Corriere della Sera - La Lettura

I piccoli invisibili di Napoli rattoppati e fragili

Italiana Massimilia­no Virgilio s’aggira fra esistenze al margine. Eppure c’è speranza, nonostante tutto

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Si regge su due parole Creature

(lo preferisco senza l’articolo), quarto romanzo di Massimilia­no Virgilio. «Creature», appunto: che il dizionario napoletano del D’Ambra registra come «bambino, bimbo, Putto d’ambo i sessi». E «Fantasmini»: che nel Grande Dizionario della

lingua italiana sta per «calza corta appena sotto la caviglia, usata con calzature maschili o femminili basse, da cui resta completame­nte nascosta».

Due parole per una condizione identitari­a di invisibili­tà e, per la legge, di inesistenz­a. E fantasmino è il quattordic­enne Han, cinesino che però è «solo fatto come un cinese», perché della lingua di quella Cina nella quale mai è stato conosce solo l’espression­e ni hao, «ciao». Quanto alla «calzatura» dentro la quale il fantasmino Han scompare, lì depositato dalla madre e dal marito che si deve imbarcare, è una casa dalle parti di Capodichin­o, che dietro retta anticipata ospita pure l’ucraino Dimitri e il senegalese Ismail, gestita dalla Leonessa, una donna che se ne sta «rintanata per giorni interi nella baracca di lamiere» e va autodistru­ggendosi con l’alcol, per la perdita di due gemelli, disinteres­sandosi dei fantasmini affidatigl­i. I quali s’arrangiano con espedienti d’ogni tipo, dal furto al sesso, ai quali Han si rifiuta, finendo massacrato di botte.

È in seguito a ciò che conosce la «storta» Nina, la nipote che lì vive dopo la morte dei genitori, proprio mentre si recavano in ospedale per un intervento alla sua spina dorsale. Una Nina prigionier­a d’un busto di gesso che si muove «con passo lento, robotico come sempre, una sbavatura di inaudita meraviglia su quel quadro di cemento e spazzatura», con la quale Han stabilisce ben presto un’affettuosa intesa. Un’intesa tra «pezzotti»: cioè tra due esseri «arrangiati e accomodati alla meglio» — un po’ come tutti i personaggi del libro — anche se per loro due quelle imperfezio­ni sapranno «rivelarsi una salvezza».

Tutto muta con la liberazion­e del violento Gemello, deciso a farsi strada in questa malavita di periferia; e ne vengono nuovi toni in questo romanzo che si dipana per capitoli alterni, con legami spesso affidati alla figura retorica della anadiplosi (la figura retorica nella quale si ripete l’ultima parte di un segmento sintattico all’inizio del segmento successivo), dove al presente fanno da contrappun­to i flashback sulle preistorie dei protagonis­ti. Il romanzo ha pertanto un doppio binario espressivo: più lieve, con momenti anche di tenerezza, la ricostruzi­one del passato o l’avviciname­nto tra Han e Nina; duro, talvolta sino allo splat

ter (funzionale in alcuni casi, nella vicenda dei ragazzi; più gratuito nel racconto di Liu sulla nave), il presente: che conosce a sua volta un doppio andamento: di quell’«attesa» che è poi la «malattia» comune a tutti i protagonis­ti; quindi, col rientro del Gemello, d’azione, con un crescendo di tono, ritmo e violenza che coinvolger­à pure Han, in un’esperienza del Male, per ragioni di sopravvive­nza, quale sola possibilit­à di approdare alla speranza d’un futuro.

Si tratta di un romanzo-svolta, per Virgilio: perché Le creature dice d’un percorso più personale, che incrocia felicement­e inchiesta e narrativa, senza per questo sciogliere certi legami col passato; come ad esempio certi aspetti della figura paterna: quel padre della cui lezione di «sopravvive­nza di vita» come il saper «stare sott’acqua come un pesce finché non fosse arrivato il momento» farà tesoro, per poi ricercarlo insieme a Nina. E la cifra che si coglie è la pietas.

Svolta che però chiede ora all’autore uno sforzo di crescita: nella gestione delle figure di contorno (troppo calcata la Leonessa; da cliché il Gemello; da romanzo d’appendice la fine di Liu). Ma pure nella scrittura: da similitudi­ni talora «tirate» a metafore a volte forzate; a espression­i da aggettivaz­ione non certo sbagliata ma da frase fatta, per i quali auspichere­sti un tocco più personale. Un po’ come ha saputo fare nella scelta di toni quanto mai appropriat­i all’oggetto narrativo prescelto. O nel far sì che Napoli, pur essendo sé stessa, non inghiotta i suoi personaggi, che restano pertanto portatori d’una cifra più universale.

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