Corriere della Sera - La Lettura
Senti che silenzio È Bach che tace in stazione
La settimana scorsa «la Lettura» aveva segnalato un sito web che registra l’assenza di rumori in luoghi prima caotici. Un compositore si è messo in ascolto
Il primo a spiegarcelo è stato John Cage: compositori, posate la matita e usate le orecchie! Perché il mondo è pieno di suoni, e scegliere quali ascoltare è un gesto creativo forte, fortissimo. L’icona che lo celebra rimane il suo famoso 4’33”, del 1952, in cui un musicista entra in sala, si siede al pianoforte, chiude il coperchio della tastiera e si mette in ascolto del brusio prodotto dal pubblico, appunto, per 4 minuti e 33 secondi.
Da allora la distinzione tra suono e rumore si è progressivamente assottigliata, tanto che i musicisti hanno imparato a usare con nonchalance gli oggetti sonori dei quali potevano di volta in volta appropriarsi: talvolta con pratiche concertistiche che si trasformavano in happening colorati; oppure registrando, in modo sempre più accurato, i suoni in cui si imbattevano, con una gara a rincorrere il massimo esotismo.
L’ascolto e l’utilizzo dei suoni/rumori urbani non ha fatto eccezione: quello che Gustav Mahler inseguiva inserendo nelle proprie sinfonie citazioni di canti infantili o marce militari, l’idea di una musica nella quale si percepisse la vibrazione della vita, è stato ampliato, perfezionato, chiosato milioni di volte; e trovare fra gli strumenti di un’orchestra un campionatore che introduce i cigolii di una gru industriale oppure seguire un dj set animato da registrazioni di motori di auto ferme al semaforo ha smesso di sorprenderci. Il paesaggio sonoro nel quale eravamo immersi, magari senza farci caso, è stato isolato, rimontato, sfruttato con finalità artistiche. E così avevamo appreso, in sala da concerto, ad ascoltare le città. Le sapevamo riconoscere.
Bene: quel suono, ora, non c’è più. Come ha raccontato Jessica Chia su «la Lettura» della scorsa settimana, muovendosi sul planisfero del sito citiesandmemory.com, nella sezione dedicata alle città nell’epoca della pandemia, si ascoltano registrazioni di paesaggi sonori impensabili sino a poche settimane fa. Lì dove il traffico dominava incontrastato, adesso cantano gli uccelli. Dalle finestre alle quali arrivava solo il rombo degli aerei ora si ascoltano i rintocchi delle campane. Il vociare della folla è stato rimpiazzato dagli inviti a rimanere a casa diffusi dai megafoni della polizia municipale. E i volontari che hanno posizionato i loro microfoni su balconi e terrazze permettono di ascoltare fruscii di foglie, gocce di pioggia, sciabordii di un mare che sembrava lontanissimo: John Cage ne sarebbe stato entusiasta.
Ma, se ci si pensa, le città non hanno soltanto cambiato suono: nel loro improvviso svuotarsi si sono trasformate in qualcosa che ricorda una sala da concerto. Metropoli caotiche alle quali le orecchie chiedevano soltanto requie sono ora luoghi nei quali ci si può dedicare all’ascolto. Incroci chiassosi hanno assunto la forma di spazi acustici nei quali, senza il rumore di fondo, possiamo godere di nuove esperienze. E l’elasticità con la quale adesso i nostri timpani reagiscono agli stimoli più minuti, la capacità di sentire, prima irrigidita dalla tensione costante a cui eravamo sottoposti, regala qualche sorpresa.
Ascoltate ad esempio, su citiesandmemory.com, l’interno della Grand Central, la gigantesca stazione ferroviaria newyorkese. Un macchinario produce un mormorio continuo, una sorta di rumore bianco, accogliente, come l’accompagnamento un po’ meccanico di certa musica barocca. Le rare voci diventano eventi sonori importanti, come temi che si rincorrono e si incrociano, quasi fosse una fuga di Bach. E quando l’altoparlante fa un annuncio, sembra di ascoltare lo squillo di ottoni, improvvisi e potenti, come se Bruckner avesse deciso di intervenire, a gamba tesa, per qualche battuta. Oppure appoggiate le orecchie su quella strada di Porto, etichettata come «precedentemente intasata», dove sulla fascia acustica di rumori lontani, in cui fanno capolino un abbaiare e qualche uccellino, all’improvviso si ascolta quello che sembrerebbe il passaggio di un autobus. Che però è garbato, leggero, come certe frasi di Mendelssohn che sfiorano e scivolano via, quasi fossero carezze. Mai avremmo potuto pensarlo, prima, aspettandolo a una fermata. O, ancora, ascoltate quella mosca che appare improvvisamente nel silenzio di una strada di Marsiglia trasformandosi in un passaggio strumentale virtuosistico che fa impallidire il calabrone di Rimskij-Korsakov, come riorganizzandone il volo in una rilettura stravinskijana, fatta di ritmi spezzati, sincopi, singhiozzi.
Sono magre consolazioni? Sì, certamente. Non leniscono la tragedia di un mondo privato, tra le altre cose, anche della musica viva — quella suonata e ascoltata in un teatro, in un auditorium, in una chiesa. Ma queste sorprese sonore ci toccano nel profondo. Ci parlano del nostro essere uomini e donne in ascolto, creature curiose, attente. Organismi che vibrano e si emozionano, con cuori, cervelli, orecchie formidabili.
Sarebbe bello ricordarsene, dopo, per scegliere con più cura ciò che vorremo farvi colare dentro.