Corriere della Sera - La Lettura
I nuovi poveri
Pacchi alimentari per migliaia di famiglie, sostegni economici per milioni di euro (affitti, bollette, rate in scadenza, acquisti di cibo): l’altra faccia di Milano è anche l’altra faccia della pandemia.
Colf e badanti; operatori delle pulizie e delle mense; lavoratori a ore, contratti a chiamata, partite Iva con un solo committente: quelli che prima cercavano di galleggiare, ora rischiano di annegare
Iclochard sono rimasti soli. Il centro disertato della città è tutto per loro. Tende, sacchi a pelo e ripari di cartone sono sistemati nei soliti anfratti ricavati a pochi metri dal calpestio frenetico dei milanesi ma da settimane — quando si scuotono dalle tante ore di torpore, prezioso per trascinare la vita un po’ più in là — i senzatetto si ritrovano padroni assoluti anche dello spazio circostante. Se possibile, ancora più poveri di speranze. Perché le probabilità che qualcuno aggiunga una moneta al loro capitale di giornata sono quasi inesistenti. E non si può contare nemmeno sul buon cuore di un barista. Non c’è nessuno, intorno.
Nell’inedito e dolente deserto metropolitano, però, i clochard sono soltanto la punta dell’iceberg della fatica di vivere a Milano. E in fondo la loro povertà, estrema e cronicizzata, è sempre lì, esposta, sotto gli occhi di tutti anche quando la città viaggia a pieno regime. Il volto vero della fragilità ambrosiana, che a sua volta precede l’epidemia ma che è sempre rimasto nascosto come polvere sotto il tappeto, resta celato dietro le facciate scrostate dei caseggiati popolari e anche nelle più ampie metrature di edifici che sanno di mutui sofferti fino all’ultima rata. Nuovi poveri finora invisibili per dignità e indifferenza, e adesso che il congelamento della vita ha esasperato le loro difficoltà, prigionieri di quegli appartamenti, magari persino di proprietà. Ma quest’altra città esiste, eccome, e si è fatta sentire subito. «Già una settimana dopo l’inizio del blocco per l’epidemia — racconta Luciano Gualzetti, direttore della Caritas Ambrosiana — ai nostri centri d’ascolto sono arrivate tante richieste di generi alimentari da parte di persone mai viste prima. Perché per molte famiglie, una volta paralizzate le attività, è sfumata qualsiasi possibilità di avere entrate. Il problema successivo è stato trovare i soldi per mangiare».
La riposta messa in campo dalla rete Caritas fornisce un primo indicatore di quanta polvere sia nascosta sotto il tappeto milanese. Poco dopo metà aprile erano oltre 5 mila, in città, le famiglie destinatarie del sostegno alimentare: pacchi viveri distribuiti dai centri di ascolto oppure accesso agli 8 Empori della solidarietà, dov’è possibile fare la spesa con una tessera a punti. Poi ci sono gli aiuti economici: su impulso dell’arcivescovo Mario Delpini è stato creato il Fondo San Giuseppe per aiutare le famiglie che hanno perso il lavoro a causa della quarantena. È stato presentato il 21 marzo e in due settimane aveva già ricevuto 126 domande, che sono diventate 461 prima della fine di aprile. Anche la solidarietà continua a fornire risposte: alla dotazione iniziale di 4 milioni di euro (2 offerti dalla Diocesi e 2 dal Comune), nonostante le messe a distanza e le presenze rarefatte nelle parrocchie, le donazioni di fedeli e cittadini hanno rapidamente aggiunto altri 2 milioni di euro. E poi, per aiutare le famiglie a sostenere le spese urgenti e non procrastinabili (affitti, bollette, rate in scadenza) la stessa Caritas ha raddoppiato il Fondo diocesano di assistenza: 700 mila euro per un trimestre.
Povertà vera, insomma. Ma non sono figure che vivono ai margini del dinamismo e dell’opulenza milanese. No. Le storie che queste persone raccontano — con imbarazzo costretto a soccombere alla necessità — conducono dritte alla vita pulsante della «città europea», «capitale economica e morale d’Italia». Sono colf e badanti lasciati a casa perché le famiglie non hanno più sentito il bisogno di pagarle, spiegano gli operatori della Caritas. E insieme a loro ci sono donne e uomini finora occupati per poche ma preziose ore alla settimana nelle pulizie, nelle mense, nei parcheggi, quelli che lavoravano a ore, quelli che davano «una mano» in nero nei ristoranti, negli alberghi, chi integrava qua e là come babysitter, artigiani, contratti a chiamata, partite Iva con un solo committente che galleggiavano e ora rischiano di affondare. È questa la prima linea del fronte dell’altra epidemia, quella della povertà.
C’è chi, come Elena F. — 49 anni, tre figli, una separazione, una dignità commovente e il pudore di non esporsi troppo nella caduta — si trova colpita per la seconda volta. Nel 2008 la grande recessione le costa il posto da impiegata dove aveva lavorato per 17 anni. «Credevo di potermi ricollocare ma il mio curriculum non valeva più niente, mi venivano richieste competenze linguistiche e tecnologiche che non avevo». Così, dopo un paio d’anni senza lavoro e reddito, decide di «abbassare le pretese» ma non c’è posto né come cassiera né come commessa. Allora punta sulle pulizie, in cambio di 5 euro per 2 o 3 ore al giorno. «Cioè 200 euro al mese, che arrotondavo facendo servizi nelle case, andando a prendere a scuola altri bambini, insomma, dandomi da fare». Poi arriva l’epidemia, tutto si
ferma e per lei questo significa la fine di ogni entrata: «Ricevo 200 euro dal mio ex marito, l’affitto lo paga mio padre di 83 anni e l’emporio Caritas mi aiuta con cibo e altri generi necessari per me e mio figlio. Avevo già imparato a vivere in semplicità, dovrò farlo ancora meglio».
Anche Calogero Amato, 56 anni, si rivolge all’Emporio e non ha remore nel presentarsi con il suo nome e il suo volto. Si era riciclato come posteggiatore attorno allo stadio, al servizio di una cooperativa. «Era un lavoro a chiamata, mi davano 50 euro a partita, cioè 200 euro al mese che arrotondavo con altri lavoretti. L’ultima volta che mi hanno chiamato è stato per Atalanta-Valencia. E meno male che non mi sono ammalato». Da allora vive di aiuti perché non rientra nella casella di alcun ammortizzatore sociale. «L’emergenza sanitaria e la situazione che si è creata — commenta Luciano Gualzetti — hanno messo in crisi un modello socioeconomico che finora aveva potuto nascondere le sue contraddizioni. Non appena tutto si è fermato la quota di lavoro nero, estremamente precario e sottopagato, è venuta a galla, insieme alla vulnerabilità sociale che ancora segna questa città».
Altro esempio. Maria B. ha 50 anni, grande energia, un appartamento fuori Milano, un figlio di 24 anni. E basta. Prima che arrivasse «questo dannato virus», riusciva a mettere insieme qualche soldo quando il pizzaiolo sotto casa aveva la sala piena e la chiamava a dargli una mano. Ma sono ormai due mesi che il citofono tace. «Non guadagno un centesimo da settimane. Vivo con lo stipendio part-time di mio figlio. Ma hanno lasciato a casa anche lui: l’azienda gli ha detto che per ora consumerà le ferie, poi si vedrà. Ma quante ferie ha uno che lavora mezza giornata da 4 mesi? E poi è terribile dover campare sulle spalle del proprio figlio, vederlo in giro con i vestiti di quando andava a scuola, ma se non ci fosse lui — racconta senza sforzarsi di enfatizzare nulla — non so cosa potrei fare. Lui è bravissimo a gestire questa situazione, molto più di me, si sono invertiti i ruoli, mi sento io la figlia. Non sto prendendo più alcune medicine perché mi scoccia chiedergli altri soldi». Maria non se l’è sentita di chiedere aiuto alla rete di solidarietà. Non ancora. Anzi, una decina di giorni fa ha accettato la chiamata di una casa di riposo: «Preferisco rischiare la malattia che la fame». Durata del contratto: un mese.
Insomma, sarà anche vero che il virus non guarda in faccia nessuno e questo blocco globale della vita provoca conseguenze pesanti per la multinazionale come per il precario, per il professionista come per la prostituta. Ma resta il fatto che a pagare il prezzo più alto, immediato e spesso fatale, sono quelli che erano già rimasti indietro e che adesso affondano. E a infoltire i ranghi dei nuovi poveri ci sono anche tante persone che un lavoro, bene o male, l’hanno avuto fino a ieri.
Massimo Bonini, segretario della Camera del lavoro di Milano, parla da anni di una «Milano a due velocità»: da una parte quella ricca, innovativa, competitiva; dall’altra quella che arranca, prigioniera delle insicurezze lavorative di giorno e di quelle sociali di notte. Una popolazione che comunque lavora e fatica: «È il mondo dei contratti intermittenti, a chiamata, partite Iva con un solo committente o anche del sommerso che continua a rappresentare una buona fetta della manodopera della ristorazione e del turismo». E non si tratta di una frangia residuale. «Basti pensare al turismo, che dopo l’Expo è diventato
Maria B. ha 50 anni, un figlio di 24 a casa anche lui e non guadagna un centesimo da due mesi: alla fine ha accettato la chiamata in una casa di riposo: «Preferisco rischiare la malattia che la fame». Durata del contratto: un mese
un asset trainante dell’economia milanese — sottolinea il leader della Cgil — e ora è il primo settore a essere spazzato via da questa crisi. Probabilmente sarà l’ultimo a ripartire». E in questa trappola rischiano di essere risucchiate 150-180 mila persone nell’area metropolitana tra alberghi e indotto, trasporti, agenzie, pulizie. «E tra quanto tempo una guida turistica con partita Iva potrà tornare a guadagnare qualcosa? Per non parlare delle donne pagate a cottimo per pulire le stanze d’albergo in 20 minuti. Perché esiste anche una responsabilità sociale delle imprese». E poiché i settori economici sono in qualche misura indotto l’uno dell’altro, il numero delle persone in difficoltà è destinato a essere più alto: non meno di 250 mila già in maggio. «La fragilità che già esisteva è ora amplificata — commenta Bonini — e colpisce il vasto retrobottega della Milano da vetrina. Ma di fronte al 60 per cento dei redditi al di sotto dei 25 mila euro si discuteva di stadio e Olimpiade e si celebravano i trionfi di Milano. Adesso le cose si complicano drammaticamente e la cassa integrazione e i 600 euro non basteranno; per queste persone serviranno sostegni più duraturi».
C’è dell’altro. Come già avveniva «prima», questo macigno di difficoltà si abbatte su alcuni pezzi di metropoli più che su altri: i quartieri popolari della periferia e dell’hinterland milanese. Perché è lì che abitano, in prevalenza, baristi, commessi, scodellatrici, camerieri, facchini, fattorini, colf e tutti quelli costretti spesso a progettare la propria vita settimana per settimana. E se in certi caseggiati c’erano tensioni prima, il futuro prossimo non promette raffreddamenti. Anzi. «Tutto questo scenario interroga le istituzioni, la politica, gli imprenditori, la rete del welfare — dice Gualzetti — perché si corre il rischio di un ampliamento delle distanze sociali anche nel lungo periodo. Ci sono bambini delle elementari che non vedono un insegnante da due mesi, usciti completamente dal campo visivo della scuola perché non hanno un computer». E sulla stessa, identica posizione del direttore della Caritas è anche il segretario della Cgil: «Con l’esclusione digitale e formativa la forbice della città a due velocità si allarga ulteriormente, e questo può costare tensioni sociali — osserva Bonini — soprattutto se a pagarne il prezzo più alto sono proprio le generazioni più giovani. È mortificante vedersi privati anche delle opportunità per il futuro».