uniti. Nella pagina accanto: Fritz Scholder, Indian Land
#4 (1973, acrilico su tela, courtesy dell’artista). Nato in Minnesota, Scholder (1937-2005) era per un quarto Luiseño, tribù originaria della California. È uno degli artisti che hanno catturato più in profondità la vita e le abitudini dei nativi americani
Le opere Qui sopra: Nicholas Galanin, The American Dream is Alie and Well (2012, installazi­one, mixed media, courtesy dell’artista). Il titolo dell’opera è un gioco di parole tra i vocaboli inglesi lie (bugia) e alive (vivo): «Il sogno americano è una bugia e sta bene». Galanin (1979) è un artista e musicista nativo, membro della Sitka Tribe of Alaska. Le sue opere esplorano la difficile realtà delle comunità indigene degli Stati Uniti. Nella pagina accanto: Fritz Scholder, Indian Land #4 (1973, acrilico su tela, courtesy dell’artista). Nato in Minnesota, Scholder (1937-2005) era per un quarto Luiseño, tribù originaria della California. È uno degli artisti che hanno catturato più in profondità la vita e le abitudini dei nativi americani
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 ??  ?? Lo scrittore Tommy Orange (qui sopra: foto di Elena Seibert) è nato a Oakland, California, il 19 gennaio 1982. Nel 2018 ha esordito nella narrativa con There There, edito in Italia da Frassinell­i con il titolo Non qui, non altrove (traduzione di Stefano Bortolussi, pp. 336, € 18,90; sopra la copertina). In occasione dell’uscita del romanzo nel nostro Paese lo scrittore è stato intervista­to su «la Lettura» #375 (3 febbraio 2019). Tommy Orange è un membro dei Cheyenne del Sud. Si è laureato all’Institute of American Indian Arts di Santa Fe, New Mexico. Lo scorso anno ha vinto l’American Book Award, riconoscim­ento dedicato a scrittori che hanno raggiunto «eccezional­i risultati letterari». Vive con la moglie e il figlio a Murphys, California, ai piedi della Sierra Nevada Bibliograf­ia Tra i volumi usciti di recente sui nativi va segnalato Mondi perduti. Una storia dei nativi nordameric­ani 17001910 dello storico Aram Mattioli (traduzione di Elena Sciarra, Einaudi, 2019, pp. XII-370, € 32). A febbraio, Odoya ha mandato in libreria una nuova edizione di Tomahawk. Trent’anni di guerre nelle pianure, dello scrittore Paul I. Wellman (traduzione di Massimilia­no Brioschi, pp. 252, € 18)
Lo scrittore Tommy Orange (qui sopra: foto di Elena Seibert) è nato a Oakland, California, il 19 gennaio 1982. Nel 2018 ha esordito nella narrativa con There There, edito in Italia da Frassinell­i con il titolo Non qui, non altrove (traduzione di Stefano Bortolussi, pp. 336, € 18,90; sopra la copertina). In occasione dell’uscita del romanzo nel nostro Paese lo scrittore è stato intervista­to su «la Lettura» #375 (3 febbraio 2019). Tommy Orange è un membro dei Cheyenne del Sud. Si è laureato all’Institute of American Indian Arts di Santa Fe, New Mexico. Lo scorso anno ha vinto l’American Book Award, riconoscim­ento dedicato a scrittori che hanno raggiunto «eccezional­i risultati letterari». Vive con la moglie e il figlio a Murphys, California, ai piedi della Sierra Nevada Bibliograf­ia Tra i volumi usciti di recente sui nativi va segnalato Mondi perduti. Una storia dei nativi nordameric­ani 17001910 dello storico Aram Mattioli (traduzione di Elena Sciarra, Einaudi, 2019, pp. XII-370, € 32). A febbraio, Odoya ha mandato in libreria una nuova edizione di Tomahawk. Trent’anni di guerre nelle pianure, dello scrittore Paul I. Wellman (traduzione di Massimilia­no Brioschi, pp. 252, € 18)
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