Corriere della Sera - La Lettura
AIUTAVA A CREDERE IN DIO E NELL’UOMO
Difese la dignità delle donne ferita e calpestata, ma aveva una visione molto tradizionale dell’universo femminile
Ho seguito da cronista Papa Wojtyla lungo tutti i suoi 26 anni ma solo una volta ho conversato con lui. Fu nel dicembre del 1989, quando fui invitato da don Stanislaw Dziwisz a partecipare con moglie e figli alla messa del mattino nella cappella dell’appartamento privato. Avevo pubblicato da Mondadori un volumetto scritto con il collega Domenico Del Rio, intitolato Wojtyla il nuovo Mosè. Il Papa l’aveva letto durante un viaggio africano e aveva chiesto a Joaquin Navarro-Valls se c’erano, su quell’aereo, gli autori del libro. Il portavoce rispose che uno c’era ma l’altro — cioè io — no «perché ha in casa una persona malata». Veniamo invitati ed entriamo in sei nella Cappella, colpiti come tutti dalla concentrazione del Papa in preghiera. «Sembra una statua», mi dice all’orecchio il figlio più grande. La più piccola mi dorme in braccio ma a metà della celebrazione si sveglia e dice: «Ciuccio». Nella conversazione che segue alla messa, il Papa prende in braccio la bambina e si complimenta per la sua bravura in cappella: «Ma un momento si è sentita. Che cosa è ciuccio?».
Ecco com’era Giovanni Paolo: concentrato in Dio e capace insieme di cogliere il più piccolo segno che gli arrivasse dall’umanità circostante. Mi ringraziò del libro: «Lei ha studiato le mie parole e ha tolto molti miti. Togliere i miti è un’operazione utile».
Dicevo che il libro era scritto insieme a Domenico del Rio, lui vaticanista di «Repubblica» e io del «Corriere della Sera». Domenico era molto critico verso Wojtyla. Quando fu vicino a morire — eravamo nel gennaio del 2003 — mi chiese di far sapere al Papa che lo ringraziava per l’aiuto a credere che gli era venuto a vederlo pregare: «Quando si mette in Dio si vede che questo mettersi in Dio lo salva da tutto».
sono andate fuori senso nella ricezione del Vaticano II. È una vicenda che vivo con estrema sofferenza: di fatto l’attuazione del Concilio si è bloccata ed è necessario ritrovare le sue linee direttrici rimaste inattuate. Troppo tempo è andato perduto.
ANDREA RICCARDI — Vorrei soffermarmi sulla teologia della liberazione. Wojtyla l’ha contrastata, in America Latina, perché la riteneva influenzata dal marxismo: un’ideologia a suo avviso oppressiva e irrecuperabile in una visione cristiana. La lotta alla teologia della liberazione ha due facce: quella più intransigente del cardinale Alfonso López Trujillo e quella più ragionata di Ratzinger; ma senza dubbio crea una lacerazione profonda. Già nel pontificato di Giovanni Paolo II c’è una ricucitura. La scelta, compiuta da Wojtyla, di nominare arcivescovo di Buenos Aires il cardinale Jorge Mario Bergoglio, non acquisito alla teologia della liberazione ed estraneo a quella contesa, è frutto di una nuova fase. Proprio in questa fase — è un paradosso — si evidenzia il successo dei neoprotestanti e neopentecostali in America Latina. Una volta un tassista, con grande acume, mentre passavo davanti a una delle loro chiese in Salvador, mi disse: «Vede? La Chiesa cattolica ha scelto i poveri, ma i poveri hanno scelto le sette».
E il «mea culpa»?
ANDREA RICCARDI — Secondo me va inserito in un progetto riformatore che Giovanni Paolo II persegue nella fase finale del pontificato, ma si blocca a causa della sua malattia. Quanto al respiro globale delle aperture di Wojtyla e alla questione della parità nel dialogo, alla fine è anche la storia che determina le dimensioni di un’istituzione e le situazioni d’incontro. D’altronde i processi di interconnessione a livello mondiale producono inevitabilmente una globalizzazione del papato. Lo stesso Papa Francesco, anche se parla di valorizzare le conferenze episcopali, mantiene una statura globale, come dimostra l’eco dei suoi gesti durante la pandemia. Vale anche per altre religioni: pensiamo al ruolo che ha assunto Ahmad Al Tayyeb, rettore dell’Università egiziana Al-Azhar, come rappresentante del mondo islamico nel dialogo con Bergoglio.
CETTINA MILITELLO — Il respiro globale del papato è un dato di fatto, ma va equilibrato con l’attenzione verso le realtà locali che costituiscono la Chiesa. Sul coronavirus Francesco è intervenuto, parlando a tutto il mondo, come vescovo di Roma. A mio avviso la globalizzazione della figura pontificale non è una soluzione auspicabile.
ANDREA RICCARDI — Non dico che sia una soluzione, è un processo in corso con cui occorre misurarsi.
Come giudicate l’atteggiamento di Wojtyla sulla questione femminile?
CETTINA MILITELLO — Quando nel 1988 uscì la lettera apostolica sulla donna Mulieris dignitatem, scrissi che Giovanni Paolo II era un po’ l’ultimo menestrello, un cantore dell’«amor cortese» medievale. In quel testo Wojtyla sviluppa quanto anticipato l’anno prima nell’enciclica Redemptoris Mater. Disegna una donna angelicata e alterocentrica che nella realtà non esiste. E così avalla un’ideologia che ritengo funesta. Se non prendiamo sul serio il passo di San Paolo ( Galati, 3, 28) secondo il quale in Cristo «non c’è più giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna», finiamo per parlare a vuoto. Mitizzare le virtù delle donne, indicando quale loro modello la madre di Dio, porta a concludere che sono tanto sante da non doversi occupare della gestione della Chiesa e della rappresentanza di Cristo, materie prosaiche da riservare ai meno santi maschi. È una logica alla quale mi ribello, perché non accetto la tesi di una differenza ontica tra maschi e femmine. Riproporre un’immagine idealizzata delle donne serve solo a fare
regredire la questione, giustificando il pretestuoso rifiuto di una loro presenza paritaria nella Chiesa. Capisco le resistenze culturali, ma mi sarei aspettata più coraggio, come quello mostrato da altre confessioni cristiane. In questo c’entra anche l’insistenza di Wojtyla sull’etica sessuale tradizionale? CETTINA MILITELLO — Mi sembra un tema secondario. Ormai in quella sfera intima non ci sono disposizioni che tengano. Tutti, uomini e donne, si regolano secondo coscienza e rifiutano di vedersi imporre «pesi insostenibili», senza per questo sentire di doversi allontanare dalla Chiesa.
DANIELE MENOZZI — Concordo con quanto è stato appena detto, ma con alcuni aggiustamenti. Anche se conserva una visione tradizionale dell’universo femminile, Giovanni Paolo II si sforza di richiamare l’attenzione generale sulle condizioni disumane in cui le donne si vengono spesso a trovare sul lavoro o all’interno della famiglia. Denuncia il fatto che la loro dignità viene calpestata, cerca di promuovere un riconoscimento del loro ruolo sociale. Tuttavia sul versante opposto bisogna ricordare che Wojtyla ha conferito un carattere di definitività all’esclusione delle donne dal sacerdozio. Cioè ha pensato che quel divieto potesse essere trasmesso al futuro senza tenere conto delle trasformazioni che possono essere indotte dal divenire storico. Siamo di fronte a un blocco: Giovanni Paolo II ha assolutizzato una norma dettata da contingenze storiche e le ha attribuito una forte qualificazione teologica. Un terzo punto degno di nota riguarda la condanna che la Chiesa ha espresso verso l’ideologia di genere, sotto il pontificato di Wojtyla, senza considerare l’ampia articolazione che caratterizza una realtà variegata come il movimento delle donne. Ogni rivendicazione femminista è stata attribuita a un’inaccettabile ideologia di genere, e questo ha indotto a respingere in modo indistinto tutte le esigenze connesse al mutamento dei rapporti tra i sessi.
ANDREA RICCARDI — Le Chiese evangeliche, anglicane e luterane hanno compiuto scelte molto diverse rispetto a quella cattolica in fatto di ammissione delle donne al ministero, ma non è che la loro situazione sia confortante come adesioni dei fedeli: attraversano una crisi profonda. Giovanni Paolo II era nato nel 1920, in una società patriarcale come quella polacca dell’epoca, forse non aveva gli strumenti per misurarsi fino in fon
do con la grande rivoluzione costituita dalla fine del dominio del maschio. Ma bisogna anche aggiungere che questo fenomeno riguarda soprattutto l’Occidente, perché la storia delle donne e della famiglia in ambito asiatico o africano rimane diversa.
Dunque è anacronistico rimproverare a Wojtyla di non essersi aperto abbastanza a istanze che erano forse impensabili negli anni della sua formazione? ANDREA RICCARDI — Direi di sì, anche se tengo a sottolineare che il ceto dirigente della Chiesa di Giovanni Paolo II si era forgiato nel Vaticano II, aveva vissuto esperienze e dibattiti teologici molto intensi. Della Curia, che sicuramente venne ampliata come ricordava Menozzi, facevano parte personalità autorevoli come Agostino Casaroli, Roger Etchegaray, Johannes Willebrands. Pensiamo alle nomine di Carlo Maria Martini a Milano e di Jean-Marie Lustiger a Parigi. Wojtyla aveva collaboratori di un livello che oggi non si riscontra. Non solo diminuiscono le vocazioni, ma s’infiacchisce lo status culturale della gerarchia ecclesiastica, forse come quello dei ceti dirigenti politici. Una situazione che riversa ancora di più la responsabilità e l’iniziativa sulla figura globale del pontefice.
Impegnato strenuamente nell’opposizione al comunismo, Giovanni Paolo II ha però messo sotto accusa anche il modello capitalista e le sue sperequazioni. C’è chi vede in queste sue posizioni venature antimoderne, ma si potrebbero anche considerare profetiche. Che ne dite?
DANIELE MENOZZI — Fin dalle sue origini nel 1891, con l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII, la dottrina sociale della Chiesa vuole rappresentare una terza via, in antitesi al socialismo marxista, visto come il pericolo maggiore, ma anche al capitalismo. Entrambi vengono giudicati dal magistero inadeguati a risolvere i problemi determinati dallo sviluppo della società moderna attraverso la rivoluzione industriale. Nei documenti che hanno poi aggiornato la dottrina sociale l’accento è stato posto di solito su quello che veniva ritenuto il male più grave, il comunismo ateo e materialista. Prima del crollo dell’impero sovietico, Giovanni Paolo II segnala soprattutto i rischi di impoverimento e di soffocamento della libera iniziativa all’interno del modello collettivista. Ma dopo il 1989 la sua critica investe con più determinazione il liberismo capitalista. Ferma restando l’importanza del mercato come strumento di regolazione degli scambi, Wojtyla denuncia la mancanza di regole e di etica nel campo dell’economia, rilanciando come alternativa la dottrina sociale cattolica. Il rischio però è che questa terza via si ponga sullo stesso piano delle altre due: che diventi un’ideologia, come temeva il teologo francese Marie-Dominique Chenu, invece di fare in primo luogo riferimento al Vangelo come criterio di orientamento per il cristiano di fronte ai problemi sociali.
CETTINA MILITELLO — Senza dubbio nel magistero papale del Novecento l’opposizione al comunismo ha prevalso su quella al capitalismo. Oggi la sfida di ritornare al Vangelo, richiamata da Menozzi, è davanti a noi. Giovanni Paolo II ci ha provato, ma forse non con la necessaria decisione, anche se le sue condanne della guerra sono state molto importanti. Non è facile, avendo nei fatti accettato in precedenza le strutture economiche e istituzionali del capitalismo, riuscire a liberarsene. Serve una conversione profonda, per la quale ancora non usiamo strumenti culturali adeguati. Ricordarci la data di nascita di Wojtyla ci aiuta a capire fin dove poteva arrivare e a riconoscerne lo spirito profetico. Ma ci porta anche a rammaricarci per i limiti che il suo magistero ha avuto, soprattutto nella parte di mezzo del pontificato.
ANDREA RICCARDI — Giovanni Paolo II esprime pienamente l’esperienza del cattolicesimo e quindi anche la complexio oppositorum, la combinazione degli opposti, che la caratterizza da sempre. Nonostante il suo forte anticomunismo, mai smentito, l’essere vissuto nella Polonia agricola e poi socialista non lo aveva reso sensibile agli argomenti del liberalismo occidentale. Quando parla del futuro dell’Est e della Russia dopo la caduta del blocco sovietico, Wojtyla non auspica che quei Paesi abbraccino il capitalismo. Viene semmai travolto dagli sviluppi della storia e dalla rapida adesione dell’Europa orientale al modello occidentale. Il suo messaggio sociale insiste sempre sulla necessità di mettere sotto controllo il mercato. Significativa, a questo proposito, è la sua posizione critica verso il capitalismo per quanto attiene ai rapporti tra il Nord e il Sud del mondo. Wojtyla si ricollega all’enciclica Populorum progressio, emanata nel 1967 da Paolo VI, ma va anche oltre, tessendo relazioni proficue con i Paesi poveri, in particolare africani. Dunque la caduta del comunismo segna una cesura per il pontificato di Wojtyla?
ANDREA RICCARDI — Al momento della sua elezione il mondo è bipolare, con l’antagonismo tra l’impero americano e quello sovietico, ma dopo il 1989 rimane in piedi una sola superpotenza. Non è mai facile la posizione della Chiesa a confronto con un solo impero. Così Giovanni Paolo II si trova alle prese con l’egemonia assoluta degli Stati Uniti, un Paese che il Papa polacco per molti aspetti apprezza, ma del quale critica la politica quando sfocia nel ricorso alla guerra, a partire dal 1991. Si arriva così alla saldatura della posizione di Wojtyla con il movimento pacifista europeo, un altro elemento che evidenzia l’estrema complessità del suo pontificato.