Corriere della Sera - La Lettura
Noi, popoli della foresta rischiamo l’estinzione
Un regista, Milo Rau, era fino a poco tempo fa in Brasile per allestire la tragedia di Sofocle con il Movimento dei Lavoratori senza terra; uno scrittore, Angelo Ferracuti, da cinque anni attraversa l’Amazzonia per documentare il genocidio dei nativi: a
Sono cinque anni che il fotografo Giovanni Marrozzini ed io racc o n t i a mo l a v i t a d e i p o p o l i amazzonici attaccati da feroci taglialegna, invasi da spietati cercatori d’oro, abusati dal turismo invasivo, sradicati dalle compagnie petrolifere che inquinano i loro fiumi; ma anche la tenace resistenza di un mondo naturale contro quello artificiale dei consumi sfrenati del «Popolo della merce», come chiama noi abitanti dell’Occidente ricco lo sciamano Davi Kopenawa. E poi le loro cosmologie, i miti della creazione, gli habitat ancestrali, le culture e le sapienze millenarie di cui sono preziosi custodi.
Nei nostri molti viaggi siamo stati in Perù a Nauta dai Kukama, dai Matsés sul fiume Yaquerana, in Venezuela nelle riserve del popolo Pemón, in Bolivia con i Guaraní, e molte volte in Brasile, dentro la foresta a Catrimani con gli Yanomami, a São João do Tupé con i Dessana, a Imperatriz con i tenaci Guardiani Guajajara, nell’Acre dove il leader sindacale Chico Mendes è riuscito a creare l’unità dei popoli della foresta.
A fine aprile saremmo dovuti partire da Manaus con un battello e fare un lungo viaggio di due mesi lungo il Rio Negro fino a Rio Vaupés in Colombia, poi il Covid-19 ci ha bloccato. Nella nostra mappa c’era anche uno scalo a São Gabriel da Cachoeira, dove avremmo voluto raccontare l’ignobile turismo sessuale minorile di ricchi americani ed europei, un’altra violenza spaventosa, non troppo lontano da Santo Antônio do Içá, sempre nello Stato di Amazonas, dove è stato registrato il primo caso di coronavirus tra gli indigeni brasiliani, una ragazza di 19 anni dell’etnia Kukama che lavora nella sanità a contatto con le persone dei villaggi della regione. Ma all’ospedale di São Gabriel da Cachoeira non ci sono ventilatori, e un paziente in gravi condizioni dovrebbe essere trasferito a Manaus, un viaggio in barca di mille chilometri e tre giorni.
Per questo ho telefonato a Carlo Zacquini a Boa Vista, l’indigenista della Missione Consolata dove sono stato ospite un paio d’anni fa. L’ho trovato molto angosciato. «Gli Yanomami sono quasi tutti fuggiti nella foresta, a parte piccoli grup
pi marginalizzati che corrono un rischio molto grande... L’orientamento è restare nei villaggi, non andare in città…». Carlo arrivò qui giovanissimo nel 1965: c’era solo una baracca; mangiava frutta e cacciava tapiri. Assistette alla costruzione della Perimetrale Nord nel 1974: quella strada portò un’epidemia di morbillo e fu una strage, gli indios lo ricordano bene... «Oggi la storia sembra ripetersi. Un operatore sanitario, autista degli Yanomami, che accompagnava gli indios in città per gli esami medici, è morto di Covid-19».
In quei giorni dolorosi dell’epidemia di morbillo, Carlo camminò senza tregua nella foresta. Arrivò stremato in un villaggio sperduto: lì trovò i sopravvissuti di quattro comunità, la metà della popolazione. Erano morti adulti, donne, vecchi, ragazzi, «la più giovane era una bambina che avrà avuto cinque anni, ridotta uno scheletro», mi confessò allora sottovoce per pudore. Adesso ha paura: «Ci sono migliaia di cercatori d’oro nei territori degli Yanomami; il rischio di contagio è fortissimo».
Qualche giorno dopo mi ha scritto per dirmi che era morto il primo Yanomami, uno studente di 15 anni, Alvanei Xirixana — malnutrito, anemico, malarico. Sono popoli che hanno subito inaudite violenze, che il Libro Bianco del ministro Figueredo nel 1968 svelò al mondo: i Tapaunas, «spazzati via da “donazioni” di zucchero impregnato di arsenico»; o le comunità di Pataxó, «infettate con il vaiolo».
Raggiungo al telefono Luiz Ceppi, amico e compagno di lotte di Chico Mendes, in quarantena a Rio Branco, nell’Acre. Lo scorso anno facemmo un lungo viaggio con il suo fuoristrada nel nord-est del Brasile al confine con la Bolivia. «Quelli all’interno della foresta, sette-otto ore a piedi, sono meno attaccati, i seringueros
Kulina, Kaxinawá, non sono stati toccati; invece il 35% di quelli che vivono in città sono in pericolo», racconta. «A Santa Rosa di Lima ci sono tribù che sono rimaste in città. Hanno chiesto a tutti di tornare nelle loro terre, ma molti restano lì, perché lì lavorano e vivono in condizioni igieniche precarie, nelle palafitte, senza acqua potabile», dice accusando il presidente Bolsonaro che ha definito il virus «un’influenzuccia».
I popoli custodi dell’Amazzonia — ma anche di altre parti del mondo — sono in questo momento tra i più fragili e vulnerabili rispetto al coronavirus, denuncia Survival International, l’Ong che difende i diritti dei popoli indigeni di tutto il mondo, come gli Ayoreo del Paraguay, affetti da tubercolosi e altre malattie polmonari, o gli Innu in Canada, tarmati da diabete e ipertensione per la sedentarizzazione a cui li ha costretti con la forza il governo, mentre i Chenchu in India si stanno isolando nella foresta, così come gli Orang Rimba che vivono nel sud-est di Sumatra e gli Jarawa delle isole Andamane, per non dire dei popoli incontattati privi di difese immunitarie, che rischiano l’estinzione.
Le malattie respiratorie sono già la principale causa di morte per le comunità native. «Esiste un rischio incredibile che il virus si diffonda attraverso le comunità e le cancelli», afferma Sofia Mendonça, ricercatrice dell’Università Federale di San Paolo, intervistata dalla Bbc. «Chiunque sia un nostro vero amico conosce la nostra fragilità. Teniamo il coronavirus lontano dai villaggi», era scritto su uno striscione, apparso nei giorni scorsi su una strada nello Stato del Mato Grosso, appeso da indigeni Karajá.
Marivelton Baré, presidente della Federazione delle organizzazioni indigene di Rio Negro, afferma che molte comunità locali sono «in preda al panico». La leader indigena Célia Xabriabá ribatte: «Siamo preoccupati per i popoli incontattati, perché il coronavirus potrebbe portare al loro sterminio. Siamo consapevoli che la pandemia è una crisi per l’intera umanità, ma sappiamo bene che non moriranno tutti i brasiliani. Al contrario, per noi popoli indigeni, il virus costituisce una concreta minaccia di sterminio».
È ormai chiaro il rapporto tra il cambiamento climatico e le malattie, come le zoonosi, i salti di specie che producono virus, frutto della riduzione degli habitat naturali attraverso deforestazione, allevamenti intensivi, piantagioni. La prima volta che arrivai in Amazzonia con Giovanni, ci rendemmo conto che quel mondo stava diventando un luogo simbolico e cruciale per il destino della Terra, qualcosa che ci riguardava nel profondo, un concentrato di tutte le contraddizioni della globalizzazione, uno scontro di civiltà, di economie. «Il grande scandalo è che la foresta brucia, gridano gli occidentali — mi disse amaro Roland Polanco, ex deputato del Partito dei Lavoratori, quando andai a intervistarlo la corsa estate a Rio Branco — ma è per darvi la soia e la carne, l’Italia nell’ultimo anno ha import a to 25 mila to nnell a te di bue ve rde amazzonico». Anche Nara Baré, del Coordi na mento de i Po p o l i i ndi g e ni de l - l’Amazzonia brasiliana, ha lanciato un grido di allarme: «Continuiamo a ripetere che è nostro il sangue che viene versato per la soia e il legname destinati all’Europa. Siamo qui per dire che ogni importazione destinata all’Europa è bagnata con il nostro sangue. Basta!».
Claude Lévi-Strauss, l’autore di Tristi
tropici, lo aveva capito prima di tutti: «Cercando disperatamente di preservare le sue credenze e i suoi riti, lo sciamano yanomami crede di adoperarsi anche per la salvezza dei suoi più crudeli nemici», scrisse profetico già trent’anni fa. «Spetta a uno degli ultimi portavoce di una società — in via d’estinzione, come tante altre, a causa nostra — enunciare i principi di una saggezza da cui dipende, e siamo ancora pochi a comprenderlo, anche la nostra stessa sopravvivenza». (l’autore ringrazia Francesca Casella di Survival Italia e Barbara Cafferata)