Corriere della Sera - La Lettura
Un lombardo da prendere in parola
Opera omnia/1 Nasceva cent’anni fa Nelo Risi, autore ma anche regista (come il fratello Dino). La raccolta dei suoi testi ne ripropone lo slancio etico di matrice illuminista: «Scrivere è un atto politico» e la franchezza deve prevalere sulla metafora
Non sempre i poeti sono i migliori lettori di sé stessi. Quando questo accade, tuttavi a, è di f f i c i l e s uperarli i n profondità e precisione. Ci sono alcuni versi di Nelo Risi, ad esempio, che davvero possono valere come un eccellente appoggio per comprendere la sua opera in versi. Provengono da un breve testo di poetica collocato in apertura a uno dei suoi libri più belli, Di certe cose, uscito nel 1970 (lo si può trovare nel volume Tutte le poesie, ben curato da Maurizio Cucchi per Mondadori). Eccoli qui: «Se occorre arte perché siano vere/ le parole rare/ forse più ne occorre/ per essere stilisti dell’usuale». Che cosa possiamo ricavarne? Anzitutto che per essere uno stilista dell’usuale, per restituire una qualche verità alla lingua d’uso comune e, insomma, per rendere davvero sensate l e parol e pi ù consunte, è necessari a un’arte estremamente raffinata. Occorrono tecnica, bravura, mestiere. E se questo resta vero anche al di là della poesia di Risi, nel suo caso porta comunque dritto al cuore del suo sistema poetico.
Nato a Milano cent’anni fa, il 21 aprile 1920 (è mancato nel 2015 a Roma, dove viveva dal ’55), Risi appartiene alla cosiddetta quarta generazione del nostro Novecento poetico, che poi è la prima a tutti gli effetti post-ermetica e post-montaliana. Come molti compagni di strada, affonda le radici nell’immediato secondo dopoguerra, se non negli anni della guerra stessa, e porta dunque con sé ab origine un senso della responsabilità civile, della collettività, della storia e, insieme, di una comunicazione il più possibile franca ed efficace, che non appartenevano ai maestri anche di poco più anziani. Di qui la propensione verso una lingua che non fosse a priori letteraria o poetica. In questa direzione, tra anni Sessanta e Settanta trasferirà di peso nella sua poesia anche i linguaggi tecnici e settoriali, burocratici, politici, pubblicitari, con tutta la difficoltà di conferirgli una qualche sensatezza non fittizia o di superficie.
Sta proprio qui il nodo della questione, che a questo punto non è solo tecnica ma anche e soprattutto estetica e morale: riscattare i propri materiali espressivi a una qualche vitalità. «In questa fine millennio», ancora si chiedeva il poeta in una sua tarda Giustificazione, «dove sta la poesia? La poesia sta dove la lingua vive». Cucchi, che di Risi è stato l’interprete migliore assieme a Giovanni Raboni, conclude la sua introduzione parlando di «una poesia che rimarrà tra le più alte testimonianze autentiche di un’epoca».
Non sembri uno sproposito. Risi non è soltanto un poeta impegnato («scrivere è un atto politico», dice un suo verso), ma un poeta profondamente scandalizzato dai mali e dalle perversioni della storia, un poeta indignato per lo scadimento della vita civile, per le ingiustizie della società, per le insufficienze non dell’uomo ma di uomini determinati e delle loro azioni. Di conseguenza, la storia e la cronaca dell’Italia di quegli anni (e non solo) gremiscono i suoi versi come non è dato vedere nella maggioranza dei poeti coevi.
Del resto è a tutti gli effetti un poeta lombardo, e come tale porta sempre con sé la propria colonna infame (a cui ha direttamente dedicato una poesia e uno splendido film; come il fratello Dino, anche Nelo è stato un regista), il che poi significa una fortissima istanza etica di derivazione illuminista, il richiamo alla giustizia e al giudizio, una dominante razionale e progettuale, ma soprattutto la necessità costante di giustificare pubblicamente la propria scrittura.
Detto questo, si deve però aggiungere che Risi è un lombardo incandescente e sulfureo, assolutamente non accomodante. «Sono per una poesia civile fatta da un uomo pubblico in un tempo reale, sono per un linguaggio tutto teso che sia di per sé azione», ha scritto ancora. E appunto per dare corpo a quest’idea di pronto intervento poetico, che da Arthur Rimbaud in poi è stata anche un mito (anche a lui Risi ha dedicato un film), ha cercato con ogni mezzo di togliere autonomia alla lingua, vale a dire, come tante volte è stato ripetuto, di privarla del suo spessore metaforico per renderla invece il più diretta possibile. Nei componimenti epigrammatici e sentenziosi, anzitutto, in cui ha dato forse il suo meglio, anche se non esauriscono il suo ampio spettro espressivo e tematico. Con la sua poesia ironica, tagliente, anche sarcastica, ma pur sempre reattiva e appassionata, più di ogni altra cosa Risi ha voluto essere preso in parola. E come ha scritto giustamente Raboni, della sua poesia «ci si può fidare».