Corriere della Sera - La Lettura
Abbarbicato all’aldiquà, in Svizzera
Il ticinese Giovanni Orelli ha sperimentato un versificare colto ma legato alla vita
Meno noto del cugino Giorgio, lo svizzero Giovanni Orelli (19282016) è stato per conto suo tenace nel coltivare una tardiva vocazione poetica. Esordì nel 1986 in dialetto, quindi proseguì in lingua, riservando in seguito la sua parlata dell’alto Ticino per lo più a riscritture di classici. E con ciò entriamo nel problema principe della poesia dell’autore, che fu studioso (allievo di Giuseppe Billanovich all’Università Cattolica di Milano), docente e critico, oltre che narratore: la sua parola nasce all’incrocio di innumerevoli altre parole, quasi citazione continuata, allusione e rifacimento.
E dunque? Eco di altre possenti costruzioni (prima di tutto la Commedia dantesca, sempre evocata), la poesia di Orelli è solo gioco colto e magari manieristico? La risposta non è semplice e il lettore è spesso in dubbio di fronte a questo smaliziato autore, maestro di plurilinguismo. Il fatto è che la sua vicenda di poeta (ora tutta percorribile in L’opera poetica con inediti, introduzione di Pietro Gibellini, con una nota critica di Massimo Natale, Interlinea) si colloca all’incontro tra spinte e ragioni diverse. Un equilibrista, lo potremmo considerare. E così fin da quella curiosa raccolta-apologo che è Concertino per rane (1990), egli sfida il lettore a riconoscere e distinguere i fili del suo ludus e della sua sincerità, dell’ispirazione e della bravura, del disinganno e della ricerca di una verità.
Orelli è stato un poeta abbarbicato all’aldiquà, al circuito della storia e della natura (con il loro sottofondo di violenza), ai meccanismi del mondo. La sua ricerca insiste dunque nel cozzare, ora ironica ora grave, contro la barriera invalicabile dei nostri limiti. I viventi si aggirano in tale spazio (Orelli ha anche un suo bestiario, dalle rane alle capre), senza potersi dire mai al riparo dai propri istinti e dalle proprie paure, ma essendo abitati anche dal sorriso, insomma dall’enigmatica legge della vita (come chiariscono le tarde quartine per i nipoti).
A disciplinare e insieme a liberare nella sua massima espressività questo pullulare di sommovimenti è stata, per buona parte della vicenda poetica di Orelli, la forma-mantra del sonetto, naturalmente rivisto e aggiornato, manipolato e tradìto: di sonetti sono fatti Né timo né maggiorana (1995) e L’albero di Lutero (1998) ed esso ritorna anche più oltre.
Nello spazio breve e amplissimo dei 14 versi possono comparire, tra tanti altri temi, fugaci apparizioni di donne, portatrici di incanto e turbamento: sono incontri mancati, incroci con la passante, come nell’archetipo di Baudelaire («e invece ci siamo sfiorati per una frazione di secondo/ tangenzialmente strappati senza poterci vedere/ da corridoi rispettivi con destinazioni opposte»: da L’albero di
Lutero).
È un motivo che ritorna, a segnalare che una pulsante inquietudine vitale sta nei giacimenti profondi di questa poesia: a volte sotto strati di cultura, a volte in piena luce, tremolante.