Corriere della Sera - La Lettura
Africa al bivio Morire di fame o di virus?
È una delle voci più originali del continente. Ecco che cosa vede Igoni Barrett dall’«esilio» olandese
Restare chiusi in casa non è facile per nessuno, ma trovarsi intrappolati nell’appartamento della suocera, e per di più all’estero... «Mi salva la scrittura — sorride Igoni Barrett —. Sto lavorando a un romanzo, una storia familiare ambientata nel Delta all’epoca di Ken SaroWiwa, lo scrittore e attivista che pagò con la vita la sua sfida agli interessi della Shell e del dittatore Abacha. Passo quindi in un altrove gran parte della mia giornata. Ma quello che sta accadendo e il senso di straniamento che mi accompagna stanno influenzando il mio linguaggio. Un giorno ti svegli e non puoi più abbracciare un amico, andare al ristorante, volare a casa... Che il mondo potesse cambiare in pochi giorni era una prerogativa di film come Star Wars ».
Barrett è tra le voci più originali della nuova generazione di scrittori africani: originario proprio della regione del Delta, lo chiamano il cantore di Lagos, ma nella vita caotica e surreale della metropoli nigeriana riesce magistralmente a far vibrare il mondo e a toccare corde universali. Con Culo nero e L’amore è potere, o
almeno gli somiglia molto, editi in Italia da 66thand2nd, si è conquistato un seguito internazionale. «Sono bloccato qui e non so per quanto ancora — dice al telefono da Tilburg, cittadina olandese dov’è nata la moglie, Femke van Zeijl, pure lei scrittrice —. Abbiamo lasciato la nostra casa a Lagos il 1° marzo. Tre
giorni dopo il nostro arrivo in Olanda è scattato il lockdown. E anche la Nigeria ha chiuso i confini». I libri, però, non hanno frontiere.
«In effetti nelle ultime due settimane ho riscontrato un boom di lettori. Sono soprattutto giovani che hanno piratato i miei libri su siti illegali. Non sto guadagnando, ma ho un nuovo gruppo di estimatori della social
generation ».
Perpetua, Ma Bille, e gli altri protagonisti delle sue storie, un’umanità in affanno, sconclusionata, ferita, impegnata ogni giorno in mille acrobazie per cavarsela, per vivere e amare: gente come loro sarà in grado di affrontare la «tempesta»?
«Sono tutti molto preoccupati. Qui in Olanda la maggior parte delle persone hanno risparmi e welfare, da noi il problema per molti è cosa mettere in tavola. C’è paura e disperazione. Non so per quanto tempo ancora il mio Paese potrà permettersi il lockdown. Per una strana coincidenza, il 1° marzo è stato registrato il primo caso sia in Nigeria sia in Olanda. Dopo un mese e mezzo, l’Olanda ha contato 3 mila morti e Lagos soltanto 12. Le nostre autorità sono state proattive. Del resto abbiamo gestito ebola, sappiamo come comportarci con le epidemie. Poi, certo la barriera dell’età aiuta: in Nigeria il 60% della popolazione ha meno di 18 anni. All’inizio siamo stati favoriti dal fatto che il virus è partito infettando i viaggiatori, pochi da noi. Ma ora sono
iniziati i contagi intercomunitari e c’è stata una forte accelerazione delle infezioni. Il picco è previsto tra metà e fine maggio. Il prolungamento del lockdown pone un dilemma: meglio la morte sicura per fame o quella probabile per il virus?». Un dilemma tragico.
«I Paesi africani hanno un solo modo per evitare ai cittadini questa scomoda posizione: gestire meglio le risorse, fornire servizi di welfare, costruire reti di protezione sociale. Magari i nostri leader impareranno qualcosa da questa pandemia e faranno meglio nel futuro visto che in questo periodo non possono volare in Europa per curarsi e dipendono da malandati sistemi sanitari locali».
I «lockdown» funzionano se accompagnati da misure di assistenza straordinarie, sennò risultano impraticabili per lunghi periodi. Ci sono segnali in questa direzione?
«Forse qualcosa sta cambiando in Nigeria grazie al virus. Per la prima volta il governo ha messo in campo un pacchetto di social welfare per i più vulnerabili: ha annunciato che devolverà l’equivalente di 50 euro alle famiglie più fragili. Ma come e a chi verranno erogati resta un mistero. Di buono c’è che molti Paesi africani sono abituati a convivere con le ricadute economiche delle epidemie: la vita della gente ha mantenuto una parvenza di normalità anche in quelle situazioni».