Corriere della Sera - La Lettura
Quattro persone, 80 metri La libertà è un tavolino
Una splendida famiglia, come milioni di altre; in una città, Milano, e una regione, la Lombardia, ferite, più di altre. Ecco com’è la quarantena di una famiglia normale.
E come persino la quarantena può insegnare qualcosa. Per esempio a ritrovarsi a tavola, a parlare...
La pietra angolare della casa, la chiave di un meccanismo umano quasi perfetto, il metronomo di una sincronia organizzativa che svizzeri e giapponesi possono solo sognare, è un tavolino pieghevole comprato — con seggiolina abbinata — nelle ultime ore utili prima che i centri commerciali venissero chiusi e la vita venisse congelata.
Naturalmente l’idea è dell’unica donna del clan, la signora Valeria, mamma, moglie, infermiera. Peraltro anche l’unica chiamata necessariamente a uscire tutti i giorni. È stato grazie a quel tavolino, assegnato d’imperio all’ingegnere Andrea, nominale capofamiglia, se questi due mesi di quarantena collettiva di casa Candito hanno potuto incardinarsi su binari tutto sommato scorrevoli, creare una nuova routine, prevenire tumulti e rivolte domestiche e, addirittura, diventare di settimana in settimana i presupposti per riconsiderare la vita di «prima» e quella che verrà.
Via Depretis, quartiere Sant’Ambrogio, periferia sud-ovest di Milano, un insediamento popolare che negli anni Settanta sfidava il confine nebbioso della città, successivamente magnete di nuove ondate di palazzi e umanità. Andrea e Valeria Candito, entrambi figli del vicino viale Famagosta, fidanzati da trent’anni, sposati da 24, abitano qui. Con loro vivono due dei tre figli, Hoang di 17 anni e Gabriele di 11 e mezzo. Il primogenito Massimo, 23 anni, abita per conto suo. E in questo appartamento al terzo piano, affacciato su tanti altri simili, la famiglia Candito ha vissuto anche questa lunga quarantena collettiva. Quattro persone in 80 metri quadrati di appartamento. In pratica 20 metri a testa. Per due mesi. Certo, vivevano già tutti insieme, tra quelle mura, ma i domiciliari di massa hanno cambiato tutto e messo in discussione molto. Soprattutto all’inizio, quando i tre locali si sono trasformati in ufficio e aule scolastiche. «Io faccio i turni in rianimazione, al Policlinico, quindi ho orari che cambiano continuamente nel corso della settimana: a volte, per esempio, faccio la notte e di giorno devo riposare un po’, altre volte sono libera di mattina o di pomeriggio — racconta la signora Valeria —. Così, quando mi sono trovata con un figlio che seguiva le lezioni chiuso nella sua stanza, un altro che lo faceva in cucina e mio marito che si era sistemato in salotto per lavorare ho sentito un allarme: e io dove vado? Quei tre non penseranno che rimanga chiusa in camera da letto per tutto il tempo in cui sarò a casa?».
Così scatta l’operazione che deciderà le sorti dei due mesi successivi: «I centri commerciali non erano ancora stati chiusi, e allora sono andata a comprare tavolino pieghevole e seggiolina e da quel mo
mento mio marito si è sistemato in camera da letto e abbiamo guadagnato una stanza». È l’inizio dell’altra vita della famiglia candito, la vita di tante famiglie. Spazi ristretti, orizzonti murati, ognuno con i propri impegni, computer in abbondanza («Mio marito è appassionato e recupera anche l’usato») e un balcone (di questi tempi un lusso) affacciato sul quartiere. L’unica a uscire di casa è lei, Valeria, che provvede anche alla spesa. I tre maschi restano in rigorosa quarantena, con una sola eccezione: «L’immondizia la butta via sempre e solo mio marito, che si gode le sei rampe di scale».
La giornata tipo è cambiata, ma ha rapidamente assunto la sua nuova regolarità: «Andrea, che prima si doveva alzare alle 6, adesso, senza figli da accompagnare a scuola né trasferimenti in città, non ha nemmeno bisogno della sveglia —racconta l’infermiera, moglie e mamma — si alza alle 7.20 e poi si piazza col suo tavolino in salotto e inizia a lavorare. Quando anche i ragazzi prendono posizione per la loro mattinata di scuola a distanza, uno in camera e l’altro in cucina, mio marito si trasferisce in camera da letto e io posso gestirmi tra sala e balcone, se le giornate lo permettono. Se invece sono reduce da un turno di notte lui resta in sala e io dormo». I movimenti di postazione hanno acquisito automatismi perfetti. Per esempio: «Se Hoang finisce la sua lezione prima, Gabriele si sposta in cameretta e libera la cucina». La domenica, anche se non si può andare in chiesa, c’è comunque la messa da seguire, qualche volta ci scappa un collegamento video con gli amici, e alla sera c’è spazio per qualche film e — cosa meno consueta — anche per giochi da tavolo coinvolgenti per Gabriele, ai quali il fratello diciasettenne preferisce le chat con gli amici.
Il pranzo di famiglia è una novità assoluta, ma anche a cena la riunione plenaria di famiglia non era poi così frequente: «Tra turni miei, orari di lavoro di Andrea e impegni sportivi dei ragazzi, si cenava spesso due alla volta. Chi c’era, mangiava». Ora invece, è diventato l’appuntamento fisso, con un telegiornale in sottofondo e una sessione di chiacchiere che sembra strappata all’epoca del caminetto. «Parliamo tantissimo — spiega Valeria — e devo dire che le discussioni sono molto rare. Può capitare lo scatto, l’insofferenza per una frase, soprattutto tra i due ragazzi: il grande fa l’insofferente per il piccolo che considera un bambino, fingendo di dimenticarsi che intanto lui usufruisce della camera per venti ore al giorno. Però litigi veri no, nessuna esplosione, anche perché in questo momento tutti abbiamo gesti e spazi molto definiti e delimitati, ognuno sa cosa deve e cosa può fare. Hoang si diletta molto a cucinare, per esempio, l’altro giorno ha fatto un’ottima pasta con i gamberi». Ma di cosa si parla attorno a quel tavolo? La televisione rimanda notizie o discussioni che gravitano attorno al coronavirus. E con un’infermiera in casa… «No, no, in realtà
non ne parliamo più, se non per le questioni che coinvolgono la nostra nuova quotidianità. Se ne è parlato parecchio all’inizio — sottolinea la signora Candito — quand’era ancora difficile far capire a un adolescente che non poteva fare le stesse cose di prima e che il pericolo non era limitato a persone anziane o malate. Allora portavo esempi e racconti dalle mie giornate nella rianimazione del Policlinico, anche per spaventarlo un po’, per fargli prendere coscienza della situazione. Poi piano piano la nostra settimana è entrata in una nuova routine».
Tuttavia, tra la cucina e il balcone — magnete per le serate più tiepide dell’aprile di via Depretis — il dibattito familiare ha subito un salto di qualità: «Senza rendercene conto abbiamo messo insieme molte riflessioni sulla nostra vita precedente. Così, in modo spicciolo, non che ci si sia messi lì a fare chissà quali dibattiti. Però un po’ di cose sono venute fuori», dice Valeria. Per esempio l’adolescente Hoang ha confidato la mancanza dei suoi amici, dello sport in cui scaricava tante energie, del senso di esplorazione e libertà nel vagare per il quartiere, ma ha anche constatato che gli manca la scuola, la disciplina implicita, la fisicità. «Però — rivela la madre — anche lui ha detto di apprezzare la vita rallentata di queste settimane, il non sentire addosso alcuna fretta, la semplificazione rispetto a tanta frenesia». Il piccolo Gabriele, invece, dice di sentirsi meglio senza gli obblighi di «prima». Mentre papà Andrea è molto realista: «Abbiamo perso la libertà di vivere la nostra vita, quella che ci siamo creati, mi manca tanto la piscina e tutto ciò che coltivavo dopo avere selezionato le cose che sentivo più giuste per me». E a questo, da buon padre di famiglia, aggiunge le nuove preoccupazioni: per la salute e per il futuro dei suoi figli e anche «per tutto quello che questi ragazzi rischiano di perdersi» a causa dell’impatto che i timori del virus avranno sui comportamenti sociali e sulle economie.
Tocca di nuovo a mamma Valeria fare una sintesi, aggiungendo alla lista delle considerazioni anche quelle più impegnative e, forse, più spaventose: «Questa vicenda è stato uno choc, ci sta costringendo a reimpostare le nostre vite, ma ci ha messi anche di fronte ad alcune realtà che finora non riuscivamo a cogliere». Per esempio? «Guardiamo noi stessi, per primi: ma quando mai in tutti questi anni avevamo trascorso tante serate a conversare sul balcone? Allora non possiamo non chiederci se negli ultimi dieci o vent’anni non abbiamo accelerato troppo, se la libertà che ora aspettiamo di riconquistare fuori da queste mura non era poi tutta vera. Insomma, ce lo siamo detti qualche sera fa, il nostro era spesso un andirivieni, una continua corsa su e giù, e poi si finiva per scegliere una pizzeria non perché facesse la pizza buona ma perché offriva più possibilità di parcheggio. Chissà, forse dopo questo passaggio impareremo a “uscire” veramente».
Ma in fondo anche a «casa» si può stare bene. Basta avere i tavolini giusti.