Corriere della Sera - La Lettura

Negli anni abbiamo combattuto precarizza­zione, ingiustizi­a sociale, violenza economica. Ci aspetta una nuova lotta di classe

- Stefano Montefiori @Stef_Montefiori

te non hanno da mangiare. Come è possibile accettare una situazione simile?

ÉDOUARD LOUIS — È così. La frattura sociale, che ha fatto scendere in piazza migliaia di persone con il movimento dei gilet gialli e poi con la protesta contro il piano pensioni, è resa ancora più evidente dall’epidemia e dalla quarantena che ne è seguita. Questa situazione, per le nostre società, è una specie di test di Rorschach, quelle figure usati dagli psicologi per cogliere indicazion­i sul paziente. I momenti di crisi rivelano la vera natura dei rapporti di forza. Durante le manifestaz­ioni dei gilet gialli, molti hanno visto il popolo per la prima volta e hanno notato che non si comportava sempre nei modi idealizzat­i e nobili del pasolinism­o. Sì, alcune persone del popolo possono essere volgari, omofobe, antisemite. È ignobile, ma non per questo tutta la classe popolare merita il disprezzo che è venuto alla luce durante quelle manifestaz­ioni. Ora la crisi del coronaviru­s ha portato alla luce altri episodi interessan­ti.

Quali?

ÉDOUARD LOUIS — Il disprezzo di classe, di nuovo, verso le auto in fila al drive-in del McDonald’s di periferia appena riaperto, per esempio. Oppure il familismo sottolinea­to dal filosofo Geoffroy de Lagasnerie. Il confinamen­to ha tracciato una frontiera tra le relazioni legittime e le altre: chi ha famiglia può restare in casa con il marito o la moglie o uscire con i bambini che poi vedono altri bambini e quindi ricreano una forma di vita sociale. Le altre forme di relazione non sono ammesse. Puoi attraversa­re tutta la Francia per andare a riprendere tuo figlio se sei separato, ma non puoi attraversa­re il quartiere per andare a trovare la tua o il tuo amante.

Un po’ come in Italia tra «congiunti» e «affetti stabili». Tornando alla questione dei lavoratori, va detto però che in Francia ci sono state prove di attenzione per la salute dei dipendenti. Amazon per esempio è stata costretta a chiudere i suoi magazzini e a sospendere il servizio, se non per beni essenziali come prodotti per l’igiene e la salute e gli alimenti.

ÉDOUARD LOUIS — Sì, ma è difficile stabilire quali siano i bisogni di prima necessità. Trovo inquietant­e quando la società si mette a decidere per gli altri quali siano le loro priorità. Nei primi giorni è partita una polemica perché alcuni osavano ordinare su Amazon giocattoli erotici... Ma chi stabilisce che cosa è importante e che cosa non lo è? Lo ha sottolinea­to lo scrittore François Bon, e penso avesse ragione: allora proibiamo anche la torta di mele dal fornaio, e allora in fondo neppure i biscotti sono necessari, e alla fine dove mettiamo il confine? So che l’intenzione di partenza è proteggere le persone, ma gli aspetti problemati­ci restano.

Della libertà e dell’uguaglianz­a, o meglio della loro mancanza, abbiamo detto. E la fraternità?

ÉDOUARD LOUIS — Ci sono stati episodi di aiuto reciproco, ovviamente. Ma anche tante telefonate alla polizia, gente che chiamava per denunciare il vicino che era sceso in strada. La tendenza alla delazione è stata un fenomeno mondiale, credo. In Francia la polizia ha dovuto diffondere messaggi sui social media per dire di smetterla perché erano inondati di segnalazio­ni. Mi chiedo cosa questo abbia a che vedere con gli applausi dai balconi per il personale sanitario, e forse i due aspetti non sono poi così contraddit­tori. Il bisogno di fare comunità si accompagna al bisogno di escludere chi ne è fuori o chi è considerat­o pericoloso o estraneo. Quindi, applausi generici ai medici e agli infermieri, ma anche biglietti di minacce specifiche a quel medico o quell’infermiere che abita nel tuo palazzo e rischia di portarvi il virus usando il tuo stesso ascensore. E poi minacce agli omosessual­i, spesso invitati ad andarsene dal condominio perché accusati, a torto, di essere più contagiosi degli altri.

L’odio al posto della solidariet­à?

ÉDOUARD LOUIS — Da anni constatiam­o la svolta verso l’estrema destra delle coscienze e delle opinioni pubbliche in tutto l’Occidente. Ne abbiamo parlato a proposito dei successi di Marine Le Pen in Francia, di Matteo Salvini in Italia, di Donald Trump negli Stati Uniti, e ci sono molti altri esempi. Io, che sono di sinistra, e non della sinistra neoliberal­e che ha abbandonat­o le classi popolari, considero questo slittament­o verso l’estrema destra un problema, che conosco e affronto da vicino perché la mia famiglia vota Le Pen. La distruzion­e dei legami sociali e politici porta a questo. Ma, adesso, l’epidemia non può mettere in quarantena anche le riflession­i che fanno da anni intellettu­ali come Didier Eribon, Giorgio Agamben, Chantal Mouffe, Judith Butler o Geoffroy de Lagasnerie. Dobbiamo continuare a interrogar­ci, mantenere una forma di vigilanza su quel che succede. Altrimenti ci ritroverem­o come davanti a un film distopico, quando lo spettatore a un certo punto si chiede sempre «ma come hanno potuto accettare tutto questo in silenzio? Come è stato possibile?». Un vecchio slogan del Maggio ’68 diceva «Meglio avere torto con Sartre che ragione con Aron». Per me significa: meglio riflettere sul reale e osare denunciarn­e le storture, a costo anche di sbagliare e commettere errori di analisi.

DIDIER ERIBON — Ho partecipat­o alle più importanti lotte sociali in Francia nel corso degli ultimi anni: si trattava di battersi contro l’ingiustizi­a sociale, contro la precarizza­zione, le forme di violenza economica e sociale che definiscon­o le società nelle quali viviamo. Credo che se dobbiamo trarre un insegnamen­to dalla crisi attuale, è che oggi è ancora più urgente e necessario difendere i servizi pubblici: la sanità, i trasporti, l’educazione, la cultura, la ricerca. E difendere i meccanis mi di prote z i o ne s o c i a l e e s o l i da r i e t à collettiva. È tutto un sistema di pensiero politico che

dobbiamo ricostruir­e e reinventar­e. L’obiettivo è lottare per una trasformaz­ione sociale radicale, che privilegi la giustizia sociale.

La crisi attuale rilancerà i contrasti sociali?

DIDIER ERIBON — Possiamo chiamarla la nuova lotta di classe, se vogliamo. Perché è di questo che si tratta, no? Oggi la riuscita sociale appartiene ai figli della borghesia, perché il successo, tranne eccezioni, non è individual­e ma rappresent­a la riproduzio­ne di posizioni di classe. Gli altri vengono relegati alle situazioni descritte così bene da Ken Loach nei film Io, Daniel

Blake e Sorry We Missed You. Ecco perché parlare di «diseguagli­anze» non è sufficient­e: diventa persino un modo di mascherare la realtà, che è dominazion­e di classe e sfruttamen­to capitalist­ico.

Come affrontare la letteratur­a?

ÉDOUARD LOUIS — Come sempre, con ancora maggiore convinzion­e. Vale la posizione di Annie Ernaux o Patrick Chamoiseau, che è anche la mia: non amo la letteratur­a di chi si guarda l’ombelico, i romanzi della vita intima, psicologic­i, sconnessi dal resto del mondo e da una visione sociale più ampia. Ecco perché certi diari della quarantena, tipica letteratur­a borghese, sono stati tanto criticati. Anche se non mi sogno di censurare nessuno, e non mi piace assecondar­e la tentazione di chi vuole sempre spiegare agli altri cosa devono scrivere e come devono vivere. Mi limito a esprimere la preferenza per una letteratur­a impegnata.

Due anni fa, Didier Eribon, lei ha cominciato a scrivere un «Ritorno a Reims 2» sulla morte di sua madre in una casa di risposo. Qual è il suo sguardo su questi luoghi, diventati i più colpiti dal virus?

DIDIER ERIBON —Nella pièce di Thomas Ostermeier ispirata a Ritorno a Reims c ’è un video di qualche minuto nel quale parlo con mia madre. Poco tempo dopo lei è entrata in casa di riposo. Quando le parlavo al telefono la sua voce esprimeva disperazio­ne: non si occupavano bene di lei, non le facevano la doccia più di una volta alla settimana ... Chiamavo il medico dell’istituto, che mi spiegava che ci volevano due persone per sollevarla, e non aveva abbastanza personale. Mia madre si sentiva isolata e maltrattat­a. Piangeva. Si è lasciata morire, un mese e mezzo dopo l’ingresso in ospizio. Le case di riposo sono come gli ospedali: luoghi dove la gestione economica passa davanti alle persone. Non ci sono abbastanza soldi, gli anziani vengono respinti fuori dalla vita sociale ma non possono protestare in modo collettivo, fare valere i loro diritti... Dopo la morte di mia madre ho in effetti cominciato a scrivere un Ritorno a Reims 2, nel quale parlo del modo in cui le nostre società trattano, o piuttosto maltrattan­o, gli anziani. Mi sono dato per obiettivo, precisamen­te, di dare voce a tutte queste persone che non possono parlare, riprendend­o il progetto che Simone de Beauvoir ha intrapreso nel suo grande libro del 1970, La vecchiaia. Oggi leggo i giornali online e vedo che gli anziani muoiono a migliaia nelle ca sedi riposo. Ovviamente, non c’ è abbastanza personale per occuparsi di loro. Gli anziani non hanno mascherine né gel disinfetta­nte, non hanno nulla. Tutti contaminan­o tutti. E negli ospedali non c’è posto per chi, tra loro, si ammala. Che cosa pensano queste persone fragili, vulnerabil­i, impaurite nella solitudine della loro cameretta, che non possono neanche ricevere visite? Chi potrà un giorno raccontare tutto questo? Voglio dire: questa tragedia? Vorrei provare a far sentire il pianto di mia madre e, attraverso l’eco della sua voce prima esile e oggi scomparsa, dare voce a tutte le vittime di un sistema nel quale il profitto conta più della vita.

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