Corriere della Sera - La Lettura
Dieci voci del Novecento sono i classici del futuro
Canoni Ci sono opere della letteratura italiana ingiustamente accantonate, che invece fanno ritrovare angolature della nostra storia, indagano aspetti psicologici complessi, sintetizzano verità in un aforisma... Ecco dieci lavori da riscoprire, dagli anni Cinquanta agli Anni Novanta del secolo scorso
Quanto a classici, la letteratura italiana ha addirittura una sovrabbondanza. Si parte subito con le Tre Corone (Dante, Petrarca, Boccaccio) e si arriva almeno sino a Montale e Gadda: ma in tanti sarebbero disposti a fornire la patente di «classico» alle decine e decine di autori antologizzati per le scuole. Invece, grande è la confusione sul canone letterario a partire dal secondo Novecento, anche perché pochi dei nostri scrittori recenti godono di risonanza internazionale e soprattutto di forti vendite: i tempi del successo de Il nome della rosa non si sono ripetuti, benché di recente Elena Ferrante si sia fatta largo persino nell’impervio mercato editoriale statunitense. Perché in effetti da un po’ di anni per diventare classici occorre un mix di stima della critica, successo di pubblico e tematiche adatte alla discussione.
In attesa di nuove consacrazioni, faremmo già un passo in avanti se potessimo valorizzare opere che, magari dopo un periodo in auge, sono state ingiustamente accantonate, e invece fanno riscoprire angolature importanti della nostra storia recente, oppure indagano aspetti psicologici complessi, oppure sintetizzano una verità paradossale nella fulmineità di un aforisma.
Non penso a scrittori che ormai godono di consensi molto larghi, diciamo da quasi classici: Fenoglio o Morante, Caproni o Sereni, per non parlare di Pasolini e Calvino. Loro sono già almeno ai piedi del podio, però possiamo trovarne altri da affiancare e da confrontare. Ecco, come ouverture, un gruppo di dieci opere, due per decennio dagli anni Cinquanta agli anni Novanta del secolo scorso, con qualche ripescaggio e forse qualche sorpresa.
L’Italia contadina: Scotellaro E l’Italia del boom: Ottieri
Se vogliamo capire l’Italia ancora contadina del secondo Dopoguerra, un ottimo punto di partenza sono le opere di Rocco Scotellaro, da poco riunite, in particolare le poesie di È fatto giorno (1954). Quanto mai simbolica è la breve parabola esistenziale di un intellettuale che, dalla sua Tricarico, arriva a Roma e a Napoli per progettare grandi riforme e combattere l’analfabetismo — ma purtroppo tutto s’interrompe per la morte prematura. Le sue poesie si adattano perfettamente anche alla comunicazione attuale, diretta e senza fronzoli: «Si sente l’asina nel sottoscala,/ i suoi brividi, il suo raschiare./ In un altro sottoscala/ dorme mia madre da sessant’anni» ( La luna piena).
Nello stesso tempo avanzava veloce l ’ I t a l i a del l ’ i ndustrial i z z a z i one e del boom. Certo su questo ci sono già punti di riferimento, a cominciare dalle opere forti e dure di Paolo Volponi. Ma qui vorrei ricordare Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri (1959), diario di una lunga e difficile selezione di personale per una nuova sede produttiva della Olivetti a Pozzuoli. La minuziosa l i s t a dei te s t «somministrati», delle verifiche psicoattitudinali, delle operazioni pianificate si scontra con il vitalismo caparbio del disoccupato Antonio Donnarumma, che a ogni tentativo di imbrigliamento burocratico risponde con l’astuzia di chi vuole sopravvivere. La nuova normalità, quella degli uffici e del terziario avanzato, ha forse vinto contro l’irrequietezza dei lavoratori privi di istruzione, ma dimostra qui il suo aspetto più oppressivo oltre l’asettica professionalità dei valutatori.
Le nostre tante lacerazioni: Amelia Rosselli e Lalla Romano
Il dramma di chi è stato segnato dalla guerra esplode nelle strazianti Variazioni belliche (1964) di Amelia Rosselli. I suoi sono versi difficili e però indispensabili per chi vuole penetrare nei lutti prodotti da una dittatura (il padre Carlo fu ucciso da sicari fascisti nel 1937), ma soprattutto cerca la forza esplosiva della poesia svincolata dalla retorica. «Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora» recita il verso iniziale dell’ultimo, intensissimo componimento della raccolta, e forse non ci accorgiamo dell’incoerenza (se una persona è viva e cammina, il mondo non può essere vedovo), eppure dobbiamo farlo. Perché tutte le poesie di Amelia accolgono l’incoerenza come fondamento e leggerle è un po’ come vivere dentro un quadro cubista: le sue lacerazioni sono le nostre, cosicché pure noi ci dovremo rendere conto di vivere in una realtà basata sulle contraddizioni.
Contraddizioni che sono esplose intorno al ’68, quando fra l’altro ogni dialogo tra genitori e figli è diventato problematico. Può essere letto come allegoria di quella situazione il desolato e umanissimo resoconto del grande libro di Lalla Romano Le parole tra noi leggere (1969). Capire un figlio come il suo Pietro, più intelligente della media e incapace di adattarsi alla routine quotidiana, è un’impresa che impegna per intero il corpo e la mente. Giorno dopo giorno emergono episodi strani, inquietanti, assurdi, come se la vita del bambino e poi del ragazzo non potesse in alcun modo unirsi a quella di chi l’ha generato. Oggi forse le sintomatologie sarebbero altre, anche perché gli scontri si concentrano su fronti imprevedibili negli anni Sessanta, senza social ma fortemente sociali: certo, il libro di Romano ci insegna ancora tanto con la sua forte e frustrata empatia.
Il minimo che dice tutto: Parise e Cattafi
Pochi anni dopo, nel 1972, escono i primi Sillabari di Goffredo Parise, integrati ancora nel 1982. Sembra un altro mondo: in apparenza si tratta di raccontini brevi e semplici, con protagonisti spesso senza nome, collocati in tempi e luoghi indefiniti, a volte incentrati su fatti minimi. Viceversa, ogni storia propone in modo limpido una sua forte verità sulla vita e sulla morte, sui sentimenti e le condizioni psicologiche fondamentali, dall’Amore alla Solitudine. È come se ognuna delle voci di questi libri dovesse risultare adatta a tutti, come appunto quelle dei sillabari delle scuole elementari, solo che qui impariamo l’abc dell’esistenza. Piccoli esperimenti per provare delle leggi naturali, questi testi ci immergono quasi in uno stato di irrealtà che però, come si legge in quello intitolato Cuore, è proprio la condizione «che precede e accompagna sempre i grandi avvenimenti della vita».
Sul versante della poesia, un’analoga asciuttezza si coglie in una delle ultime raccolte di Bartolo Cattafi, L’allodola ottobrina (1979). Qui il pensiero sulla realtà diventa la realtà stessa, tocca le cose e le racchiude nel giro di un epigramma dalle poche ma decisive rime. Per il poeta siciliano, che da sempre aveva cercato la scarnificazione dell’osso per trovare l’anima, ora si tratta di delineare, a un passo dalla fine, tutto il suo destino. Ed ecco uno stupendo risultato nei tre soli versi di Creazione: «Ex nihilo Dio/ da ritagli rottami/ carcami cascami io».
Formarsi alla vita e alla morte: Busi e Bufalino
Arriviamo agli anni Ottanta e all’atmosfera irridente di un tipico romanzo di formazione e picaresco: il Seminario sulla gioventù di Aldo Busi (1984). È un vero peccato che la macchina massmediatica abbia un po’ stritolato questo notevolissimo autore, tanto attento al suo personaggio da non riuscire più a venirne fuori. Qui Barbino non è tanto un alter ego dell’autore: è l’incarnazione letteraria della spregiudicatezza e dell’irrilevanza, della protervia e della fragilità, della cattiveria necessaria per sopravvivere e della pietas nei confronti dei compagni di sventura che ogni essere umano, da giovane, non
può non aver provato. Ma ognuno scende poi a compromessi con sé stesso e con il mondo: Barbino, coerente personaggio letterario, no.
Un salto di luoghi (dalla Lombardia alla Sicilia) e di tempi (dall’adolescenza alla
vecchiaia) ed eccoci arrivare a Il malpen
sante. Lunario dell’anno che fu di Gesualdo Bufalino (1987). Banalmente si direbbe: una raccolta di aforismi. Ma il libretto non è solo questo. Da fine letterato, Bufalino mescola appunti di diario, versi, notazioni critiche su scrittori, musicisti, artisti, e finalmente anche aforismi o note azzurre o fusées o goliarderie e tanto altro ancora. Un’intera esistenza viene cartografata grazie al montaggio di tanti brevi frammenti. Con il coraggio di «pensare il male» ridendoci sopra: «Conosci te stesso, dice il filosofo. Fossi matto!».
Le vite umane nel XX secolo: Pontiggia e Sapienza
E arriviamo all’ultimo decennio del Ventesimo secolo. Propongo ancora due testi rappresentativi, quasi opposti fra loro. Da una parte, le Vite di uomini non il
lustri di Giuseppe Pontiggia (1993). Si presentano come delle schede oggettive e stenografiche sulle esistenze di uomini e donne qualunque, non gli «illustri» esaltati già dai Romani ma diciotto personaggi immaginari del Ventesimo secolo, ciascuno però segnato da qualche evento incancellabile. Così per esempio capita a Pinzauti Livio (come nelle liste burocratiche, prima viene il cognome e poi il nome): suo padre, un ottimo militare, si suicida dopo l’onta dell’armistizio dell’8 settembre 1943; sua madre muore quasi impazzita; lui si adatta a diventare soldato ma senza volerlo davvero. Gli importa solo delle armi: una vita completamente alienata, che procede, come in una tragedia, verso il suo destino fatale. Eppure, per la storia, solo uno strano e spiacevole caso.
Dall’altra parte, l’intero Novecento viene attraversato e quasi sfidato da Modesta, la protagonista di L’arte della gioia, romanzo al contempo ultratradizionale e sperimentale di Goliarda Sapienza. Uscito postumo nel 1998, ma terminato oltre vent’anni prima, è la storia di un personaggio trasgressivo, a volte addirittura malvagio, che combatte contro le convenzioni della sua Sicilia e poi contro ogni tipo di perbenismo. Come la sua creatrice, Modesta lotta, in quanto donna e in quanto essere umano, perché non vuole tollerare offese. Per decretare in Italia il valore di un testo così sfacciato, è stato necessario il successo della sua traduzione francese. Perché i classici di oggi nascono anche così: pensati in una nazione e in un tempo precisi, magari attecchiscono altrove e poi tornano indietro, con nuovi e imprevisti meriti.