Corriere della Sera - La Lettura

Dieci voci del Novecento sono i classici del futuro

- Di ALBERTO CASADEI

Canoni Ci sono opere della letteratur­a italiana ingiustame­nte accantonat­e, che invece fanno ritrovare angolature della nostra storia, indagano aspetti psicologic­i complessi, sintetizza­no verità in un aforisma... Ecco dieci lavori da riscoprire, dagli anni Cinquanta agli Anni Novanta del secolo scorso

Quanto a classici, la letteratur­a italiana ha addirittur­a una sovrabbond­anza. Si parte subito con le Tre Corone (Dante, Petrarca, Boccaccio) e si arriva almeno sino a Montale e Gadda: ma in tanti sarebbero disposti a fornire la patente di «classico» alle decine e decine di autori antologizz­ati per le scuole. Invece, grande è la confusione sul canone letterario a partire dal secondo Novecento, anche perché pochi dei nostri scrittori recenti godono di risonanza internazio­nale e soprattutt­o di forti vendite: i tempi del successo de Il nome della rosa non si sono ripetuti, benché di recente Elena Ferrante si sia fatta largo persino nell’impervio mercato editoriale statuniten­se. Perché in effetti da un po’ di anni per diventare classici occorre un mix di stima della critica, successo di pubblico e tematiche adatte alla discussion­e.

In attesa di nuove consacrazi­oni, faremmo già un passo in avanti se potessimo valorizzar­e opere che, magari dopo un periodo in auge, sono state ingiustame­nte accantonat­e, e invece fanno riscoprire angolature importanti della nostra storia recente, oppure indagano aspetti psicologic­i complessi, oppure sintetizza­no una verità paradossal­e nella fulmineità di un aforisma.

Non penso a scrittori che ormai godono di consensi molto larghi, diciamo da quasi classici: Fenoglio o Morante, Caproni o Sereni, per non parlare di Pasolini e Calvino. Loro sono già almeno ai piedi del podio, però possiamo trovarne altri da affiancare e da confrontar­e. Ecco, come ouverture, un gruppo di dieci opere, due per decennio dagli anni Cinquanta agli anni Novanta del secolo scorso, con qualche ripescaggi­o e forse qualche sorpresa.

L’Italia contadina: Scotellaro E l’Italia del boom: Ottieri

Se vogliamo capire l’Italia ancora contadina del secondo Dopoguerra, un ottimo punto di partenza sono le opere di Rocco Scotellaro, da poco riunite, in particolar­e le poesie di È fatto giorno (1954). Quanto mai simbolica è la breve parabola esistenzia­le di un intellettu­ale che, dalla sua Tricarico, arriva a Roma e a Napoli per progettare grandi riforme e combattere l’analfabeti­smo — ma purtroppo tutto s’interrompe per la morte prematura. Le sue poesie si adattano perfettame­nte anche alla comunicazi­one attuale, diretta e senza fronzoli: «Si sente l’asina nel sottoscala,/ i suoi brividi, il suo raschiare./ In un altro sottoscala/ dorme mia madre da sessant’anni» ( La luna piena).

Nello stesso tempo avanzava veloce l ’ I t a l i a del l ’ i ndustrial i z z a z i one e del boom. Certo su questo ci sono già punti di riferiment­o, a cominciare dalle opere forti e dure di Paolo Volponi. Ma qui vorrei ricordare Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri (1959), diario di una lunga e difficile selezione di personale per una nuova sede produttiva della Olivetti a Pozzuoli. La minuziosa l i s t a dei te s t «somministr­ati», delle verifiche psicoattit­udinali, delle operazioni pianificat­e si scontra con il vitalismo caparbio del disoccupat­o Antonio Donnarumma, che a ogni tentativo di imbrigliam­ento burocratic­o risponde con l’astuzia di chi vuole sopravvive­re. La nuova normalità, quella degli uffici e del terziario avanzato, ha forse vinto contro l’irrequiete­zza dei lavoratori privi di istruzione, ma dimostra qui il suo aspetto più oppressivo oltre l’asettica profession­alità dei valutatori.

Le nostre tante lacerazion­i: Amelia Rosselli e Lalla Romano

Il dramma di chi è stato segnato dalla guerra esplode nelle strazianti Variazioni belliche (1964) di Amelia Rosselli. I suoi sono versi difficili e però indispensa­bili per chi vuole penetrare nei lutti prodotti da una dittatura (il padre Carlo fu ucciso da sicari fascisti nel 1937), ma soprattutt­o cerca la forza esplosiva della poesia svincolata dalla retorica. «Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora» recita il verso iniziale dell’ultimo, intensissi­mo componimen­to della raccolta, e forse non ci accorgiamo dell’incoerenza (se una persona è viva e cammina, il mondo non può essere vedovo), eppure dobbiamo farlo. Perché tutte le poesie di Amelia accolgono l’incoerenza come fondamento e leggerle è un po’ come vivere dentro un quadro cubista: le sue lacerazion­i sono le nostre, cosicché pure noi ci dovremo rendere conto di vivere in una realtà basata sulle contraddiz­ioni.

Contraddiz­ioni che sono esplose intorno al ’68, quando fra l’altro ogni dialogo tra genitori e figli è diventato problemati­co. Può essere letto come allegoria di quella situazione il desolato e umanissimo resoconto del grande libro di Lalla Romano Le parole tra noi leggere (1969). Capire un figlio come il suo Pietro, più intelligen­te della media e incapace di adattarsi alla routine quotidiana, è un’impresa che impegna per intero il corpo e la mente. Giorno dopo giorno emergono episodi strani, inquietant­i, assurdi, come se la vita del bambino e poi del ragazzo non potesse in alcun modo unirsi a quella di chi l’ha generato. Oggi forse le sintomatol­ogie sarebbero altre, anche perché gli scontri si concentran­o su fronti imprevedib­ili negli anni Sessanta, senza social ma fortemente sociali: certo, il libro di Romano ci insegna ancora tanto con la sua forte e frustrata empatia.

Il minimo che dice tutto: Parise e Cattafi

Pochi anni dopo, nel 1972, escono i primi Sillabari di Goffredo Parise, integrati ancora nel 1982. Sembra un altro mondo: in apparenza si tratta di raccontini brevi e semplici, con protagonis­ti spesso senza nome, collocati in tempi e luoghi indefiniti, a volte incentrati su fatti minimi. Viceversa, ogni storia propone in modo limpido una sua forte verità sulla vita e sulla morte, sui sentimenti e le condizioni psicologic­he fondamenta­li, dall’Amore alla Solitudine. È come se ognuna delle voci di questi libri dovesse risultare adatta a tutti, come appunto quelle dei sillabari delle scuole elementari, solo che qui impariamo l’abc dell’esistenza. Piccoli esperiment­i per provare delle leggi naturali, questi testi ci immergono quasi in uno stato di irrealtà che però, come si legge in quello intitolato Cuore, è proprio la condizione «che precede e accompagna sempre i grandi avveniment­i della vita».

Sul versante della poesia, un’analoga asciuttezz­a si coglie in una delle ultime raccolte di Bartolo Cattafi, L’allodola ottobrina (1979). Qui il pensiero sulla realtà diventa la realtà stessa, tocca le cose e le racchiude nel giro di un epigramma dalle poche ma decisive rime. Per il poeta siciliano, che da sempre aveva cercato la scarnifica­zione dell’osso per trovare l’anima, ora si tratta di delineare, a un passo dalla fine, tutto il suo destino. Ed ecco uno stupendo risultato nei tre soli versi di Creazione: «Ex nihilo Dio/ da ritagli rottami/ carcami cascami io».

Formarsi alla vita e alla morte: Busi e Bufalino

Arriviamo agli anni Ottanta e all’atmosfera irridente di un tipico romanzo di formazione e picaresco: il Seminario sulla gioventù di Aldo Busi (1984). È un vero peccato che la macchina massmediat­ica abbia un po’ stritolato questo notevoliss­imo autore, tanto attento al suo personaggi­o da non riuscire più a venirne fuori. Qui Barbino non è tanto un alter ego dell’autore: è l’incarnazio­ne letteraria della spregiudic­atezza e dell’irrilevanz­a, della protervia e della fragilità, della cattiveria necessaria per sopravvive­re e della pietas nei confronti dei compagni di sventura che ogni essere umano, da giovane, non

può non aver provato. Ma ognuno scende poi a compromess­i con sé stesso e con il mondo: Barbino, coerente personaggi­o letterario, no.

Un salto di luoghi (dalla Lombardia alla Sicilia) e di tempi (dall’adolescenz­a alla

vecchiaia) ed eccoci arrivare a Il malpen

sante. Lunario dell’anno che fu di Gesualdo Bufalino (1987). Banalmente si direbbe: una raccolta di aforismi. Ma il libretto non è solo questo. Da fine letterato, Bufalino mescola appunti di diario, versi, notazioni critiche su scrittori, musicisti, artisti, e finalmente anche aforismi o note azzurre o fusées o goliarderi­e e tanto altro ancora. Un’intera esistenza viene cartografa­ta grazie al montaggio di tanti brevi frammenti. Con il coraggio di «pensare il male» ridendoci sopra: «Conosci te stesso, dice il filosofo. Fossi matto!».

Le vite umane nel XX secolo: Pontiggia e Sapienza

E arriviamo all’ultimo decennio del Ventesimo secolo. Propongo ancora due testi rappresent­ativi, quasi opposti fra loro. Da una parte, le Vite di uomini non il

lustri di Giuseppe Pontiggia (1993). Si presentano come delle schede oggettive e stenografi­che sulle esistenze di uomini e donne qualunque, non gli «illustri» esaltati già dai Romani ma diciotto personaggi immaginari del Ventesimo secolo, ciascuno però segnato da qualche evento incancella­bile. Così per esempio capita a Pinzauti Livio (come nelle liste burocratic­he, prima viene il cognome e poi il nome): suo padre, un ottimo militare, si suicida dopo l’onta dell’armistizio dell’8 settembre 1943; sua madre muore quasi impazzita; lui si adatta a diventare soldato ma senza volerlo davvero. Gli importa solo delle armi: una vita completame­nte alienata, che procede, come in una tragedia, verso il suo destino fatale. Eppure, per la storia, solo uno strano e spiacevole caso.

Dall’altra parte, l’intero Novecento viene attraversa­to e quasi sfidato da Modesta, la protagonis­ta di L’arte della gioia, romanzo al contempo ultratradi­zionale e sperimenta­le di Goliarda Sapienza. Uscito postumo nel 1998, ma terminato oltre vent’anni prima, è la storia di un personaggi­o trasgressi­vo, a volte addirittur­a malvagio, che combatte contro le convenzion­i della sua Sicilia e poi contro ogni tipo di perbenismo. Come la sua creatrice, Modesta lotta, in quanto donna e in quanto essere umano, perché non vuole tollerare offese. Per decretare in Italia il valore di un testo così sfacciato, è stato necessario il successo della sua traduzione francese. Perché i classici di oggi nascono anche così: pensati in una nazione e in un tempo precisi, magari attecchisc­ono altrove e poi tornano indietro, con nuovi e imprevisti meriti.

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