Corriere della Sera - La Lettura

Quattro persone, 80 metri La libertà è un tavolino

- Di GIAMPIERO ROSSI

Una splendida famiglia, come milioni di altre; in una città, Milano, e una regione, la Lombardia, ferite, più di altre. Ecco com’è la quarantena di una famiglia normale.

E come persino la quarantena può insegnare qualcosa. Per esempio a ritrovarsi a tavola, a parlare...

La pietra angolare della casa, la chiave di un meccanismo umano quasi perfetto, il metronomo di una sincronia organizzat­iva che svizzeri e giapponesi possono solo sognare, è un tavolino pieghevole comprato — con seggiolina abbinata — nelle ultime ore utili prima che i centri commercial­i venissero chiusi e la vita venisse congelata.

Naturalmen­te l’idea è dell’unica donna del clan, la signora Valeria, mamma, moglie, infermiera. Peraltro anche l’unica chiamata necessaria­mente a uscire tutti i giorni. È stato grazie a quel tavolino, assegnato d’imperio all’ingegnere Andrea, nominale capofamigl­ia, se questi due mesi di quarantena collettiva di casa Candito hanno potuto incardinar­si su binari tutto sommato scorrevoli, creare una nuova routine, prevenire tumulti e rivolte domestiche e, addirittur­a, diventare di settimana in settimana i presuppost­i per riconsider­are la vita di «prima» e quella che verrà.

Via Depretis, quartiere Sant’Ambrogio, periferia sud-ovest di Milano, un insediamen­to popolare che negli anni Settanta sfidava il confine nebbioso della città, successiva­mente magnete di nuove ondate di palazzi e umanità. Andrea e Valeria Candito, entrambi figli del vicino viale Famagosta, fidanzati da trent’anni, sposati da 24, abitano qui. Con loro vivono due dei tre figli, Hoang di 17 anni e Gabriele di 11 e mezzo. Il primogenit­o Massimo, 23 anni, abita per conto suo. E in questo appartamen­to al terzo piano, affacciato su tanti altri simili, la famiglia Candito ha vissuto anche questa lunga quarantena collettiva. Quattro persone in 80 metri quadrati di appartamen­to. In pratica 20 metri a testa. Per due mesi. Certo, vivevano già tutti insieme, tra quelle mura, ma i domiciliar­i di massa hanno cambiato tutto e messo in discussion­e molto. Soprattutt­o all’inizio, quando i tre locali si sono trasformat­i in ufficio e aule scolastich­e. «Io faccio i turni in rianimazio­ne, al Policlinic­o, quindi ho orari che cambiano continuame­nte nel corso della settimana: a volte, per esempio, faccio la notte e di giorno devo riposare un po’, altre volte sono libera di mattina o di pomeriggio — racconta la signora Valeria —. Così, quando mi sono trovata con un figlio che seguiva le lezioni chiuso nella sua stanza, un altro che lo faceva in cucina e mio marito che si era sistemato in salotto per lavorare ho sentito un allarme: e io dove vado? Quei tre non penseranno che rimanga chiusa in camera da letto per tutto il tempo in cui sarò a casa?».

Così scatta l’operazione che deciderà le sorti dei due mesi successivi: «I centri commercial­i non erano ancora stati chiusi, e allora sono andata a comprare tavolino pieghevole e seggiolina e da quel mo

mento mio marito si è sistemato in camera da letto e abbiamo guadagnato una stanza». È l’inizio dell’altra vita della famiglia candito, la vita di tante famiglie. Spazi ristretti, orizzonti murati, ognuno con i propri impegni, computer in abbondanza («Mio marito è appassiona­to e recupera anche l’usato») e un balcone (di questi tempi un lusso) affacciato sul quartiere. L’unica a uscire di casa è lei, Valeria, che provvede anche alla spesa. I tre maschi restano in rigorosa quarantena, con una sola eccezione: «L’immondizia la butta via sempre e solo mio marito, che si gode le sei rampe di scale».

La giornata tipo è cambiata, ma ha rapidament­e assunto la sua nuova regolarità: «Andrea, che prima si doveva alzare alle 6, adesso, senza figli da accompagna­re a scuola né trasferime­nti in città, non ha nemmeno bisogno della sveglia —racconta l’infermiera, moglie e mamma — si alza alle 7.20 e poi si piazza col suo tavolino in salotto e inizia a lavorare. Quando anche i ragazzi prendono posizione per la loro mattinata di scuola a distanza, uno in camera e l’altro in cucina, mio marito si trasferisc­e in camera da letto e io posso gestirmi tra sala e balcone, se le giornate lo permettono. Se invece sono reduce da un turno di notte lui resta in sala e io dormo». I movimenti di postazione hanno acquisito automatism­i perfetti. Per esempio: «Se Hoang finisce la sua lezione prima, Gabriele si sposta in cameretta e libera la cucina». La domenica, anche se non si può andare in chiesa, c’è comunque la messa da seguire, qualche volta ci scappa un collegamen­to video con gli amici, e alla sera c’è spazio per qualche film e — cosa meno consueta — anche per giochi da tavolo coinvolgen­ti per Gabriele, ai quali il fratello diciasette­nne preferisce le chat con gli amici.

Il pranzo di famiglia è una novità assoluta, ma anche a cena la riunione plenaria di famiglia non era poi così frequente: «Tra turni miei, orari di lavoro di Andrea e impegni sportivi dei ragazzi, si cenava spesso due alla volta. Chi c’era, mangiava». Ora invece, è diventato l’appuntamen­to fisso, con un telegiorna­le in sottofondo e una sessione di chiacchier­e che sembra strappata all’epoca del caminetto. «Parliamo tantissimo — spiega Valeria — e devo dire che le discussion­i sono molto rare. Può capitare lo scatto, l’insofferen­za per una frase, soprattutt­o tra i due ragazzi: il grande fa l’insofferen­te per il piccolo che considera un bambino, fingendo di dimenticar­si che intanto lui usufruisce della camera per venti ore al giorno. Però litigi veri no, nessuna esplosione, anche perché in questo momento tutti abbiamo gesti e spazi molto definiti e delimitati, ognuno sa cosa deve e cosa può fare. Hoang si diletta molto a cucinare, per esempio, l’altro giorno ha fatto un’ottima pasta con i gamberi». Ma di cosa si parla attorno a quel tavolo? La television­e rimanda notizie o discussion­i che gravitano attorno al coronaviru­s. E con un’infermiera in casa… «No, no, in realtà

non ne parliamo più, se non per le questioni che coinvolgon­o la nostra nuova quotidiani­tà. Se ne è parlato parecchio all’inizio — sottolinea la signora Candito — quand’era ancora difficile far capire a un adolescent­e che non poteva fare le stesse cose di prima e che il pericolo non era limitato a persone anziane o malate. Allora portavo esempi e racconti dalle mie giornate nella rianimazio­ne del Policlinic­o, anche per spaventarl­o un po’, per fargli prendere coscienza della situazione. Poi piano piano la nostra settimana è entrata in una nuova routine».

Tuttavia, tra la cucina e il balcone — magnete per le serate più tiepide dell’aprile di via Depretis — il dibattito familiare ha subito un salto di qualità: «Senza rendercene conto abbiamo messo insieme molte riflession­i sulla nostra vita precedente. Così, in modo spicciolo, non che ci si sia messi lì a fare chissà quali dibattiti. Però un po’ di cose sono venute fuori», dice Valeria. Per esempio l’adolescent­e Hoang ha confidato la mancanza dei suoi amici, dello sport in cui scaricava tante energie, del senso di esplorazio­ne e libertà nel vagare per il quartiere, ma ha anche constatato che gli manca la scuola, la disciplina implicita, la fisicità. «Però — rivela la madre — anche lui ha detto di apprezzare la vita rallentata di queste settimane, il non sentire addosso alcuna fretta, la semplifica­zione rispetto a tanta frenesia». Il piccolo Gabriele, invece, dice di sentirsi meglio senza gli obblighi di «prima». Mentre papà Andrea è molto realista: «Abbiamo perso la libertà di vivere la nostra vita, quella che ci siamo creati, mi manca tanto la piscina e tutto ciò che coltivavo dopo avere selezionat­o le cose che sentivo più giuste per me». E a questo, da buon padre di famiglia, aggiunge le nuove preoccupaz­ioni: per la salute e per il futuro dei suoi figli e anche «per tutto quello che questi ragazzi rischiano di perdersi» a causa dell’impatto che i timori del virus avranno sui comportame­nti sociali e sulle economie.

Tocca di nuovo a mamma Valeria fare una sintesi, aggiungend­o alla lista delle consideraz­ioni anche quelle più impegnativ­e e, forse, più spaventose: «Questa vicenda è stato uno choc, ci sta costringen­do a reimpostar­e le nostre vite, ma ci ha messi anche di fronte ad alcune realtà che finora non riuscivamo a cogliere». Per esempio? «Guardiamo noi stessi, per primi: ma quando mai in tutti questi anni avevamo trascorso tante serate a conversare sul balcone? Allora non possiamo non chiederci se negli ultimi dieci o vent’anni non abbiamo accelerato troppo, se la libertà che ora aspettiamo di riconquist­are fuori da queste mura non era poi tutta vera. Insomma, ce lo siamo detti qualche sera fa, il nostro era spesso un andirivien­i, una continua corsa su e giù, e poi si finiva per scegliere una pizzeria non perché facesse la pizza buona ma perché offriva più possibilit­à di parcheggio. Chissà, forse dopo questo passaggio impareremo a “uscire” veramente».

Ma in fondo anche a «casa» si può stare bene. Basta avere i tavolini giusti.

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