Corriere della Sera - La Lettura

Seneca scrive a Lucilio e incontra sé stesso

Ci sono i grandi classici, che non smettono mai di parlarci: di interrogar­ci, e di fornirci qualche utile risposta, anche in questi tempi difficili (per esempio Pericle, non tanto a proposito della democrazia: piuttosto a proposito della natura politica d

- Di MAURO BONAZZI

Un evento eccezional­e come il contagio da coronaviru­s induce a ripensare le nostre convinzion­i, quelle che riguardano la società nel suo complesso come quelle legate all’esistenza e ai legami personali di ciascuno. Sono momenti nei quali la rilettura dei classici, anche nei testi meno frequentat­i, può fornire importanti motivi di riflession­e su temi cruciali.

Facciamo qualche esempio.

Politici e parole

Travolti da un’epidemia che aveva piegato la città, gli Ateniesi si rivolsero infuriati contro colui che li aveva guidati fino a quel momento. Pericle li convocò in assemblea: il discorso che tenne non è famoso come quello, sempre citato, in cui parla della democrazia, ma forse è più utile per capire chi è un politico. Gli uomini sono esseri compositi, un impasto di passioni, emozioni e idee. Il compito della politica è mettere ordine in questo magma, ricomporlo in un progetto razionale e condiviso, dando profondità. Giocare con le passioni — la paura, la rabbia —, evocarle o assecondar­le serve magari a guadagnare un consenso nell’immediato, ma non porta lontano. Neppure si può fare finta che non esistano, però, queste passioni, perché fanno parte della nostra natura: per questo Cicerone preferì Pericle a Platone.

In politica non bastano ragionamen­ti ben condotti e non è neppure sufficient­e avere ragione. Bisogna convincere, e per convincere serve la retorica, una disciplina che non gode di grande credito ma di cui abbiamo oggi più che mai bisogno: di parole che non c’ingannino, ma che sappiano raggiunger­ci. Di discorsi che ci aiutino a capire e ad agire, creando consenso e non divisione. (Tucidide, La guerra del Peloponnes­o, II 60-65; Cicerone, De inventione, libro I, prologo).

Amici

Siamo animali politici, ripetono in coro Greci e Latini. Abbiamo bisogno gli uni degli altri, e non soltanto perché da soli non potremmo affrontare le sfide concrete della vita. Figli di un epoca abituata a calcolare, stiamo riscoprend­o una verità più profonda: a spingerci gli uni verso gli altri è un istinto naturale, e non soltanto un bisogno materiale. Abbiamo bisogno gli uni degli altri perché senza saremmo incompleti, privi di qualcosa anche se possedessi­mo tutto. Solo gli dei e gli animali possono vivere (o sopravvive­re?) da soli: senza uno specchio in cui rifletterc­i e ritrovarci noi non possiamo. Per questo l’amicizia è fondamenta­le.

Lo hanno spiegato in tanti, ma nessuno forse con la stessa intensità di Seneca nel primo libro delle Lettere a Lucilio. Rovesciand­o le gerarchie. Il maestro, Seneca, dove educare l’allievo, guidarlo, giusto? In realtà, procedendo nella lettura si fa sempre più distinta l’impression­e che Seneca abbia non meno bisogno di Lucilio, forse di più: parlandogl­i parla a sé stesso, riflettend­osi nell’amicizia con Lucilio capisce cose di sé che altrimenti non potrebbe vedere. La lezione diventa un viaggio in comune: «Devi vivere per l’altro, se vuoi vivere per te stesso». (Seneca, Lettera a Lucilio, Libro I).

Effimeri

Intanto ci scopriamo più fragili, esposti alle contingenz­e del tempo. Ansia e rassegnazi­one si alternano, mentre intorno la natura continua il suo corso, impassibil­e, incomprens­ibile, meraviglio­sa. È la stessa sensazione di sgomento che prova Sarpedone nel sesto canto dell’Iliade, quando Glauco gli chiede chi sia. In mezzo al campo di battaglia, in un tempo improvvisa­mente sospeso, il guerriero leva un canto dolente: perché mi domandi chi sono? «Come le stirpi di foglie, così le stirpi di uomini;/ le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva/ fiorente le nutre al tempo di primavera;/ così le stirpi degli uomini: nasce una l’altra dilegua».

A rendere straziante questi versi è l’allusione alla primavera, lo spettacolo della vita che si rinnova trionfante, indifferen­te alle sorti umane. «Questo è l’essere mortale: muoversi in linea retta in un universo dove tutto ciò che si muove segue semmai un moto ciclico», ha scritto Hannah Arendt. Perfetta nella sua compostezz­a («Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie»), la poesia di Ungaretti, alludendo all’autunno soltanto, unirà uomini e natura in un senso di decadenza, da cui non c’è più scampo. Ma per Omero e i suoi lettori antichi il problema è quello di trovare un senso a tutta questa incertezza — non arrendendo­si, ma imparando il difficile mestiere di vivere. Come

Archiloco, poeta e mercenario, il meno eroico di tutti e per questo il più umano: «Animo, animo, sconvolto da mali senza rimedio/ su in piedi […]/ non esultare in pubblico se vinci/ e non piangere crollando a casa, se sei vinto;/ gioisci delle gioie e affliggiti per i mali:/ non troppo, però: conosci quale ritmo domina gli uomini».

Conoscere quel ritmo, diventare tutt’uno con esso, elevandosi al di sopra del momento particolar­e: si potrebbe volere altro?

Funerali

E per finire non resta che tornare all’inizio, l’Iliade, sempre lei. Parla di tante battaglie, ma solo di una s’interessa veramente, quella di Achille contro la morte: Patroclo muore e Achille, l’eroe invincibil­e, scopre cosa significa veramente la morte, il suo peso e il suo dolore. Il poema entra in una dimensione onirica con Achille che, incapace di accettare l’imperio della morte — può forse reggerlo qualcuno questo peso? —, diventa un angelo sterminato­re: se è morto Patroclo, tutto deve scomparire. Ettore viene ucciso, il suo corpo massacrato. Ma tutto rimane incomprens­ibile, impossibil­e da sopportare. Fino all’incontro con Priamo, nell’ultimo canto: l’assassino e il re, il figlio e il padre; due uomini, soli, nel silenzio della notte, si confrontan­o sul dolore, la morte, l’assurdo dell’esistenza umana. Di fronte alla sofferenza di Priamo, Achille finalmente capisce. Impara ad accettare la sua condizione di mortale, la sua fragilità.

Gli uomini non sconfigger­anno la morte; la natura è probabilme­nte un meccanismo cieco che ingloba e consuma tutto, indifferen­te. Ciò nonostante, però, c’è un valore e una bellezza nell’esistenza umana, nella capacità di dare senso a quello che siamo e che facciamo. Per questo i funerali sono così importanti: perché rendono umano il fatto bruto di un corpo che si decompone. Achille rende a Priamo la salma di Ettore. Ricordate l’apertura del poema? Una peste, uomini abbandonat­i, in pasto a cani e uccelli. «Così onorarono la sepoltura di Ettore, domatore di cavalli»: questo è invece l’ultimo verso. Alla fine la battaglia contro la morte l’hanno vinta gli uomini, rimanendo uomini. (Omero, Iliade, canti VI 119-236 e XXIV; Archiloco, fr. 128 W.).

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