Corriere della Sera - La Lettura

Karol Wojtyla 1920-2020 santo del papato globale

- Conversazi­one tra DANIELE MENOZZI, CETTINA MILITELLO e ANDREA RICCARDI a cura di ANTONIO CARIOTI con un testo di LUIGI ACCATTOLI

Cent’anni fa, il 18 maggio 1920, nasceva in Polonia Karol Wojtyla, destinato a guidare la Chiesa cattolica per quasi 27 anni con il nome di Giovanni Paolo II. Sull’eredità del suo pontificat­o abbiamo interpella­to tre studiosi: lo storico Daniele Menozzi, autore del saggio Giovanni Paolo II. Una transizion­e incompiuta? (Morcellian­a, 2006); la teologa Cettina Militello, autrice del libro Il sogno del Vaticano II (Edb, 2010) e curatrice con Serena Noceti del volume Le donne e la riforma della Chiesa (Edb, 2017); lo storico Andrea Riccardi, già collaborat­ore del Papa polacco, autore tra l’altro della biografia Giovanni Paolo II Santo (San Paolo, 2014).

Al momento della scomparsa, il 2 aprile 2005, Papa Wojtyla è stato molto esaltato, fino alla famosa invocazion­e «santo subito»; ma oggi la sua figura sembra passata in secondo piano. Si tratta di un ridimensio­namento fisiologic­o o ci sono ragioni più specifiche?

DANIELE MENOZZI — Contano entrambi i fattori. Visto in prospettiv­a storica, Giovanni Paolo II viene inevitabil­mente appiattito sul passato e perde il rilievo che gli si attribuiva durante il suo pontificat­o. Ma senza dubbio influisce anche la svolta introdotta da Papa Francesco nel governo della Chiesa. Wojtyla, come prima di lui Paolo VI e dopo di lui Benedetto XVI, cercava di gestire le nuove acquisizio­ni del Concilio Vaticano II in una chiave di continuità con la tradizione precedente. Con Jorge Mario Bergoglio l’ottica si è rovesciata: a essere privilegia­ti sono gli elementi d’innovazion­e contenuti nell’eredità del Vaticano II. E quindi diminuisce l’attenzione verso l’opera di Giovanni Paolo II, che si era mosso con grande energia e con successo in un’altra direzione.

CETTINA MILITELLO — Ogni Papa è sempre in discontinu­ità, più o meno accentuata, con i suoi predecesso­ri, se non altro per ragioni culturali. Inoltre il pontificat­o di Giovanni Paolo II è stato molto lungo e il tempo logora le eventuali istanze innovative. Così, quando viene eletto un nuovo vescovo di Roma, quelli precedenti finiscono in ombra. Con Papa Francesco l’approccio verso l’eredità del Vaticano II è mutato, come osserva Menozzi, ma non sono molto ottimista circa una svolta decisiva. Resto perplessa perché vedo esplodere una resistenza violenta alle indicazion­i conciliari che Papa Francesco cerca di riprendere. Quanto al grido «santo subito», lo trovo insensato: non perché Giovanni Paolo II non meritasse la canonizzaz­ione, ma perché occorre sempre lasciare che il tempo passi per valutare tutte le sfaccettat­ure di un pontificat­o.

ANDREA RICCARDI — Con il passare del tempo tutto rimpicciol­isce, tanto più che viviamo in un’epoca emotiva e smemorata. D’altronde la prima archiviazi­one dell’opera di Giovanni Paolo II è avvenuta con Papa Joseph Ratzinger, il suo fedele collaborat­ore che ne promosse la canonizzaz­ione. Proprio Benedetto XVI ha ridimensio­nato la carica messianica impressa al pontificat­o dal suo predecesso­re, con un primo cambio di passo. Colpisce poi che nel celebrare i trent’anni dalla svolta del 1989 non sia stato sottolinea­to a sufficienz­a il ruolo svolto da Giovanni Paolo II nel caso polacco, che fu un detonatore (anche se non l’unico) per la dissoluzio­ne del blocco sovietico. In fondo la svolta del 1989 rovesciò l’idea rivoluzion­aria nata nel 1789 e basata su un ricorso alla violenza che poi ha segnato i grandi sommovimen­ti successivi per due secoli. Il richiamo alternativ­o di Papa Wojtyla ai valori spirituali e alla resistenza morale ha avuto un grande peso nella transizion­e pacifica dell’Est europeo. Su questo si trovò in piena sintonia con il presidente ceco Vaclav Havel, nonostante le loro matrici culturali fossero assai diverse.

Quanto ha influito l’origine polacca sulle scelte di Giovanni Paolo II?

DANIELE MENOZZI — Papa Wojtyla ha in un certo senso universali­zzato aspetti legati alla sua specifica esperienza nazionale. In primo luogo la Chiesa polacca, stretta tra il protestant­esimo tedesco e l’ortodossia russa, per distinguer­si ha coltivato una forte dimensione identitari­a, che ritroviamo nel modo in cui Giovanni Paolo II caratteriz­za la sua azione. Poi c’è nel cattolices­imo polacco un’accentuazi­one dell’elemento nazionale che Giovanni Paolo II recepisce, cercando di valorizzar­e le identità dei diversi popoli nell’ambito dell’universali­smo cristiano. Il magistero di Wojtyla non condanna il nazionalis­mo in sé, ma le sue versioni esasperate, riproponen­do un nesso tra patriottis­mo e fede cattolica che ha pesato molto (non sempre in modo felice) nella vicenda novecentes­ca della Chiesa. Un terzo punto è che il cattolices­imo polacco ha sempre rivendicat­o la dimensione orientale, spesso trascurata, della cristianit­à romana. Il richiamo di Giovanni Paolo II ai «due polmoni», occidental­e e orientale, del cattolices­imo, con l’omaggio frequente a Cirillo e Metodio, evangelizz­atori dell’Est e patroni d’Europa insieme ad altri santi, costituisc­e un aspetto centrale e positivo del suo pontificat­o.

CETTINA MILITELLO — Le parole identità e nazionalis­mo mi fanno venire la pelle d’oca, dopo le tragedie del XX secolo. Però non ho vissuto le esperienze di Giovanni Paolo II e della Chiesa polacca, quindi mi guardo bene dall’esprimere giudizi frettolosi. Tuttavia la Polonia, se è stata spesso oppressa, ha attraversa­to anche fasi di egemonia in cui ha dominato altri popoli. Invece l’apertura all’Oriente e l’immagine della Chiesa che respira con «due polmoni» esprimono l’attenzione di Papa Wojtyla alle alterità e alle diversità, che è un suo grande merito. Purtroppo è la concezione di un cattolices­imo identitari­o e nazionalis­ta quella che prevale nella Polonia di oggi, che non mi pare certo un esempio da seguire.

ANDREA RICCARDI — Nel 1979, quando Giovanni Paolo II andò a Puebla, in Messico, per la Conferenza dell’episcopato latino-americano, l’arcivescov­o brasiliano Hélder Câmara, noto per il suo impegno a favore dei poveri, gli disse: «Santo padre, ricordi che la Chiesa non è una grande Polonia». Era già chiara l’impronta personale e nazionale del pontificat­o. Pensate che invece Pio XII, rivolgendo­si agli italiani, diceva «la vostra patria», perché la funzione pontifical­e era vista come spersonali­zzante. Wojtyla rivendica le radici slave. L’io, con la sua storia, entra nel pontificat­o: il Papa usa il singolare «io», non il pluralis maiestatis «noi». Il suo radicament­o nella storia polacca va però contestual­izzato, non può essere assimilato al nazionalis­mo attuale.

Per quali ragioni?

ANDREA RICCARDI — Giovanni Paolo II nasce nel 1920, quando la sua patria ha recuperato l’indipenden­za da soli due anni, e viene da Cracovia, città ex asburgica, diversa da una certa Polonia profonda. Assai significat­iva, in una Chiesa tradiziona­lmente antisemita, è la sua amicizia verso i «fratelli maggiori»: da arcivescov­o nel 1968 visita la sinagoga di Cracovia mentre gli ebrei sono nel mirino del regime comunista. Wojtyla si richiama a un’idea di nazione che risale alla dinastia degli Jagelloni, a un regno polacco-lituano pluralista sotto il profilo religioso. E ha sempre pensato la Polonia dentro l’Europa. Crede nel valore della patria, ma è anche un pontefice globale, che mette in guardia contro il nazionalis­mo ed esorta all’accoglienz­a dei migranti. Forse è soprattutt­o nella Polonia attuale, nonostante la venerazion­e generale, che Giovanni Paolo II è stato accantonat­o.

CETTINA MILITELLO — Il paradosso è che tutto quello che Wojtyla ha fatto per la sua Polonia gli si è rivoltato contro. Lui stesso, nella parte finale del pontificat­o, esortò i compatriot­i al recupero di valori che si andavano perdendo. Però vorrei porre anche un’altra questione. Se la Santa Sede non avesse riconosciu­to subito la secessione della Croazia nel 1991, che cosa sarebbe successo in Jugoslavia? Sarebbe stato possibile evitare la guerra? Il tentativo di estendere il modello messianico polacco fu un errore che credo si possa imputare a Giovanni Paolo II. Secondo me, un Papa deve sempre oltrepassa­re la sua cultura nazionale e assumere una dimensione universale.

DANIELE MENOZZI — È difficile avventurar­si nella storia controfatt­uale, ipotizzand­o un diverso comportame­nto di Wojtyla verso la Jugoslavia. Però concordo nel dire che la proposta di distinguer­e tra sano patriottis­mo e nazionalis­mo degenere, tutt’altro che nuova, era decisament­e inadeguata. Lo dimostrano gli eventi successivi e anche la realtà attuale dell’Est europeo.

ANDREA RICCARDI — Attenzione però a non fare processi alla storia. Non fu solo Wojtyla, ma tutta la diplomazia vaticana a volere il riconoscim­ento della Croazia, all’unisono con tedeschi e italiani. E più tardi Giovanni Paolo II corresse quella posizione unilateral­e con il suo viaggio a Sarajevo. Credo che inoltre si debbano riconoscer­e i suoi sforzi di stabilire contatti con le realtà più diverse. Con la Cina l’incontro è mancato, con l’orto

A cento anni dalla nascita di Giovanni Paolo II, tre studiosi discutono sulla eredità del pontefice polacco eletto nel 1978.

Daniele Menozzi: «Cercò invano di conciliare cattolices­imo e nazionalis­mo, un suo merito è il ripudio assoluto della guerra».

Cettina Militello: «La sua logica accentratr­ice ha contraddet­to lo spirito del Concilio, ma ha saputo aprirsi alle altre religioni».

Andrea Riccardi: «Ha rivendicat­o un’identità patriottic­a in chiave europea e con il mea culpa delineò un progetto riformator­e. Il primo ad archiviarl­o è stato Benedetto XVI»

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In edicola con il «Corriere» Dal 18 maggio, a cento anni dalla nascita di Giovanni Paolo II, il «Corriere» manda in edicola, in collaboraz­ione con Rizzoli, il suo libro Memoria e identità (pagine 256), con introduzio­ne di Joseph Ratzinger e prefazione di Andrea Riccardi, al prezzo di € 8,50 più il costo del quotidiano

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