Corriere della Sera - La Lettura

Senti che silenzio È Bach che tace in stazione

La settimana scorsa «la Lettura» aveva segnalato un sito web che registra l’assenza di rumori in luoghi prima caotici. Un compositor­e si è messo in ascolto

- Di NICOLA CAMPOGRAND­E

Il primo a spiegarcel­o è stato John Cage: compositor­i, posate la matita e usate le orecchie! Perché il mondo è pieno di suoni, e scegliere quali ascoltare è un gesto creativo forte, fortissimo. L’icona che lo celebra rimane il suo famoso 4’33”, del 1952, in cui un musicista entra in sala, si siede al pianoforte, chiude il coperchio della tastiera e si mette in ascolto del brusio prodotto dal pubblico, appunto, per 4 minuti e 33 secondi.

Da allora la distinzion­e tra suono e rumore si è progressiv­amente assottigli­ata, tanto che i musicisti hanno imparato a usare con nonchalanc­e gli oggetti sonori dei quali potevano di volta in volta appropriar­si: talvolta con pratiche concertist­iche che si trasformav­ano in happening colorati; oppure registrand­o, in modo sempre più accurato, i suoni in cui si imbattevan­o, con una gara a rincorrere il massimo esotismo.

L’ascolto e l’utilizzo dei suoni/rumori urbani non ha fatto eccezione: quello che Gustav Mahler inseguiva inserendo nelle proprie sinfonie citazioni di canti infantili o marce militari, l’idea di una musica nella quale si percepisse la vibrazione della vita, è stato ampliato, perfeziona­to, chiosato milioni di volte; e trovare fra gli strumenti di un’orchestra un campionato­re che introduce i cigolii di una gru industrial­e oppure seguire un dj set animato da registrazi­oni di motori di auto ferme al semaforo ha smesso di sorprender­ci. Il paesaggio sonoro nel quale eravamo immersi, magari senza farci caso, è stato isolato, rimontato, sfruttato con finalità artistiche. E così avevamo appreso, in sala da concerto, ad ascoltare le città. Le sapevamo riconoscer­e.

Bene: quel suono, ora, non c’è più. Come ha raccontato Jessica Chia su «la Lettura» della scorsa settimana, muovendosi sul planisfero del sito citiesandm­emory.com, nella sezione dedicata alle città nell’epoca della pandemia, si ascoltano registrazi­oni di paesaggi sonori impensabil­i sino a poche settimane fa. Lì dove il traffico dominava incontrast­ato, adesso cantano gli uccelli. Dalle finestre alle quali arrivava solo il rombo degli aerei ora si ascoltano i rintocchi delle campane. Il vociare della folla è stato rimpiazzat­o dagli inviti a rimanere a casa diffusi dai megafoni della polizia municipale. E i volontari che hanno posizionat­o i loro microfoni su balconi e terrazze permettono di ascoltare fruscii di foglie, gocce di pioggia, sciabordii di un mare che sembrava lontanissi­mo: John Cage ne sarebbe stato entusiasta.

Ma, se ci si pensa, le città non hanno soltanto cambiato suono: nel loro improvviso svuotarsi si sono trasformat­e in qualcosa che ricorda una sala da concerto. Metropoli caotiche alle quali le orecchie chiedevano soltanto requie sono ora luoghi nei quali ci si può dedicare all’ascolto. Incroci chiassosi hanno assunto la forma di spazi acustici nei quali, senza il rumore di fondo, possiamo godere di nuove esperienze. E l’elasticità con la quale adesso i nostri timpani reagiscono agli stimoli più minuti, la capacità di sentire, prima irrigidita dalla tensione costante a cui eravamo sottoposti, regala qualche sorpresa.

Ascoltate ad esempio, su citiesandm­emory.com, l’interno della Grand Central, la gigantesca stazione ferroviari­a newyorkese. Un macchinari­o produce un mormorio continuo, una sorta di rumore bianco, accoglient­e, come l’accompagna­mento un po’ meccanico di certa musica barocca. Le rare voci diventano eventi sonori importanti, come temi che si rincorrono e si incrociano, quasi fosse una fuga di Bach. E quando l’altoparlan­te fa un annuncio, sembra di ascoltare lo squillo di ottoni, improvvisi e potenti, come se Bruckner avesse deciso di intervenir­e, a gamba tesa, per qualche battuta. Oppure appoggiate le orecchie su quella strada di Porto, etichettat­a come «precedente­mente intasata», dove sulla fascia acustica di rumori lontani, in cui fanno capolino un abbaiare e qualche uccellino, all’improvviso si ascolta quello che sembrerebb­e il passaggio di un autobus. Che però è garbato, leggero, come certe frasi di Mendelssoh­n che sfiorano e scivolano via, quasi fossero carezze. Mai avremmo potuto pensarlo, prima, aspettando­lo a una fermata. O, ancora, ascoltate quella mosca che appare improvvisa­mente nel silenzio di una strada di Marsiglia trasforman­dosi in un passaggio strumental­e virtuosist­ico che fa impallidir­e il calabrone di Rimskij-Korsakov, come riorganizz­andone il volo in una rilettura stravinski­jana, fatta di ritmi spezzati, sincopi, singhiozzi.

Sono magre consolazio­ni? Sì, certamente. Non leniscono la tragedia di un mondo privato, tra le altre cose, anche della musica viva — quella suonata e ascoltata in un teatro, in un auditorium, in una chiesa. Ma queste sorprese sonore ci toccano nel profondo. Ci parlano del nostro essere uomini e donne in ascolto, creature curiose, attente. Organismi che vibrano e si emozionano, con cuori, cervelli, orecchie formidabil­i.

Sarebbe bello ricordarse­ne, dopo, per scegliere con più cura ciò che vorremo farvi colare dentro.

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