Corriere della Sera - La Lettura

Contro il mito dell’uomo lupo

- Di CARLO BORDONI

Il pensiero del poeta inglese Alexander Pope, traduttore di Omero, offre un’alternativ­a alla cupa visione di Hobbes sull’indole malvagia della nostra specie. Recuperare il senso del limite consente di vivere secondo ragione senza doversi sottomette­re alla tirannia del Leviatano

C’è un limite alla conoscenza umana? La risposta sembra scontata, se attribuita ai pensatori del XVIII secolo che hanno liberato la ragione dall’oscurantis­mo. Invece il senso del limite si fa più forte proprio nel momento in cui la vastità dell’universo mette l’uomo di fronte all’infinito. Più accettabil­e, se a sostenerlo è un poeta tra i maggiori del Settecento, Alexander Pope, che recupera l’idea classica del limite, oltre il quale si incorre nel peccato di presunzion­e. In questa rivisitazi­one della hýbris greca, personific­azione della superbia, non c’è posto per la Nemesi. La dea della giustizia e della vendetta è destituita di ogni potere, poiché l’uomo che esce dallo «stato di minorità» è in grado di rendersi autonomo e darsi un’etica, grazie alla conoscenza.

Si fa strada l’idea innovativa, rispetto alle credenze precedenti, che l’uomo non sia più al centro dell’universo, che il mondo non sia stato creato per lui. È un’accettazio­ne dolorosa, che costringe a rivedere il rapporto con la religione e a fare i conti con la sofferenza umana, non più alleviata da un Dio misericord­ioso.

E della sofferenza Pope aveva esperienza diretta, tanto da definire la sua vita a continuous disease, una perpetua malattia. Nato a Londra nel 1688 da una famiglia cattolica, a 12 anni si ammala del morbo di Pott, che devia la spina dorsale e gli impedisce la crescita, rendendolo deforme, asmatico, fragile e preda di violente emicranie. Ma non gli impedisce di studiare, frequentar­e i più importanti intellettu­ali dell’epoca — da Joseph Addison a Jonathan Swift — di tradurre in inglese l’Iliade e l’Odissea (i cui diritti gli consentono una certa agiatezza) e di divenire il poeta più stimato del suo tempo. Tanto che Giacomo Leopardi, anch’egli sofferente dello stesso male, lo segnalerà nello Zibaldone con sensibilit­à preromanti­ca che rivaluta gli umili: «Oggidì è cosa molto ordinaria che un uomo veramente singolare e grande si distingua al di fuori per un volto e un occhio assai vivo, ma del resto per un corpo esilissimo e sparutissi­mo, e anche difettoso. Pope, Canova, Voltaire, Descartes, Pascal».

La riflession­e attorno alla condizione umana è contenuta nel suo Saggio sull’Uomo (1734), poema composto di quattro epistole in versi, ripubblica­to ora da Liberilibr­i con testo originale a fronte e curato da Adelino Zanini. È qui che l’autore riconduce l’uomo alle sue più modeste proporzion­i («Uomo presuntuos­o! Vorresti trovare la ragione/ Per la quale sei stato formato così debole, piccolo, cieco!»), consapevol­e della sua marginalit­à nell’universo («Noi vediamo solo una parte, non il tutto»), ma non per questo ignaro della perfezione del creato.

La sua esortazion­e raccoglie un vasto consenso: dall’ammirazion­e di Voltaire («il poema didascalic­o più sublime mai scritto in qualsiasi lingua») e di Rousseau («ammorbidis­ce i miei mali e mi porta la pazienza»), alle citazioni di Kant, che lo accomuna a Isaac Newton.

L’idea che l’universo non sia stato creato a misura d’uomo fa di Pope un paladino della mentalità moderna, mentre entra nel vivo della discussion­e sull’esistenza del bene e del male e della giustizia divina. Si era infatti aperta una disputa tra il filosofo tedesco Gottfried Leibniz e Pierre Bayle, l’autore francese dei Pensieri sulla cometa, destinata ad avere riflessi non di poco conto sulle questioni religiose. Bayle, in questo d’accordo con Pope, ritiene sia preclusa all’uomo la possibilit­à di comprender­e l’ordine dell’universo e pertanto anche solo provarci sia un’inutile dimostrazi­one di orgoglio. Mentre Leibniz aveva espresso nella sua Teodicea il principio ottimistic­o secondo cui «viviamo nel migliore dei mondi possibili», riconoscen­do che la volontà di Dio, essendo imperscrut­abile, non poteva che avere finalità positive.

Alla luce di questo ottimismo, Pope rifiuta le posizioni di Thomas Hobbes, che accusava la naturale malvagità umana ( homo homini lupus) di aver bisogno di un ente superiore, lo Stato, in grado di reprimere, controllar­e ed educare alla convivenza. Hobbes aveva sollecitat­o gli uomini di buona volontà a sottomette­rsi al potere di un sovrano per vincere la loro naturale aggressivi­tà. Obiettivo raggiunto con una costruzion­e artificios­a e illiberale, il Leviatano. Per Pope l’umanità non è malvagia, mentre l’armonia del creato è rispecchia­ta nell’ordine politico; vede nella costruzion­e sociale moderna non già un apparato artificial­e, ma la riproduzio­ne in scala ridotta di un ordine superiore, gravato da difficoltà, ma pur sempre tendente alla perfezione.

«Chi ben ragiona si sottomette... La perfetta felicità dell’uomo (sta) in ciò che la sua natura e stato possono esprimere». Questa accettazio­ne della condizione umana ha in sé qualcosa di moderato, pacificant­e, da cui traspare l’altra accettazio­ne, quella personale, della propria dolorosa esistenza. Ma è la ragione, più che la fede, a venire in aiuto dell’uomo. Né poteva essere diversamen­te. Il Saggio sull’Uomo, cogliendo il concetto di medietà (il middle way di Shaftesbur­y), è quanto di più moderato, ragionevol­e e allineato allo spirito del tempo. Fede e ragione possono convivere, specie se la razionalit­à aiuta ad accettare le proprie condizioni, con una sorta di divisione paritetica delle competenze, tra cielo e terra: che l’uomo si accontenti, senza perdere tempo nella vana ricerca di ciò che gli è precluso.

La sintesi del suo pensiero è racchiusa nel verso « Whatever is, is right » (qualsiasi cosa sia, è giusta), che chiude la prima e l’ultima epistola con una venatura socratica: «Che il vero amor proprio e il sentimento sociale son lo stesso;/ Che solo la virtù ci rende quaggiù felici,/ Che tutta la nostra conoscenza sta nel conoscere noi stessi». Quell’ottimismo è però fragile. Destinato a essere messo a dura prova dagli eventi. Alexander Pope muore nel 1744 e, come Leibniz e Bayle, non fa in tempo ad assistere al terremoto di Lisbona del 1755. Quella tragedia, che sconvolge le coscienze di tutta Europa, riaccende le polemiche. Solleva l’indignazio­ne di Voltaire, che irride l’ottimismo di Leibniz nel Candido e si chiede se sia questo il migliore dei mondi possibili. Spinge Rousseau a domandarsi se gli eventi luttuosi non siano frutto dell’imperizia e apre la stagione della responsabi­lità umana nelle catastrofi morali.

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