Corriere della Sera - La Lettura
Presto scoprirete chi è Taliesin
Quando vivi abbastanza a lungo all’estero da non farci più caso, diventa improvvisamente interessante ragionare su cosa consideri, o meno, un «classico». Da italiano che ha cresciuto due bambine in Inghilterra, sono per me classici alcuni libri molto poco frequentati nel mio Paese d’origine: l’orsetto di Paddington, Gormenghast (in Italia pubblicato da Adelphi, forse l’unico editore, con Sellerio, in grado di trasformare libri dimenticati in classici contemporanei, pensate a Zia Mame o ai Beati Paoli), o ancora i romanzi di Enid Blyton dei Famous Five. Sono tutte storie vive, oggi, intorno a me: l’orsetto ha una sua bella statua in stazione, come Harry Potter ha la sua sciarpa a King Cross, i Famous Five sono da anni sui cartelloni pubblicitari della Western Railways. Sarebbe mai possibile immaginare in Italia un personaggio per ragazzi capace di affezionare i viaggiatori ai Frecciarossa? Perché un libro diventi un classico, per ragazzi o meno, occorre che la macchina dell’immaginazione di un Paese voglia farne un classico, e in questo non c’è nazione più brava dell’Inghilterra.
Non lo dico io. Lo sostiene, con tanto di cifre, lo storico Dominic Sandbrook in un libro di qual c he a nno f a , The Gre at Br i t i s h Dream
Factory (Allen Lane), domandandosi come sia possibile che una nazione tutto sommato così piccola sia riuscita a imporre i suoi «classici» in tutto il mondo, e non solo nell’industria editoriale, ma in tutta quella dell’immaginazione.
Il teatro è Shakespeare. Il rock è i Beatles, gli Stones e David Bowie. Il fantasy è Il Signore degli
Anelli. Il giallo è Agatha Christie. Il crime Sherlock Holmes. Le storie d’amore sono Jane Austen e il Regency (chiedete ad HarperCollins, che con i suoi Harmony ne stampa un centinaio all’anno). La campagna è solo quella inglese e la casa di campagna quella di Downton Abbey. Per la fantascienza potete scegliere Wells se siete romantici, Douglas Adams se volete ridere. E pazienza se la Guida galattica per gli autostoppisti sembra una brutta copia di Terra di Stefano Benni. Benni non sanno chi sia. La serie tv di genere più lunga di sempre è Doctor Who. Coronation
Street la più lunga soap-opera. James Bond l’agente più conosciuto del pianeta. Ma quando chiedo agli editor inglesi quali siano i grandi
classici italiani, raramente vanno oltre Il nome
della rosa e Il Gattopardo, per la fiction, in alcuni casi un Calvino, il colto mi dice Dante (tradotto da Sayers). La dolce vita per il cinema. Eppure, negli anni Sessanta, una delle storie più tradotte qui era Don Camillo, secondo Philip Pullman, che in Italia si è perso tra i meandri del politicamente discutibile (ed è un gran peccato).
Uno degli aspetti più evidenti di questo processo di «classificazione» (interessante gioco di parole) è la capacità di una nazione di credere nella propria industria dell’immaginazione. I classici sono qualcosa che si propone e si continua a proporre, spostandoli dai libri alla tv al cinema al teatro, restando convinti che siano storie fondamentali fino a che lo diventano.
In questo formidabile meccanismo ci sono editori che sono particolarmente bravi a fregiarsi del criterio di scopritori di classici, esattamente come certi galleristi d’arte si sono inventati i loro grandi artisti. Tra questi, Penguin ogni anno aggiorna la sua collana di classici con meticolosa e strategica cura, riuscendo ogni volta a darvi la sensazione di avere trascorso gli ultimi mesi a cercare qualcosa di buono al di fuori del mondo anglosassone, senza mai avere trovato praticamente niente, a parte... Ecco cosa: la scrittrice di fantascienza svedese Karin Boye, con una storia distopica sulla Seconda guerra mondiale, Kallo
cain, credo per continuare l’eco femminile della Atwood, ora che si sono prosciugati i vari Dick, Huxley, Zamjatin; poi Childhood, ovvero la trilogia di Copenaghen della danese Tove Ditlevsen, una spettacolare serie di romanzi di una giovinezza scombinata, nella scia dei successi di Elena Ferrante e Sylvia Plath; All my cats del cecoslovacco Bohumil Hrabal, che Kundera considerava molto più bravo di lui, che racconta della sua vita riempita e distrutta dai gatti; Memory of
an anti-hero una delle poche opere lunghe del polacco Kornel Filipowicz, una vicenda di mascolinità non tossica, piena di trucchi per rimanere vivi; al contrario, Life in sale raccoglie fantasmi, vampiri e streghe di Yukio Mishima, l’autore giapponese a cui si deve uno dei più eclatanti suicidi della storia della letteratura.
C’è ancora posto per The song of Kieu del vietnamita Nguyen Du, un classico che in Vietnam si studia a scuola, con tanto di bordelli, suore combattenti e pirati (e poi ci si chiede perché loro leggono più dei nostri ragazzi) e che viene passato come un talismano dalle comunità vietnamite di tutto il mondo. E infine il poema medievale di un misterioso autore del Galles, The book of Ta
liesin, per la prima volta tradotto e adattato all’inglese contemporaneo.
Secondo me le intenzioni sono chiare: seguire le own voices («voci proprie», autori che hanno una forma di vicinanza culturale, sociale, etnica con la storia che narrano), accorgendosi così che anche in altri Paesi del mondo ci sono stati scrittori bravini. E poi il #MeToo per ribilanciare con scrittrici femminili il catalogo. Se volete fare la prova, contate quante donne ci sono nei Meridiani di Mondadori o nella Piccola Biblioteca Adelphi. Sono scelte di opportunismo o talento? O è ancora solo questo spaventoso senso imperialistico per cui sembra che occorra essere scelti dalle intelligenze culturali anglosassoni per diventare «reali» (come pensava Murakami quando si pagò da solo le traduzioni dei suoi primi libri)? A voi la risposta. La mia è che per far nascere dei classici serva non tanto una ricetta economica, ma moltissima, moltissima fiducia, da parte di editori e lettori. E scommettiamo che nei prossimi anni sentiremo parlare più di Taliesin che, tanto per dirne una, di Jacopo da Varazze?