Corriere della Sera - La Lettura
Il mondo s’è ammalato (ma di infantilismo)
Alcuni di noi sono affranti o infuriati. Non hanno potuto tenere la mano dei loro cari morenti, stringerli a sé un’ultima volta né assistere ai loro funerali. Altri sono malati oppure lottano contro il virus adoperandosi quotidianamente affinché le nostre società non crollino. Medici, droghieri, infermieri, camionisti, cassiere... quei coraggiosi anonimi che si alzano ogni mattina con un obiettivo, curare, resistere, approvvigionare. C’è in loro, in ogni pur minima operazione, adrenalina e tensione, scoraggiamento ed esaltazione. Sanno di essere utili: sono attivi.
E ci sono tutti gli altri, l’immensa maggioranza di noi, tappati in casa, passivi, inquieti per la pandemia, per le sue conseguenze economiche e politiche, e per il mondo del dopo che si delinea. Per loro, il martedì assomiglia al venerdì e il giovedì alla domenica; e le agende sono vuote. Appartengo a questa maggioranza molle. Quella che stranamente stanca cerca di lavorare, e deve aspettare e sperare senza crederci troppo, per il timore d’essere delusa. Quella a cui si consigliano libri, serie televisive e ricette di cucina, come a bambini viziati che non avessero mai imparato ad avere pazienza né a sopportare il minimo male.
Non so voi, ma io galleggio.
Da quasi due mesi, ho l’impressione d’essere immerso in un enorme boccale di formalina. Una nebbia spessa, senza orizzonte definito: non sappiamo nulla o quasi, ma prevediamo che questa crisi durerà, ben oltre il confinamento alleggerito che ci viene promesso per questo mese di maggio. Un immenso torpore. I nostri anziani muoiono isolati, quelli che sono stati i nostri punti di riferimento (Uderzo, Michel Hidalgo, Christophe, Manu Dibango...) scompaiono, la piramide è decapitata: accadono cose terribili, in realtà inconcepibili, ma non possiamo resistere, impotenti.
È il grande paradosso della peste dell’anno 2020: il mondo vacilla e si disgrega con sbalorditiva velocità, la storia accelera, accelera, ma a noi viene intimato di rallentare, di fare le flessioni nei nostri salotti o di guardare in tv Tre uomi
ni in fuga, per dimenticare. Individualmente, il tempo si dilata, come un chewing-gum, come una smisurata pasta per la pizza; collettivamente, si contrae, ogni giorno; le perdite si fanno precipitose, miliardi di soldi vanno in fumo. Poveri noi, fratelli umani. Ci restano i social network — quei luoghi osceni che tanto hanno contribuito,
prima, a eccitare gli animi — per farci ricordare una persona cara, un idolo ammirato, e per esistere, semplicemente.
Disteso sul letto, ascolto il ticchettio della pioggia sul tetto e osservo malinconico il lento balletto delle nuvole pensando ai viaggi. Per molto tempo
Limitazioni, divieti, proibizioni. In altre parole: infantilizzazione. Le autorità potranno ficcare il naso dappertutto in nome della salute pubblica, questo bravo despota. Da quasi due mesi, ho l’impressione d’essere immerso in un enorme boccale di formalina mentre i nostri anziani e i nostri punti di riferimento scompaiono: la piramide è decapitata. E la peste dell’anno 2020 porta con sé un paradosso: il mondo vacilla e si disgrega con sbalorditiva velocità, la storia accelera ma a noi viene intimato di rallentare
non andrò più in giro, lo avevo intuito attraversando a Strasburgo il Ponte dell’Europa il 15 marzo, qualche ora prima che la frontiera franco-tedesca fosse chiusa.
Privilegio del borghese, dello scrittore cosmopolita, amo gli accenti stranieri, le regioni esotiche e — più di tutto — saltare su un treno, salire sul ponte di un traghetto o su un’auto potente che si arrampica su una collina. Amo il movimento, i paesaggi, la libertà: viaggiare. Appartengo alla generazione dorata dei viaggiatori, la prima (e molto probabilmente l’ultima) della storia dell’umanità che avrà avuto il vantaggio di scoprire i cinque continenti con tanta facilità.
Nel bene e nel male, la globalizzazione ha notevolmente ridotto i costi dei viaggi; l’Europa ha eliminato le frontiere. Negli ultimi trent’anni, il mondo è diventato un’ostrica. Fra cinquant’anni, chi crederà ai nostri figli quando racconteranno che ci bastava esibire un pezzo di carta per imbarcarci su un aereo transoceanico che, in una mezza giornata, ci lasciava a Buenos Aires o a Tokyo, senza altre formalità se non quelle di togliersi le scarpe e buttare la bottiglia d’acqua cominciata, e senza spendere una fortuna?
Per ragioni ecologiche e sanitarie soprattutto, questo mondo fluido, aperto, utopico in qualche modo, è ormai certamente superato. Prima di salire su un aereo, di attraversare una frontiera, bisognerà subire una sfilza di test, fornire i propri dati più personali, all’andata come all’arrivo, per ancora sei mesi, un anno o due. Solo i sani partiranno: vivremo nella psicosi dei virus.
Temo il mondo che verrà, igienista e pastorizzato. La separazione dei forti dai deboli; dei giovani dai vecchi. Il sacrificio delle nostre libertà individuali sull’altare dello stato d’urgenza sanitario; il tracking dei nostri contatti, dei nostri spostamenti, della nostra vita privata: la sorveglianza generalizzata per il bene di tutti. La maggioranza rinuncerà al proprio libero arbitrio per timore di nuove epidemie. Nuove leggi s’imporranno in Occidente a causa della nostra avversione al rischio e a causa dell’inconcepibilità della morte nelle nostre società; il fenomeno non è nuovo e si amplificherà. Limitazioni, divieti, proibizioni; infantilizzazione.
Le autorità potranno ficcare il naso dappertutto in nome della salute pubblica, questo bravo despota. Presto avremo governi di medici come ci furono in passato governi di giudici o tecnocrati, uno Stato clinico.
Di notte mi capita di fare zapping, di guardare sconosciuti canali stranieri. L’altra sera Orf (Austria), Telesur (Venezuela, America Latina), i24 (Israele). Su tutti i canali e in tutti i continenti, le stesse immagini, uomini e donne mascherati, come saltati fuori da un quadro di Hieronymus Bosch ai tempi della grande peste, e gli stessi commenti di giornalisti ed esperti, la mancanza di mascherine, il numero di tamponi insufficiente.
La pandemia non ci offre alcuna scappatoia. È un inedito negli annali della storia. Impossibile scappare, trovare un rifugio o andare in esilio per sfuggire ai drammi, come durante un conflitto classico. Il Covid-19 è una crisi sanitaria mondiale sincronizzata su una settimana circa. Le frontiere si sono richiuse. Ognuno è intrappolato in casa, fra quattro mura. Sensazioni di asfissia e di claustrofobia, alimentate dalla musica lenitiva diffusa dai mass media, il pathos dei telegiornali francesi (buoni sentimenti e brava gente sullo schermo, scarsa analisi: sempre l’infantilizzazione), i moralisti neo-fascistoidi di destra e di sinistra che si sfregano le mani difendendo la vita lenta e sana, gli ortaggi della propria terra, le campagne dove si trova il tempo di cucinare in famiglia e di prendersi cura degli altri, diversamente dalle megalopoli corrotte, portatrici di tutti i miasmi e di tutti i vizi.
Quando riemergo dalle nuvole, mi capita di lavorare alla preparazione del mio prossimo romanzo. Leggo libri di storia, sulla Mesopotamia antica e sulla Gran Bretagna. Apprendo che l’Assiria dominava l’Oriente nel VII a.C., per poi scomparire bruscamente, distrutta dai Medi e dai Babilonesi nel 612 a.C.; che prima di raggiungere il suo splendore sotto i Tudor, l’Inghilterra conobbe una successione di guerre civili e di regicidi nel XV secolo.
La storia è solo un grande movimento di bilanciere, da un secolo all’altro, un’alternanza di cadute e di apogei. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Occidente ha occultato questa regola basilare: le civiltà sono mortali. La pandemia potrebbe essere un catalizzatore. Essa conferma che gli Stati Uniti e la Francia sono in stato di decomposizione avanzata. L’Europa è una chimera perché ha coalizzato le economie e non i popoli e le culture. La Germania fa la parte del cavaliere solitario; ma la Germania ha orrore di fare il cavaliere solitario. La Cina totalitaria non nasconde più le proprie ambizioni planetarie.
I giochi non sono fatti, tutto può ancora ribaltarsi e l’anarchia avere la meglio, ma abbiamo forse raggiunto uno di quei momenti di ribaltamento storico. Come ogni giorno, alla stessa ora, le nuvole si dileguano e io compilo docilmente l’autocertificazione che mi consente di fare il giro dell’isolato. Mai il tempo è stato così bello come in questa primavera confinata.
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