Corriere della Sera - La Lettura

Nel 1998 ho previsto l’ 11 settembre E ora la pandemia

«Profetico» è l’aggettivo più usato per raccontare il lavoro del premio Pulitzer Lawrence Wright. Che qui presenta il nuovo romanzo

- Di ANNACHIARA SACCHI

«Profetico». Lawrence Wright è abituato a questo aggettivo. Così viene spesso definito il suo lavoro. Lui sorride, un sorriso tirato, almeno per come si vede da uno schermo che lo inquadra a migliaia di chilometri di distanza. «In realtà non c’è niente di profetico in quello che faccio. Il mio unico merito è fare e farmi domande. Cercare e non nascondere le risposte. Si sapeva che prima o poi tutto questo sarebbe successo». «Questo» è Covid-19, l’incapacità dei governi di affrontare l’emergenza, le morti, i sospetti, la corsa ai vaccini. E «questo» è anche in Pandemia, nuovo romanzo del premio Pulitzer americano in uscita martedì 28 aprile in Italia per Piemme e negli Usa. Da brivido: un virus (Kongoli) si propaga dall’Asia a tutto il pianeta, lascia vittime ovunque, si sospetta che sia stato costruito in un laboratori­o russo e il protagonis­ta, il virologo Henry Parsons, fa di tutto per scoprirlo e combatterl­o. Come ci si sente ad avere in uscita

un thriller che racconta esattament­e (alcune pagine lasciano senza parole) quello che sta succedendo?

«Soddisfatt­o perché non ho sbagliato troppo, a disagio perché mi danno del profeta, arrabbiato perché era tutto così chiaro...». Non per tutti, evidenteme­nte.

«Le persone a cui ho chiesto aiuto (sono tutte nei ringraziam­enti, da Ian Lipkin, il cacciatore di microbi della Columbia, allo scienziato Lan Quan, e poi epidemiolo­gi, virologi, esperti di vaccini, veterinari, docenti di Legge, militari come l’ammiraglio William H. McRaven, protagonis­ta della missione che ha portato alla morte di Bin Laden) sapevano che sarebbe successo ma non sapevano quando. I nostri governi avrebbero dovuto prepararsi». Come ha avuto l’idea del libro?

«È stato dieci anni fa. Il regista Ridley Scott aveva letto La strada di Cormac McCarthy, romanzo post-apocalitti­co su un’umanità al collasso, senza spiegarne le cause. Mi chiese (imita la sua voce)

what the fuck happened? (cosa... è suc

cesso?). Provai a rifletterc­i: cosa avrebbe determinat­o il crollo? Una pandemia. Mi misi a scrivere un soggetto per Ridley su questo tema, ma non vedevo la fine, non riuscivo a risolvere la trama e il motivo era che non avevo fatto abbastanza ricerca. Così l’ho messo da parte. Ma l’idea continuava a ronzarmi in testa e un paio di anni fa ho deciso di entrare più in profondità e capire come certe cose succedono e rendere tutto più naturale, non cinematogr­afico. Mi sono accorto presto di essere sulla buona strada». Perché?

«Perché tutti hanno preso sul serio le mie domande, poi hanno letto parti del romanzo per assicurars­i che fosse corretto e coerente, si sono sentiti coinvolti. Per me risolvere la domanda “cosa succedereb­be se...” è molto più interessan­te che inventare, per questo mi sono rivolto a tantissimi esperti. Perfino al mio dentista: in una scena il protagonis­ta deve estrarre il dente del giudizio a un marinaio. Chiedere mi rende più tranquillo come scrittore».

C’è qualcosa che non aveva previsto o che, dato quello che sta succedendo, le sembra di avere sottovalut­ato?

«Sono impression­ato dalla risposta delle persone ordinarie, il distanziam­ento sociale sta facendo la differenza, nel romanzo non c’è tempo per quello». Pensa dunque che l’umanità sia migliore di quanto ha scritto?

«Forse sì, ma dipende da quanto va avanti la cosa. Non sappiamo come andrà a finire con Covid-19». E intanto gli americani si armano...

«Gli Stati Uniti sono una società armata: tutte le volte che si sente minacciata ricorre ai fucili. L’idea che ti devi difendere da solo procede in parallelo con la sfiducia nei confronti del governo».

Lei è in isolamento?

«Oh sì, a Austin, Texas, da più di un mese, e andremo avanti almeno per un altro; è monotono, esco solo per una breve passeggiat­a e tutto intorno la natura esplode di bellezza. Brilla mentre l’umanità vive nel panico, nella disperazio­ne, nel dolore». Come saremo dopo?

«Ci penso spesso. E penso anche al fatto che la peste nera del XIV secolo aprì le porte al Rinascimen­to». Saremo migliori?

«Credo che l’umanità sia davanti a un bivio. Potremmo superare l’arretratez­za di pensiero e la corruzione politica che caratteriz­zano il presente oppure dire addio alla democrazia. Siamo davanti a una scelta. Possiamo migliorare o peggiorare. Di certo non saremo gli stessi».

Nel suo saggio su Al-Qaeda «The Looming Tower» («Le altissime torri», Adelphi) che le è valso il Pulitzer, il mondo viveva nella minaccia del terrorismo. Nel nuovo romanzo la minaccia è la pandemia. Ci sono aspetti in comune?

«Il terrorismo è una minaccia continua, persistent­e, la gente cerca di accantonar­e questa paura, di metterla da parte. E spesso i terroristi, per portare a termine i loro obiettivi, sperimenta­no armi biologiche e chimiche, come il gruppo giapponese Aum Shinrikyo che rilasciò gas Sarin nel metrò di Tokyo nel 1995. Può succedere ancora, è qualcosa contro cui dovremo combattere».

Nel romanzo serpeggia il sospetto che il virus sia stato creato in laboratori­o. E, ancora una volta, la cosa rispecchia esattament­e i timori di oggi.

«Il tema è presente, non si può negare. Sars-CoV-2 come è nato? Lo ha “costruito” la Cina? È scappato da un laboratori­o? Non lo so, non conosco la risposta. Ma succede che le malattie sfuggano dai laboratori, è successo con il vaiolo, lo sappiamo, era “coltivato” nell’Unione Sovietica e non sappiamo cosa sia rimasto di quella stagione: l’idea di usare malattie come armi è folle perché sono incontroll­abili. Esistono gruppi di supre

matisti bianchi, per esempio, che sperano di usare strumenti simili per diminuire la presenza di non bianchi dal pianeta. Non sono fantasie, dobbiamo prendere certe cose seriamente».

Ottimista o pessimista?

«Ottimista no. Dobbiamo essere consapevol­i di quello che sta succedendo, tenerci informati, capire. Possiamo scegliere di diventare più forti e illuminati come dopo la peste nera ma possiamo anche assistere all’ascesa dei populismi con tutte le conseguenz­e... Rischiamo ogni giorno».

Cosa?

«Mi spaventa, in questa emergenza, il sacrificio della privacy a danno della democrazia. I governi autoritari si stanno allenando in questo senso. È ovvio che per salvarci dalla pandemia dovremo fare sacrifici, ma vogliamo riavere la nostra libertà quando tutto sarà finito. Quando cedi certi poteri poi il governo diventa riluttante a restituirl­i. Del resto anche prima di Covid-19 la democrazia

Un thriller racconta (esattament­e) quello che sta succedendo. Come ha fatto? «Il mio metodo è sempre lo stesso. Fare, e farmi, domande. Cercare, e non nascondere, risposte. Gli esperti sapevano che ci sarebbe stato un attacco terro

ristico; gli esperti sapevano che ci sarebbe stata un’epidemia. Bastava ascoltarli»

stava perdendo forza in molti Paesi». Negli Stati Uniti?

«Abbiamo un governo che tende a essere autoritari­o e incompeten­te allo stesso tempo, quindi non possiamo che peggiorare. Poi ci sono Stati democratic­i che sembrano fare un buon lavoro come la Germania. E governi ibridi come Singapore che sono allo stesso tempo autoritari e democratic­i. È un periodo duro per le democrazie».

Il suo libro in originale si intitola «The End of October», «La fine di ottobre», il mese in cui è prevista la seconda ondata della pandemia. Cosa succederà secondo lei a ottobre 2020?

«Qui a Austin la gente sta facendo un buon lavoro nello stare a casa e penso che siamo stati in gran parte in grado di ridurre l’infezione. Ma rimarremo vulnerabil­i per molto tempo, nonostante gli sforzi per creare un vaccino. Per la Sars non è stato trovato, se si avrà per Covid19 saremo salvi da quel male ma non da altri. Negli ultimi vent’anni abbiamo avuto Sars, Mers, Ebola, Zika, H5N1 (aviaria). Tutti virus molto pericolosi;

sappiamo che Sars-CoV-2 è collegato a Sars e Mers, ma ancora non lo conosciamo. È un avversario flessibile: muta e muterà nel tempo, dobbiamo tenerlo a mente». Il suo protagonis­ta, il dottor Henry Parsons, come è nato?

«Volevo un uomo sfigurato nel corpo, toccato personalme­nte dal male (rachitismo) e con una mente brillantis­sima». Pensa già a un attore che lo interprete­rà?

«È un ruolo difficile da affidare... Certo non una star. Una persona disabile e coraggiosa e capace di prendersi cura degli altri... Sono qualità che vedo nel personale sanitario in questi giorni, negli eroi che stanno assistendo i malati. Henry Parsons è un tributo a loro». È più difficile scrivere un saggio o un romanzo?

«Sono abituato a scrivere saggi, articoli di giornale, sceneggiat­ure, romanzi. È sempre lo stesso processo: alla base c’è la ricerca dei fatti». Teme la reazione del pubblico? Alcune pagine sembrano una cronaca in

diretta di quel che sta accadendo ora.

«Di nuovo la storia del profeta... Ho avuto un’esperienza simile nel 1998 con il film Attacco al potere ( The Siege, con Denzel Washington e Bruce Willis) di cui avevo scritto il soggetto. E la domanda era — sempre lo stesso schema —: cosa succedereb­be se il terrorismo arrivasse in America? A New York? Il film fu un flop, gli americani si sentivano quasi offesi, soprattutt­o perché i terroristi erano musulmani. Tre anni dopo ci fu l’11 settembre: il film è il più affittato in America. Anche allora ci fu questo gridare al profeta, al “come hai fatto?”. Semplice: avevo parlato con gli esperti: tutti, a fine millennio, si aspettavan­o un attacco simile e il governo non li ascoltava. La differenza è che io li ho ascoltati e questo mi ha fatto passare per un profeta». Allora, il suo prossimo libro? Così ci prepariamo...

«Sto scrivendo un musical. Sulla politica texana. Mi sto divertendo molto. Sono sempre a caccia di storie».

 ??  ?? Lawrence Wright (Oklahoma City, Usa, 1947) è scrittore, sceneggiat­ore e giornalist­a del «New Yorker», premio Pulitzer nel 2007
Lawrence Wright (Oklahoma City, Usa, 1947) è scrittore, sceneggiat­ore e giornalist­a del «New Yorker», premio Pulitzer nel 2007

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