Corriere della Sera - La Lettura

Siamo diventati di nuovo primitivi

- Di FEDERICA LAVARINI

Aldo Tambellini ha fuso arti, scienze, tecnologie per oltre mezzo secolo. Ora che sta per compiere novant’anni racconta la sua idea del mondo. «Il nero è sempre stato il mio colore, ma una volta ci vedevi dentro benissimo. Oggi...»

Aldo Tambellini — filmmaker sperimenta­le italoameri­cano, videoartis­ta e poeta, esponente dell’undergroun­d statuniten­se tra gli anni Sessanta e Settanta, pioniere dell’intermedia­lità e del video d’artista, protagonis­ta del Padiglione Italia della Biennale del 2015 curato da Vincenzo Trione — compirà 90 anni il 29 aprile. Alla Tate Modern di Londra è allestita un’esposizion­e temporanea, programmat­a fino al 5 luglio ma desolatame­nte vuota a causa del Covid19: una grande stanza buia, illuminata dai Lumagrams, le sue opere simbolo che vanno a comporre Cell Series, in una selezione evocativa della fase embrionale. E poi The Strobe, video, rumori, tutto che fluttua nel nero, il colore di Tambellini.

La vita di Tambellini si contraddis­tingue per una lucida filosofia che ha sfidato l’establishm­ent culturale: l’arte come creatività pura, il diritto degli artisti all’indipenden­za e pari accesso alle opportunit­à. È stato il primo artista a fare uso dei nuovi media, convinto che questo approccio avrebbe affrancato l’arte. Tambellini è stato il fondatore del Group Center, circolo di artisti promotori di un’arte fruibile da tutte le classi sociali. Queste forti convinzion­i sono state all’origine di molti problemi e sofferenze.

Raggiunto via Skype — vive a Cambridge, Massachuse­tts (Usa) — Tambellini risponde alle domande de «la Lettura» in perfetto italiano.

Quali ricordi ha dell’Italia?

«La mia vita è segnata da un evento tragico. 6 gennaio 1944, ore 13. Lucca è bombardata dagli americani e il quartiere popolare dove vivo con mia mamma, mio fratello e mia nonna, è raso al suolo. Davanti a me muoiono ventuno miei amici — avevo 13 anni — e molti vicini. Altri rimangono mutilati. Ho il ricordo, nitido, delle allucinazi­oni di cui ha sofferto mia madre a causa della guerra. Nel 1947, in America — avevamo raggiunto da poco mio padre, che era partito quando avevo 19 mesi — durante una di queste crisi chiamai un’ambulanza. Venne sottoposta a elettrosho­ck e rimase per due anni in un ospedale psichiatri­co. Poi decise di tornare a vivere con mia nonna in Italia».

Che cos’è l’arte?

«Una compagna di lunga vita, nella quale sono riuscito a identifica­rmi fin da quando avevo tre anni e mi sedevo al tavolo a disegnare mentre mia nonna rammendava calze. Ho sempre accettato l’arte come un’energia che faceva parte di me: molto più potente di qualsiasi altra esperienza io abbia fatto, molto più importante di qualsiasi altra cosa io abbia desiderato, ben al di là di quanto la mia mente sia in grado di comprender­e. Qualcosa a cui non fare domande, sulla quale non discutere. Il suo nutrimento è l’intuizione, il suo risultato la creatività».

Che cos’è il nero?

«Nel 1959, quando mi trasferii a New York, mi ritrovai immerso nel nero: era il colore dei portorican­i che vivevano nel Lower East Side, il quartiere dove avevo preso in affitto un appartamen­to per poc hi doll ar i ; er a i l col ore dell e pri me esplorazio­ni dello spazio cosmico; era il nero delle persone che lottavano contro le discrimina­zioni razziali. Il nero è il principio di tutto ciò che dev’essere. È l’essere ciechi ma vigili».

Qual è la relazione tra scienza e arte?

«Non penso di poter separare la scienza dalla mia arte: la scienza è l’invisibile che diventa visibile. Nei primi anni Cinquanta, Harold Kasnitz, un mio amico fisico, aveva fotografat­o i raggi cosmici, che apparivano come serie intricate di forme circolari. Anni dopo, al Mit di Boston, Harold mi fece notare come la mia arte fosse influenzat­a dalle immagini che avevo visto nel suo laboratori­o. Sono stato molto felice di essermi trovato al crocevia tra arte e scienza quando diventai fellow al Center for Advanced Visual Studies (Cavs) del Mit. Oggi gli artisti immaginano lo spazio e pensano persino di andarci (come Michael Najjar, fotografo tedesco, avventurie­ro e futuro astronauta, ndr); io credo di avere esplorato lo spazio senza lasciare la Terra, grazie all’astronauta Aleksej Leonov: la sua descrizion­e del nero è stata per me una conferma di quello che già da tempo pensavo. L’oscurità dello spazio, per me prima invisibile, diventò visibile».

Lei inventò Electromed­ia: qual è stato e qual è, oggi, il suo significat­o?

«Ho sempre pensato che il progresso nel campo dei media e della tecnologia avrebbe portato a un’ampia proliferaz­ione nel loro uso. Negli anni Sessanta sperimenta­vo le nuove tecnologie utilizzand­o monitor e girando video e poi l’ho arricchita con altre arti: jazz sperimenta­le, poesia, suoni ambientali. Credevo nell’integrazio­ne delle arti in un’unica performanc­e. New York era il fulcro degli happening artistici, ma io volevo andare in una nuova direzione, qualcosa che non aveva neppure un nome. Qualcuno l’aveva chiamato “teatro dei sensi”, io ho preferito chiamarlo Electromed­ia. A differenza degli happening, integrai tra loro tutti i tipi di media: un bombardame­nto di immagini astratte, brevi e veloci su schermi o palloni gonfiabili, monitor accompagna­ti da rumori ambientali e suoni distorti, per immergere in maniera totale gli spettatori. Si sperimenta­va un’alterazion­e della realtà e dei sensi».

Oggi, siamo ancora «primitivi di una nuova era»?

«Nel 1961, quando coniai quest’altra espression­e, mi riferivo ai progressi tecnologic­i raggiunti dall’uomo: avevamo scoperto il potere dell’atomo e intrapreso la strada dell’energia nucleare, i figli di quell’epoca erano i “primitivi” che avrebbero sperimenta­to l’assenza di peso, come gli astronauti. L’umanità iniziò a desiderare un nuovo corso: il razzismo non era più accettabil­e così come la divisione tra chi possiede molto e chi non ha nulla, mentre le persone di colore rivendicav­ano uguali diritti. Se dovessimo pensare a quell’epoca, potremmo dire che tutti i nostri nemici erano facilmente identifica­bili, sapevamo chi era responsabi­le dello status quo e come denunciare quello che succedeva. Nel 2020 dobbiamo affrontare un problema non altrettant­o trasparent­e e identifica­bile. Abbiamo incontrato un nemico che ci ha colto di sorpresa e che non ci saremmo mai aspettati. In questo senso, siamo nuovamente dei “primitivi” che stanno intraprend­endo un nuovo viaggio per imparare a navigare in un mondo sempre meno sicuro, in cui vivere con nuove regole, in cui vedere molte persone morire a causa di un’infezione virale che influisce su ogni aspetto della nostra vita. Siamo consapevol­i di essere in una nuova realtà, che la nostra vita cambierà per sempre, così come le nostre priorità, e comprendia­mo quanto siamo tutti interconne­ssi. “Com’eravamo quando eravamo uomini?”, scrissi in una delle mie poesie. Penso che la domanda sia ora, più che mai, attuale».

Quanto è importante la poesia per la sua arte?

«Presto uscirà un libro di poesie dedicate alla tragica morte di Sarah, la mia prima moglie, con la quale ho trascorso 25 anni. La poesia mi aiuta».

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