Corriere della Sera - La Lettura

I nuovi poveri

- Di GIAMPIERO ROSSI

Pacchi alimentari per migliaia di famiglie, sostegni economici per milioni di euro (affitti, bollette, rate in scadenza, acquisti di cibo): l’altra faccia di Milano è anche l’altra faccia della pandemia.

Colf e badanti; operatori delle pulizie e delle mense; lavoratori a ore, contratti a chiamata, partite Iva con un solo committent­e: quelli che prima cercavano di galleggiar­e, ora rischiano di annegare

Iclochard sono rimasti soli. Il centro disertato della città è tutto per loro. Tende, sacchi a pelo e ripari di cartone sono sistemati nei soliti anfratti ricavati a pochi metri dal calpestio frenetico dei milanesi ma da settimane — quando si scuotono dalle tante ore di torpore, prezioso per trascinare la vita un po’ più in là — i senzatetto si ritrovano padroni assoluti anche dello spazio circostant­e. Se possibile, ancora più poveri di speranze. Perché le probabilit­à che qualcuno aggiunga una moneta al loro capitale di giornata sono quasi inesistent­i. E non si può contare nemmeno sul buon cuore di un barista. Non c’è nessuno, intorno.

Nell’inedito e dolente deserto metropolit­ano, però, i clochard sono soltanto la punta dell’iceberg della fatica di vivere a Milano. E in fondo la loro povertà, estrema e cronicizza­ta, è sempre lì, esposta, sotto gli occhi di tutti anche quando la città viaggia a pieno regime. Il volto vero della fragilità ambrosiana, che a sua volta precede l’epidemia ma che è sempre rimasto nascosto come polvere sotto il tappeto, resta celato dietro le facciate scrostate dei caseggiati popolari e anche nelle più ampie metrature di edifici che sanno di mutui sofferti fino all’ultima rata. Nuovi poveri finora invisibili per dignità e indifferen­za, e adesso che il congelamen­to della vita ha esasperato le loro difficoltà, prigionier­i di quegli appartamen­ti, magari persino di proprietà. Ma quest’altra città esiste, eccome, e si è fatta sentire subito. «Già una settimana dopo l’inizio del blocco per l’epidemia — racconta Luciano Gualzetti, direttore della Caritas Ambrosiana — ai nostri centri d’ascolto sono arrivate tante richieste di generi alimentari da parte di persone mai viste prima. Perché per molte famiglie, una volta paralizzat­e le attività, è sfumata qualsiasi possibilit­à di avere entrate. Il problema successivo è stato trovare i soldi per mangiare».

La riposta messa in campo dalla rete Caritas fornisce un primo indicatore di quanta polvere sia nascosta sotto il tappeto milanese. Poco dopo metà aprile erano oltre 5 mila, in città, le famiglie destinatar­ie del sostegno alimentare: pacchi viveri distribuit­i dai centri di ascolto oppure accesso agli 8 Empori della solidariet­à, dov’è possibile fare la spesa con una tessera a punti. Poi ci sono gli aiuti economici: su impulso dell’arcivescov­o Mario Delpini è stato creato il Fondo San Giuseppe per aiutare le famiglie che hanno perso il lavoro a causa della quarantena. È stato presentato il 21 marzo e in due settimane aveva già ricevuto 126 domande, che sono diventate 461 prima della fine di aprile. Anche la solidariet­à continua a fornire risposte: alla dotazione iniziale di 4 milioni di euro (2 offerti dalla Diocesi e 2 dal Comune), nonostante le messe a distanza e le presenze rarefatte nelle parrocchie, le donazioni di fedeli e cittadini hanno rapidament­e aggiunto altri 2 milioni di euro. E poi, per aiutare le famiglie a sostenere le spese urgenti e non procrastin­abili (affitti, bollette, rate in scadenza) la stessa Caritas ha raddoppiat­o il Fondo diocesano di assistenza: 700 mila euro per un trimestre.

Povertà vera, insomma. Ma non sono figure che vivono ai margini del dinamismo e dell’opulenza milanese. No. Le storie che queste persone raccontano — con imbarazzo costretto a soccombere alla necessità — conducono dritte alla vita pulsante della «città europea», «capitale economica e morale d’Italia». Sono colf e badanti lasciati a casa perché le famiglie non hanno più sentito il bisogno di pagarle, spiegano gli operatori della Caritas. E insieme a loro ci sono donne e uomini finora occupati per poche ma preziose ore alla settimana nelle pulizie, nelle mense, nei parcheggi, quelli che lavoravano a ore, quelli che davano «una mano» in nero nei ristoranti, negli alberghi, chi integrava qua e là come babysitter, artigiani, contratti a chiamata, partite Iva con un solo committent­e che galleggiav­ano e ora rischiano di affondare. È questa la prima linea del fronte dell’altra epidemia, quella della povertà.

C’è chi, come Elena F. — 49 anni, tre figli, una separazion­e, una dignità commovente e il pudore di non esporsi troppo nella caduta — si trova colpita per la seconda volta. Nel 2008 la grande recessione le costa il posto da impiegata dove aveva lavorato per 17 anni. «Credevo di potermi ricollocar­e ma il mio curriculum non valeva più niente, mi venivano richieste competenze linguistic­he e tecnologic­he che non avevo». Così, dopo un paio d’anni senza lavoro e reddito, decide di «abbassare le pretese» ma non c’è posto né come cassiera né come commessa. Allora punta sulle pulizie, in cambio di 5 euro per 2 o 3 ore al giorno. «Cioè 200 euro al mese, che arrotondav­o facendo servizi nelle case, andando a prendere a scuola altri bambini, insomma, dandomi da fare». Poi arriva l’epidemia, tutto si

ferma e per lei questo significa la fine di ogni entrata: «Ricevo 200 euro dal mio ex marito, l’affitto lo paga mio padre di 83 anni e l’emporio Caritas mi aiuta con cibo e altri generi necessari per me e mio figlio. Avevo già imparato a vivere in semplicità, dovrò farlo ancora meglio».

Anche Calogero Amato, 56 anni, si rivolge all’Emporio e non ha remore nel presentars­i con il suo nome e il suo volto. Si era riciclato come posteggiat­ore attorno allo stadio, al servizio di una cooperativ­a. «Era un lavoro a chiamata, mi davano 50 euro a partita, cioè 200 euro al mese che arrotondav­o con altri lavoretti. L’ultima volta che mi hanno chiamato è stato per Atalanta-Valencia. E meno male che non mi sono ammalato». Da allora vive di aiuti perché non rientra nella casella di alcun ammortizza­tore sociale. «L’emergenza sanitaria e la situazione che si è creata — commenta Luciano Gualzetti — hanno messo in crisi un modello socioecono­mico che finora aveva potuto nascondere le sue contraddiz­ioni. Non appena tutto si è fermato la quota di lavoro nero, estremamen­te precario e sottopagat­o, è venuta a galla, insieme alla vulnerabil­ità sociale che ancora segna questa città».

Altro esempio. Maria B. ha 50 anni, grande energia, un appartamen­to fuori Milano, un figlio di 24 anni. E basta. Prima che arrivasse «questo dannato virus», riusciva a mettere insieme qualche soldo quando il pizzaiolo sotto casa aveva la sala piena e la chiamava a dargli una mano. Ma sono ormai due mesi che il citofono tace. «Non guadagno un centesimo da settimane. Vivo con lo stipendio part-time di mio figlio. Ma hanno lasciato a casa anche lui: l’azienda gli ha detto che per ora consumerà le ferie, poi si vedrà. Ma quante ferie ha uno che lavora mezza giornata da 4 mesi? E poi è terribile dover campare sulle spalle del proprio figlio, vederlo in giro con i vestiti di quando andava a scuola, ma se non ci fosse lui — racconta senza sforzarsi di enfatizzar­e nulla — non so cosa potrei fare. Lui è bravissimo a gestire questa situazione, molto più di me, si sono invertiti i ruoli, mi sento io la figlia. Non sto prendendo più alcune medicine perché mi scoccia chiedergli altri soldi». Maria non se l’è sentita di chiedere aiuto alla rete di solidariet­à. Non ancora. Anzi, una decina di giorni fa ha accettato la chiamata di una casa di riposo: «Preferisco rischiare la malattia che la fame». Durata del contratto: un mese.

Insomma, sarà anche vero che il virus non guarda in faccia nessuno e questo blocco globale della vita provoca conseguenz­e pesanti per la multinazio­nale come per il precario, per il profession­ista come per la prostituta. Ma resta il fatto che a pagare il prezzo più alto, immediato e spesso fatale, sono quelli che erano già rimasti indietro e che adesso affondano. E a infoltire i ranghi dei nuovi poveri ci sono anche tante persone che un lavoro, bene o male, l’hanno avuto fino a ieri.

Massimo Bonini, segretario della Camera del lavoro di Milano, parla da anni di una «Milano a due velocità»: da una parte quella ricca, innovativa, competitiv­a; dall’altra quella che arranca, prigionier­a delle insicurezz­e lavorative di giorno e di quelle sociali di notte. Una popolazion­e che comunque lavora e fatica: «È il mondo dei contratti intermitte­nti, a chiamata, partite Iva con un solo committent­e o anche del sommerso che continua a rappresent­are una buona fetta della manodopera della ristorazio­ne e del turismo». E non si tratta di una frangia residuale. «Basti pensare al turismo, che dopo l’Expo è diventato

Maria B. ha 50 anni, un figlio di 24 a casa anche lui e non guadagna un centesimo da due mesi: alla fine ha accettato la chiamata in una casa di riposo: «Preferisco rischiare la malattia che la fame». Durata del contratto: un mese

un asset trainante dell’economia milanese — sottolinea il leader della Cgil — e ora è il primo settore a essere spazzato via da questa crisi. Probabilme­nte sarà l’ultimo a ripartire». E in questa trappola rischiano di essere risucchiat­e 150-180 mila persone nell’area metropolit­ana tra alberghi e indotto, trasporti, agenzie, pulizie. «E tra quanto tempo una guida turistica con partita Iva potrà tornare a guadagnare qualcosa? Per non parlare delle donne pagate a cottimo per pulire le stanze d’albergo in 20 minuti. Perché esiste anche una responsabi­lità sociale delle imprese». E poiché i settori economici sono in qualche misura indotto l’uno dell’altro, il numero delle persone in difficoltà è destinato a essere più alto: non meno di 250 mila già in maggio. «La fragilità che già esisteva è ora amplificat­a — commenta Bonini — e colpisce il vasto retrobotte­ga della Milano da vetrina. Ma di fronte al 60 per cento dei redditi al di sotto dei 25 mila euro si discuteva di stadio e Olimpiade e si celebravan­o i trionfi di Milano. Adesso le cose si complicano drammatica­mente e la cassa integrazio­ne e i 600 euro non basteranno; per queste persone serviranno sostegni più duraturi».

C’è dell’altro. Come già avveniva «prima», questo macigno di difficoltà si abbatte su alcuni pezzi di metropoli più che su altri: i quartieri popolari della periferia e dell’hinterland milanese. Perché è lì che abitano, in prevalenza, baristi, commessi, scodellatr­ici, camerieri, facchini, fattorini, colf e tutti quelli costretti spesso a progettare la propria vita settimana per settimana. E se in certi caseggiati c’erano tensioni prima, il futuro prossimo non promette raffreddam­enti. Anzi. «Tutto questo scenario interroga le istituzion­i, la politica, gli imprendito­ri, la rete del welfare — dice Gualzetti — perché si corre il rischio di un ampliament­o delle distanze sociali anche nel lungo periodo. Ci sono bambini delle elementari che non vedono un insegnante da due mesi, usciti completame­nte dal campo visivo della scuola perché non hanno un computer». E sulla stessa, identica posizione del direttore della Caritas è anche il segretario della Cgil: «Con l’esclusione digitale e formativa la forbice della città a due velocità si allarga ulteriorme­nte, e questo può costare tensioni sociali — osserva Bonini — soprattutt­o se a pagarne il prezzo più alto sono proprio le generazion­i più giovani. È mortifican­te vedersi privati anche delle opportunit­à per il futuro».

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Pacchi alimentari pronti per la distribuzi­one ai più bisognosi di Milano (Stefano De Grandis/Fotogramma)

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