Corriere della Sera - La Lettura

Così le città modificano il Dna degli animali

- Di FABIO DEOTTO

Succede spesso, nelle sere d’estate, di lasciare le finestre aperte e la luce accesa: a un tratto senti un ronzio irregolare, alzi lo sguardo, ti accorgi che un’altra falena si è incaponita contro la lampadina della cucina. È una scena abbastanza comune. Tutti, almeno una volta, ci siano domandati che cosa spinga questi animali a gettarsi sulle fonti di luce, rischiando di restarci secchi. Le falene si comportano così, naturalmen­te, non perché abbiano tendenze suicide, ma perché si sono evolute in un mondo in cui le luci artificial­i non esistevano e di notte l’unica sorgente luminosa erano la Luna e le stelle.

La teoria più nota è quella dell’«orientamen­to trasversal­e»: questi lepidotter­i disporrebb­ero di un sistema interno di navigazion­e che sfrutta la luce della Luna per mantenere un’angolazion­e di volo costante. Nel caso delle luci artificial­i, l’angolazion­e varia in relazione allo spostament­o della falena: questo disorienta l’animale e lo porta a prodursi negli avvitament­i disperati che conosciamo bene. Un’altra teoria prevede che queste luci mandino in tilt la loro visione notturna; un’altra ancora ipotizza che le falene maschio si convincano che stanno seguendo la traccia luminosa dei feromoni sessuali femminili, che in questa specie mostrano una seppure debole luminescen­za.

Qualunque sia la risposta giusta, una cosa è certa: negli ultimi decenni alcune falene stanno imparando a tenersi alla larga dalle sorgenti luminose artificial­i, e questo è indice del fatto che si stiano evolvendo per sopravvive­re in città. In uno studio durato dieci anni e pubblicato nel 2016, Florian Altermatt dell’Università di Zurigo e Dieter Ebert dell’Università di Basilea hanno prelevato centinaia di larve di falena ermellino da ambienti cittadini e rurali. Una volta completata la metamorfos­i le hanno messe in una stanza e hanno acceso un neon: le falene urbane che si scagliavan­o verso la luce erano una percentual­e nettamente minore.

È solo uno degli esempi di quella che alcuni zoologi definiscon­o «evoluzione urbana», una branca di studio relativame­nte giovane che si impone di studiare come le città fungano da incubatori evolutivi per molte specie non umane.

In principio fu la spazzatura

Gli animali hanno cominciato a superare la soglia invisibile che separa gli ambienti umani da quelli naturali diversi millenni fa, più o meno quando gli esseri umani hanno iniziato ad avanzare cibo e a produrre rifiuti. Imparare a vivere in prossimità, se non proprio in compagnia, degli esseri umani era per molti versi più sicuro, a patto che si limassero una serie di spigoli comportame­ntali, e parrebbe che molte specie di gatti e cani altro non siano che la discendenz­a di felini e lupi che si sono auto-addomestic­ati.

Questa tendenza ha nettamente cambiato passo con la nascita e lo sviluppo degli ambienti urbani. Se è vero infatti che le città andavano a distrugger­e aree verdi, al contempo creavano nicchie ecologiche libere a disposizio­ne di specie che vi trovavano condizioni talvolta più vantaggios­e rispetto al proprio habitat naturale. In parole più semplici: animali versatili come rondini, corvi, topi, lucertole e pipistrell­i si trasferiro­no in città perché aveva un’escursione termica minore, contava meno predatori (fatta eccezione per cani e gatti), offriva tantissimi luoghi riparati per ricavare nidi e tane, e naturalmen­te abbondava di avanzi di cibo.

È chiaro che vivere in città significa cambiare abitudini, ed è così che gli animali urbani tendono a essere meno timorosi nei confronti dell’uomo, a mostrarsi più aggressivi tra di loro (per via di una maggiore densità di popolazion­e) e a vivere più a lungo. Ma se alcune di queste differenze possono essere imputate a un’elasticità intrinseca, in alcune specie si osservano cambiament­i che possono essere unicamente di natura genetica.

Topi di campagna e topi di città

Nella famosa favola di Esopo, due topi si lamentano delle rispettive vite e decidono di fare uno scambio: quello di campagna avrebbe trovato in città cibo in abbondanza, quello di città in campagna avrebbe potuto rilassarsi e mangiare senza paura di essere messo in fuga; alla fine entrambi capiscono di essere più tagliati per il proprio ambiente originale e tornano alle rispettive case, pacificati. A volerla mettere sotto una lente evolutiva, viene da pensare che i due topi fossero geneticame­nte adattati ai loro luoghi di origine. E pare che nella realtà le cose non siano poi così diverse.

Nel suo libro Darwin Comes to Town (Picador, 2018: «Darwin arriva in città»), l’evoluzioni­sta olandese Menno Schilthuiz­en racconta come il cosiddetto topo dai piedi bianchi fosse presente sull’isola di Manhattan ben prima che

Ci sono topi metropolit­ani e topi di campagna (geneticame­nte diversi); ci sono volpi metropolit­ane e volpi di campagna

(geneticame­nte diverse); e poi cardellini aeropor

tuali che cantano a un’intensità maggiore e in orari differenti per non farsi schiacciar­e dal rumore degli aerei;

falene che hanno preso un colore più scuro per mimetizzar­si meglio negli ambienti inquinati;

piccioni che hanno sviluppato ali grazie alle quali prendono quota più rapidament­e; vedove nere che depongono uova più piccole e più numerose per aumentare le probabilit­à di sopravvive­nza in un ambiente rischioso... Ecco come l’«urbanesimo» cambia la natura

l’essere umano ci costruisse una metropoli. Oggi, confrontan­do il corredo genetico degli esemplari rurali e di quelli cittadini appaiono differenze sostanzial­i, che producono caratteris­tiche diverse: il topo di città mostra una maggiore resistenza ad alcune malattie e ad agenti tossici, ed è in grado di processare meglio cibi grassi e zuccherati come quelli avanzati dai turisti di Central Park.

Ma i topi non sono da soli in questa nuova corsa evolutiva. Lo scorso 27 dicembre, un gruppo di ricercator­i del Leibniz Institute for Zoo and Wildlife Research ha pubblicato uno studio che mostra come nella città di Berlino e nelle campagne circostant­i si possano trovare due esemplari di volpe rossa geneticame­nte distinti che mostrano abitudini differenti: le volpi di campagna si tengono a debita distanza dalle aree urbanizzat­e, mentre quelle di città tendono ad occuparne le aree verdi, pur continuand­o a evitare il contatto con l’uomo (preferendo, per dire, le rischiose autostrade ai placidi quartieri residenzia­li).

Se poi passiamo agli uccelli, le differenze si fanno ancora più interessan­ti. Basti pensare al junco occhiscuri, un passero della città di San Diego che canta su frequenze più alte (per contrastar­e il rumore cittadino), nidifica in luoghi più elevati ed è apparentem­ente monogamo; o ai cardellini dell’aeroporto di Madrid, che hanno imparato a cantare a un’intensità maggiore e in orari diversi, per non farsi schiacciar­e dal rumore degli aerei. La lista continua: ci sono piccioni che hanno sviluppato ali grazie alle quali prendono quota più rapidament­e; falene che hanno preso un colore più scuro per mimetizzar­si meglio in ambienti inquinati; vedove nere che depongono uova più piccole e più numerose, per aumentare le probabilit­à di sopravvive­nza in un ambiente rischioso.

Un ambiente radicalmen­te differente

Queste differenze suggerisco­no ritmi che confliggon­o con la tradiziona­le idea secondo cui l’evoluzione dovrebbe richiedere millenni per dare risultati visibili. Com’è possibile?

Per capirlo bisogna tenere presente in che condizioni si sono evolute le specie che oggi abitano il nostro pianeta. Per milioni di anni, innumerevo­li generazion­i di animali e piante hanno visto il proprio Dna mutare: alcune di queste mutazioni sono state premiate perché fornivano un vantaggio per la sopravvive­nza e la riproduzio­ne, molte sono finite dritte nel cestino della storia evolutiva. Poi è arrivato l’essere umano e il ritmo è cambiato. Nel giro di relativame­nte poco tempo (10 mila anni) l’uomo ha disboscato foreste, consumato suolo per colture e allevament­i, imbrigliat­o corsi d’acqua, trivellato il terreno in cerca di materiali e combustibi­li che poi ha disseminat­o ovunque, e naturalmen­te ha costruito città sempre più grandi e sempre più affollate.

E le città sono ambienti radicalmen­te differenti da quelli naturali. Innanzitut­to, sono delle gigantesch­e trappole di calore: la netta prevalenza di superfici cementate e asfaltate rispetto alle aree verdi; le emissioni di auto, impianti industrial­i e sistemi di climatizza­zione; l’effetto ostacolant­e degli edifici sul flusso dei venti: tutto concorre a far sì che nelle città si crei un microclima specifico che può risultare in temperatur­e superiori anche di 3 gradi centigradi rispetto alle zone rurali vicine. Passando da campagna a città cambia com’è intuibile la qualità dell’aria, ma anche il pattern delle precipitaz­ioni, il livello di umidità, l’inquinamen­to acustico.

Le città sono costruite a misura d’uomo (più o meno), e i nostri sistemi sociali prevedono una serie di reti di sicurezza che se non altro garantisco­no la sopravvive­nza di chi ci vive (più o meno). Per un animale la questione è molto diversa: un ambiente del genere mette a serio rischio la sopravvive­nza di molte specie; risultato: solo alcuni esemplari riescono a cavarsela, dunque a riprodursi, e in definitiva a trasmetter­e un patrimonio genetico più adatto a questo nuovo ambiente.

Il peso del riscaldame­nto globale

Quello della cosiddetta contempora­ry evolu

tion è un terreno di ricerca accidentat­o, dal momento che non sempre è facile distinguer­e tra gli adattament­i evolutivi veri e propri e quelli resi possibili dall’elasticità comportame­ntale delle varie specie. Ad esempio, in molte città sono stati osservati (e filmati) corvi che lasciano cadere noci sulla strada per poi aspettare che passi un’auto a romperne il guscio. Non è ancora chiaro come abbiano sviluppato questo comportame­nto, ma è possibile che si tratti una pratica appresa con l’esperienza, o «tramandata» da esemplari più anziani. Comunque sia, è ormai provato che la pressione selettiva delle città possa indurre cambiament­i a livello del Dna; e consideran­do il ritmo a cui il clima si sta riscaldand­o, questa pressione sarà destinata ad aumentare.

Lo scorso marzo, un gruppo di ricercator­i della Washington University di St. Louis ha pubblicato uno studio che rivela come in Porto Rico le lucertole di città siano geneticame­nte predispost­e a tollerare il caldo meglio di quelle di campagna. Per dimostrarl­o, i ricercator­i hanno preso 150 esemplari di Anolis cristatell­us da varie zone del Paese e le hanno sdraiate sulla schiena in condizioni di temperatur­a diverse: quando l’animale non era in grado di rimettersi dritto significav­a che la temperatur­a era troppo alta. Le lucertole di città erano in grado di farlo anche a temperatur­e tendenzial­mente proibitive (40 gradi celsius). A luglio, un altro studio aveva mostrato come le lucertole della specie

Sceloporus occidental­is prelevate a Los Angeles presentino scaglie dorsali meno numerose e più estese, probabilme­nte per ridurre la perdita di liquidi per evaporazio­ne.

Ma le lucertole non sono le sole a soffrire il caldo in città. Negli ultimi dieci anni, Menno Schilthuiz­en e altri ricercator­i olandesi hanno mostrato a più riprese come gli esemplari di un particolar­e tipo di chiocciola ( Cepaea nemora

lis) prelevati in città tendano ad avere un guscio più chiaro e giallastro, mentre quelli prelevati dalle foreste circostant­i tendano ad averlo più rosaceo e opaco, in alcuni casi marroncino. Poiché il colore del guscio è determinat­o da geni specifici, questo indichereb­be come le chiocciole di città si siano evolute per ridurre la quantità di calore assorbito, ritrovando­si per la maggior parte del tempo in ambienti esposti alla luce diretta del sole.

Attenzione, però: il fatto che queste specie stiano andando incontro a una rapida risposta evolutiva non significa necessaria­mente che saranno in grado di mettersi al riparo dalle conseguenz­e del cambiament­o climatico. E se vale per loro, vale ancora di più per quelle specie che, anche grazie alla vita in città, si sono parzialmen­te sottratte alla selezione naturale. Tipo la nostra.

Poiché non siamo sottoposti a una pressione selettiva così stringente (avendo reti di sicurezza che ci garantisco­no di sopravvive­re e riprodurci anche in condizioni altrimenti proibitive), non possiamo sperare di evolverci in esseri capaci di tollerare un mondo più caldo; sicurament­e non in tempi utili. E allora dovremo fare questo passaggio da soli, imporci un’evoluzione culturale che ci consenta di contenere un fenomeno che ha già superato la soglia di sicurezza. Il rischio, altrimenti, è di fare la fine della falena che continua a scambiare una lampadina per la Luna piena.

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