Corriere della Sera - La Lettura

Luis Sepúlveda e mia nonna ora sono insieme

Memorie Nonna Paola ci ha tenuti uniti prima e dopo la scomparsa di mia mamma; lo scrittore cileno mi ha abbracciat­o prima ancora di conoscermi («La gabbianell­a» è stato l’ultimo romanzo che mamma ha letto in ospedale). Se ne sono andati nelle stesse ore

- di MIRKO ZILAHY

La Mercedes con la croce sopra il tetto procede nel silenzio. Non il silenzio rispettoso delle esequie, quello della notte nel deserto. Con Chiara e Isabella, le mie sorelle, seguiamo l’ultima donna nel piccolo tempio di famiglia. Non c’è gente, al cimitero — hanno aperto i cancelli per noi e li hanno richiusi alle nostre spalle — non c’è stata una messa, un saluto, una parola di conforto. Per nessuno.

Libero Liberati, il Cavaliere d’Acciaio campione del mondo di motociclis­mo, il simbolo della potenza siderurgic­a di Terni nel secondo dopoguerra, è sempre stato il primo della galleria di meraviglie di nonna, la prima sosta nelle passeggiat­e tra le statue e i cipressi. Un luogo in cui non si versava nemmeno una lacrima — la pizza bianca, la scopa di saggina, l’innaffiato­io per 100 lire — ma si ascoltavan­o le storie familiari e i destini degli eroi della città come se fossimo in gita.

Paola Babbini possedeva un’eleganza innata, un cervello vibrante — laureata in Psicologia infantile e Pedagogia — e un volto bellissimo che erano leggenda familiare. La figlia di Ferruccio

Babbini — «Babbo» perché insegnava ai ragazzi i segreti dell’acciaio e lavorava di notte per sfuggire ai fascisti che lo avevano bandito, socialista, dalla fabbrica — non c’è più. È scomparsa da qualche parte nel Pronto Soccorso dell’ospedale Santa Maria di Terni, in Umbria, dopo cinquanta giorni di passione. Era entrata per una peritonite a fine febbraio, il quadro clinico aggravato dalla pleurite che si portava da piccina. I tamponi negativi, le notti di cristallo, i gemiti del corpo, le scosse di fuoco nell’addome, le richieste strazianti, «aiutami» — noi, impotenti e spaventati — la ricerca di medici e infermieri nel caos di quei giorni. Faceva dentro e fuori dal suo sonno di bambina ma a tratti tornava la donna, la madre e la nonna che è stata in un sorriso, in un grazie. E quei «tratti» mi rintoccano addosso come un alfabeto morse, mi sollevano e mi precipitan­o. Mozzano il fiato.

Sono riuscito a stare con lei fino a quando l’emergenza si è fatta pressante e i divieti d’accesso rigidi e necessari. Dal 17 marzo le dimissioni protette all’Rsa, dove Isabella che fino ad allora la nutriva e le dava sostegno è potuta entrare pochissimo. In quella prima solitudine, la ricaduta. Il peggiorame­nto del quadro clinico e di nuovo all’ospedale, dove il 5 aprile si era rimessa abbastanza da scambiare poche parole al telefono, «ti voglio bene, sei il mio grande amore», la speranza nella voce: «Stavolta me la sono vista brutta, grazie per l’amore che ci avete messo». Poi: «Dove sei? Quando vieni?».

L’11 agosto 1943, Paola Babbini aveva udito l’urlo della sirena, visto gli aerei bombardare la fabbrica d’armi di Terni, il tram in fiamme con la gente che urlava appesa ai finestrini frantumati. Sfollata a Papigno si era sdraiata in mezzo all’erba e le rocce guardando in aria in cerca delle facce dei piloti tedeschi che si abbassavan­o per mitragliar­e i civili. «Io devo vedere, devo sapere», ripeteva. Allo stesso modo aveva superato due brutti mali, la scomparsa dell’unica figlia — mia madre — per quello stesso male innominabi­le; ma era sempre lì, nella sua camera da letto in camicia di seta e foulard a leggere per non pensare e a guardare lontano. Una figura eterna. Portava gli occhiali come si indossa un diadema e quando gli occhi hanno iniziato a stancarsi si è affidata alla voce. Quella con cui l’ultima notte che ho passato in ospedale mi ha ripetuto «devi scrivere», la stessa con cui intonava i dettati ortografic­i quand’ero in terza elementare.

Il ritorno all’Rsa prima di Pasqua e l’isolamento, stavolta totale, le sono stati fatali. Se n’è andata il 14 aprile alle 15.28 nell’ultimo sforzo di rianimarla. Il 17 avrebbe compiuto 96 anni, ed ero certo, una certezza devota e angosciosa, che l’avrei rivista.

Se n’è andata e io non c’ero. Non c’era Mirko, né Isabella, né Chiara. La sera prima era inquieta, ci hanno detto. Mi hanno lasciata? È un pensiero che sciama a folate. Un pensiero di carne: il dolore e l’abbandono. E ora è quella solitudine, più del «mai più», che mi mangia l’anima. Per quanto glielo avessimo ripetuto, nonna non ricordava, o forse non riusciva a credere che ci fosse, fuori, un virus più grande della sua guerra, delle file davanti ai forni, più ingombrant­e delle macerie.

Exegi monumentum aere perennius, ho eretto un monumento più duraturo del bronzo, è il verso di Orazio sulla tomba di famiglia. E quando il legno scende dentro al marmo senza fiori, capisco di aver perso il rifugio, smarrito la storia, la memoria, il cuore della donna che ci ha tenuti uniti prima e dopo la scomparsa di sua figlia, il 15 settembre 1998. Insieme, giunge la notizia che lontano da lì se n’è andato Sepúlveda, il caro Lucho. Le due cose si mescolano appena e mi visitano i ricordi di Luis.

La notte del 9 luglio 2017, una notte con il sole alto sopra il mare di Gijon, la ruota panoramica sul porto e gli odori chiassosi del luna park, Lucho mi era venuto a prendere. Ero alla Semana Negra, il festival letterario internazio­nale delle Asturie, e avevo presentato Asì es como se mata, la versione spagnola del mio primo romanzo. Ero seduto a un tavolo sulla banchina per un’intervista, quando una mano mi prese per la spalla. Dietro di me c’era un gigante che copriva il disco pallido del sole. Indossava gli occhiali scuri come un’armatura. Mi voltai sollevando­mi e prima di vederlo, prima di capire chi fosse — non c’eravamo incontrati mai —, disse: «Mirko, vieni con me, ti presento un amico». L’amico era Daniel Mordzinski, il fotografo che ha rubato alla vita le luci e le ombre di Borges, Márquez, Cortázar, Montalbán tra gli altri grandissim­i. Voleva fotografar­ci insieme. Ci mise contro il sole notturno a sfidarlo con il sorriso sulle labbra. Abbracciat­i, Lucho mi disse a mezza bocca, per non rovinare la posa, «mi ha incantato il tuo commissari­o con i guanti», era così che chiamava

Mancini. Non ricordo nient’altro di quella sera, se non l’emozione per l’umanità dell’eroe che mi stava accanto, per il narratore straordina­rio, per il suo cuore, tenace e resistente. E per la generosità: il giorno dopo Daniel Mordzinski mi chiamò per un servizio fotografic­o su «El País».

Ogni volta che ci siamo incontrati è stato un abbraccio, perché la mano avrebbe tradito una distanza che non c’era. L’ultima, a ottobre, a Milano per presentarl­o, ero teso, senza una ragione. Appuntavo le domande su Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa, quando è apparso un ricordo, un nodo nascosto nel groviglio dei grovigli. Una copertina celeste sul comodino di mia madre. Storia di una gabbianell­a e del gatto che le insegnò a volare, nella prima edizione Salani. Il libro che portò in ospedale. L’ultimo che lesse. In quel momento, prima dell’incontro con Luis, l’emozione illuminò lacci che fino allora mi parevano invisibili. Eppure adesso nonna e Lucho, da qualche parte dentro di me, chiudono il loro cerchio, diventano un’immagine sola. Ho cercato di tenerli separati, di impedire la sovrapposi­zione del dolore che temevo da una vita con il rimpianto per un uomo che mi ha sempre detto con gli occhi: siamo uguali. Ma sono insieme persino nell’idea, feroce, che abbiano sconfitto prigionia, torture ed esili, regimi, guerre e malattie per finire nella trappola di questa piaga — lui ucciso, lei sola all’ombra del virus. E il pensiero che ce ne siano a migliaia in attesa di una morte silenziosa, soli con lo spettro dell’anima che si spegne, spezza la mia umanità più del lutto. Non possono affogare nel silenzio che li ucciderebb­e due volte. È così che mi attacco alle loro voci. Il graffio delicato di mia nonna quando parlava dei suoi bambini — «ho insegnato 37 anni» —, il docile ruggito di Luis nelle storie ribelli e nelle favole (con la voce italiana di Ilide Carmignani).

I miei figli mi chiedono di nonna e io non so che raccontare. Poi del gigante che ha scritto quelle favole, che ha disegnato chiocciole e musetti felini come dedica ai suoi libri per loro. «Si conoscevan­o?», mi domandano. No. «Ma adesso stanno insieme?». Vorrei avere il coraggio per rispondere di no. «Certo che stanno insieme», riesco a sussurrare. Si sono incontrati una mattina di metà aprile in fondo a questo petto dove abiterà lo spazio-tempo infinito dell’immaginazi­one.

I miei figli mi chiedono dove sono ora nonna e Lu

cho, se stanno insieme. Vorrei dire di no. Dico di sì

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy