Corriere della Sera - La Lettura
Guerra, locanda, eros Goldoni è uno solo
Itinerari Il commediografo veneziano trova una nuova vitalità nello streaming di questi giorni. Franco Cordelli ha visto «La casa nova» del Teatro del Veneto, eto, «La guerra» del Rossetti di Trieste e «La locandiera» del Teatro Due di Parma
Giorgio Strehler morì nel dicembre del 1996. Era la fine del Novecento. Con la fine del secolo declinava la modernità, andava spegnendosi il teatro che era nato con le sue regie. Ragazzo, vidi nel 1964 Vita di Galileo, me ne entusiasmai, lo ricordo bene, cominciai ad andare a teatro più spesso di quanto m’era consueto.
Con il tempo, molti anni dopo mi accorsi però che Strehler non lo amavo: una pura questione di gusto, o di sensibilità. Ma non solo. Tutti lo imitavano, tutti si limitavano a mettere in scena Brecht e Goldoni (Pirandello era il terzo, ma era a parte, non ne fu Strehler la causa). Questi autori presi a detestarli a prescindere, avevano invaso il campo, impedivano che si conoscessero altre drammaturgie, altro teatro.
Anche Goldoni, dunque, non godeva delle mie simpatie e per quanto possibile lo evitavo. Solo quando vidi, molti anni dopo la sua nascita, Temporale di Strindberg riproposto tale e quale da Enrico D’Amato, riguardo a Strehler mi feci un esame di coscienza. E prima, quando vidi La locandiera di Mario Missiroli e quella di Giancarlo Cobelli, l’esame di coscienza me l’ero già fatto a proposito di Goldoni.
Ero nato con l’avanguardia, con il Deafman Glance di Robert Wilson (era il suo primo spettacolo), e con i giovani registi romani, i tanti giovani che non ci sono più, e che la vita l’hanno rapidamente consumata per amore del teatro, Simone Carella, Giancarlo Nanni, Ugo Margio, Gianfranco Varetto, Memè Perlini, Giuliano Vasilicò, Leo De Berardinis. Nessuno di loro, ch’io rammenti, mise in scena un qualche Goldoni. Se lo fece, lo fece a modo suo, eliminandone quanto possibile, a lui ispirandosi e niente più: il loro credo (e il mio) era il teatro di regia, era la regia critica, anzi creativa.
Erano gli anni Settanta. Missiroli La locandiera lo aveva messo in scena nel 1972. Nelle note di regia così ne diceva: «Al posto della bonomia, del benpensantismo, della civetteria, dei buoni sentimenti, del crepuscolarismo, del lagunarismo, del garbo ecc: ambiguità e sesso, psicologia e denaro, schizofrenia, lacerazioni esistenziali e dialettica di classe». Così scrivevo io stesso nel 1989 quando Cobelli mise di nuovo in scena La locandie
ra: «Il primo tempo non è solo una festa degli occhi (con quel Velázquez, quel Caravaggio, quell’Ensor) ma anche una scura immagine di decadenza, di corruzione, di falsità morale e, in altri termini, una manifestazione di lungimiranza nello scoprire cosa si cela dietro il gioco drammaturgico, dietro la commedia di Mirandolina, la triste commedia della donna positiva, la commedia messa in atto dalla donna per ingannare sé stessa e il mondo».
Il primo a capirlo, a capire chi realmente sia Mirandolina, e chi sia Goldoni, fu non già Strehler ma Luchino Visconti nel 1952. Le consegne passarono ben presto a Strehler, al suo Arlecchino. Ed è con il regista triestino che comincia il bene e (per me) quanto di risicato, ossia e ancora, di piacevole, di garbo, di non così ambiguo ci fu nel Goldoni del Novecento.
Ve ne fu tanto, come ho detto, ve ne fu troppo, sempre nella stessa maniera aggraziata, quasi egli fosse uno scrittore d’intrattenimento. È di qui che nascono i due libri di uno studioso, Roberto Alonge: Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese del 2004 (Gar
zanti) e Goldoni il libertino del 2010 (Laterza). Alonge è
puntuale nel ripercorrere le tappe dell’evoluzione di quanto accadde, del pensiero su Goldoni. Ineccepibili sono le sue analisi della costanza con cui il nostro grande drammaturgo non perda occasione, a volte celandola, a volte giocando con straordinaria abilità e ampiezza di vedute, di smascherare la realtà delle cose, di rappresentare o ricordare come va il mondo. Pure (è una piccola parentesi di risentimento), Alonge non perde occasione di sottolineare quanto poco capirono nell’arco di mezzo secolo i critici militanti, i cronisti. Nessuno, dai maggiori a quelli di oggi, seppe cos’è stata la regia come arte autonoma rispetto alla drammaturgia. È per lui inconcepibile, si direbbe in un moto di arrendevolezza o peggio di conformismo di fronte ai valori accreditati, che la regia per quanto critica sia a sua volta alla critica soggetta. Non oso immaginare che cosa Alonge penserebbe di fronte al Goldoni di oggi, al Goldoni che è resuscitato dopo un quarto di secolo di latitanza dalle scene. Ve ne sono quattro in streaming. Essi sono I rusteghi del Friuli-Venezia Giulia, che mi è sfuggito; La casa nova del Teatro del Veneto; La guerra del Rossetti di Trieste; La
locandiera del Teatro Due di Parma.
I tre che ho visto qualcosa in comune ce l’hanno: non un ritorno al passato, niente di così semplice; e neppure un proseguimento della linea tracciata dai maestri del Novecento, o di quella linea un’evoluzione. No, direi che le tre regie di Giuseppe Emiliani, di Franco Però e di Walter Le Moli sono sostanzialmente analoghe non tanto in uno stile (un termine quasi oltraggioso per la nostra attuale coscienza critica) ma nell’evocazione di un’atmosfera, di un tono (che è quanto di solito sfugge alla critica accademica, analitica quanto si vuole ma ancorata a schemi ideologici o sociologici).
Il più persuasivo dei tre è La guerra, una commedia che non conoscevo. Siamo nell’appartamento di don Egidio, il comandante della fortezza assediata: vi vediamo botti, casse, stracci, sacchi: le luci sono deboli. Nella penombra si fa lampante il cinismo di Polidoro, il commissario dell’armata assediante, e di sua figlia Aspasia (come per un avvocato più sono i delitti meglio è, così più una guerra dura e meglio è); si capisce che Florida lo ama nonostante Faustino potrebbe uccidere suo padre don Egidio; le fortezze da assaltare sono due, c’è anche quella della femmina che si ritrae — e non si ritrae.
È in assoluto lo stile di Mirandolina. Chi è costei, una locandiera o una femmina folle, o meglio tutt’altro che folle? È esplicita nel rifiuto del Conte e del Marchese. Non lo è nei confronti del Cavaliere. Forse, per una volta e ne avesse un suo guadagno, non disdegnerebbe. Ma né il regista Le Moli né la protagonista (Paola De Crescenzo) ce lo fanno capire. Elementi di balletto e gestualità ampie, per non dire dei costumi a volte sfarzosi, velano la scena e il senso. Non si prende davvero partito — come raramente si prende nella contemporanea temperie culturale — neppure ne La casa nova.
Assistendo ai tre spettacoli uno dietro l’altro abbiamo l’impressione che Goldoni abbia delineato lo stesso quadro in ambienti diversi, da quello grande (la guerra, la morte) a quello di mezzo (la locanda, il mercato) a quello piccolo (la famiglia, il sesso). Ne La casa nova tutto in famiglia accade e tutto in famiglia si risolve. Al pari che nello spettacolo di Parma anche qui non mancano le settecentesche e tradizionali figure in stile Longhi o Bellotto: ma non in esse tutto si risolve. Vi è anche il sentimento, il sentimento della famiglia che alla fine è religioso: lo zio Cristofolo che risolve i guai di tutti i suoi pretenziosi e spendaccioni nipoti è, almeno per loro, niente meno che Dio.