Corriere della Sera - La Lettura
Solo le catastrofi riducono le disparità
«Guerre e pandemie, nel tempo, hanno spesso accorciato le diseguaglianze», sostiene lo storico Walter Scheidel. «Se l’economia collassa e non si trova un vaccino, è probabile che sarà così anche stavolta, nonostante le differenze con il passato»
Nel saggio La grande livellatrice (il Mulino, 2019), Walter Scheidel, storico dell’Università di Stanford, ha illustrato come le pandemie del passato abbiano ridotto la disparità tra le classi nel lungo periodo. Nei vent’anni successivi alla peste della metà del XIV secolo, dopo perdite catastrofiche di vite umane, la carenza di braccianti portò i salari a raddoppiare nonostante la resistenza delle élite. I registri degli esattori mostrano che in molte città italiane le disuguaglianze diminuirono e in Inghilterra i consumi dei lavoratori migliorarono molto.
Professor Scheidel, in un editoriale sul «New York Times» lei ha precisato però che l’attuale pandemia potrebbe non avere lo stesso effetto. Perché?
«Ci sono due grosse differenze: la prima è che il tasso di mortalità sarà molto più basso che durante la peste o il vaiolo, dunque ci saranno conseguenze più limitate sui numeri della forza lavoro; l’altra è che la nostra economia oggi è molto diversa, non è basata sull’agricoltura, perciò, anche con più morti, la risposta sarebbe una maggiore automazione e non necessariamente salari più alti per la classe operaia. Sono certo, però, che ci sia una somiglianza: non conta solo la demografia, ma anche come cambia la politica per effetto di una pandemia. Questo potrebbe succedere anche oggi».
Per ora i poveri sono i più colpiti in termini di morti, danni economici, accesso all’istruzione dei figli.
«Siamo nella fase acuta dell’epidemia. L’effetto livellatore si verifica quando le acque si sono calmate, e ancora non possiamo prevedere se accadrà. Nel corso di quest’anno le disuguaglianze probabilmente aumenteranno, perché i lavoratori meno protetti perderanno il posto o saranno impiegati per meno ore, si indebiteranno, i loro figli non avranno lo stesso accesso a internet e alla scuola. Non c’è dubbio che nel breve periodo i più vulnerabili soffriranno molto, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, benché dipenda anche da quando ciascun Paese riuscirà ad assorbire parte dei problemi. Il
punto è se l’accentuato malessere di una parte della società porterà a cambiare le politiche future. Io penso che dipenderà dalla gravità della crisi. Se si eviterà una nuova Grande Depressione e se gli scienziati troveranno una cura efficace entro un anno, torneremo a una sorta di ordinaria amministrazione: i ricchi recupereranno gli investimenti; gli altri dovranno affrontare conseguenze di lunga durata, perché molti posti di lavoro perduti non ritorneranno subito. Il paradosso è che, più veloce sarà la ripresa, più è probabile che si rafforzino le disuguaglianze. Se invece la crisi risulterà più grave, cioè se ci fosse un collasso dell’economia globale o la scienza non riuscisse a mettere a punto vaccini efficaci, ci sarà una più forte spinta o persino la necessità di politiche più radicali, di maggiori interventi statali nel settore privato e di protezioni per i lavoratori, il che porterà a tasse più alte, perché qualcuno dovrà pagare. Ciò potrebbe avere l’effetto di ridurre le disuguaglianze nel lungo periodo».
Perché solo crisi violente, una pandemia o una guerra mondiale, riducono le disuguaglianze?
«Durante le crisi il primo istinto è preservare l’ordine costituito e tornare allo status quo. Le misure prese ora hanno lo scopo di salvare vite, ma anche di proteggere l’economia, riducendo al minimo il cambiamento. L’obiettivo ultimo è tornare dove eravamo, anche in un certo numero di anni. Se funzionerà, le disuguaglianze esistenti non scompariranno, ma persisteranno o peggioreranno. La Grande Depressione negli anni Trenta, la Seconda guerra mondiale e la prossimità a rivoluzioni comuniste sono crisi che hanno reso impossibile mantenere le cose com’erano e necessario il cambiamento, il che ha il potenziale di ridurre le disuguaglianze, che sono resilienti in sistemi stabili e pacifici».
Interventi statali come il reddito garantito o le banche centrali che stampano denaro non proteggono di più i cittadini rispetto ai tempi della Peste nera?
«Oggi come nell’era premoderna il tipo di società in cui vivi fa la differenza. Dopo la peste, alcune élite cedettero privilegi per permettere ai braccianti di guadagnare di più; altre mantennero un fronte comune per reprimere le masse. Anche oggi ci sono Paesi più o meno inclini a ridurre le disuguaglianze: una cosa è la Danimarca; un’altra gli Stati Uniti, dove gli aiuti stanno andando soprattutto alle grandi imprese, mentre i lavoratori ricevono a stento quello che basta per sopravvivere».
Covid-19 può radicalizzare l’elettorato americano?
«Dipenderà dalla gravità della crisi. Se ci sono segnali di ripresa economica e non aumentano le infezioni, alle
elezioni presidenziali di novembre un numero significativo di persone potrebbe riconoscere al governo di aver saputo gestire l’emergenza. Altrimenti, lo scontento potrebbe portare a chiedere il cambiamento. Se le idee di Bernie Sanders, considerate un tempo radicali, sono diventate mainstream e si è cominciato a parlare di socialismo democratico, è stato anche in seguito alla crisi finanziaria del 2008. Sanders ha fallito, ma è arrivato vicino al successo. Magari, dopo la nuova crisi, più gente abbraccerà idee come le sue, specie tra i giovani colpiti duramente dalla disoccupazione. E se a novembre il voto postale favorisse l’affluenza alle urne, nonostante la resistenza dei conservatori, la pandemia potrebbe avere conseguenze significative sulle elezioni. Ma a complicare gli scenari c’è il fatto che a gestire la crisi sono soprattutto i singoli Stati degli Usa: è possibile che siano i governatori ad essere giudicati, e che la gente non rigetti il governo federale, in cui ha già poca fiducia in partenza».
In America c’è spazio per riforme come quelle del New Deal di Franklin Delano Roosevelt?
«Penso di sì. Oltre ai programmi contro la disoccupazione, con il New Deal giunsero migliori servizi sanitari. Oggi gli ospedali sono in perdita, perché devono curare i pazienti con il coronavirus anziché effettuare attività più remunerative. Il settore sanitario potrebbe avere bisogno di un salvataggio statale: a seconda di quanto durerà la crisi, potrebbe significare un ruolo maggiore del governo nel pagare per la sanità in futuro».
Un altro suo libro, uscito in inglese l’anno scorso, riguarda la caduta dell’Impero romano d’Occidente. La pandemia potrebbe determinare il declino dell’Occidente di oggi?
«Dipenderà da come le società occidentali gestiranno non solo l’emergenza sanitaria, ma anche le sue conseguenze. Sembra che l’economia cinese stia ripartendo abbastanza velocemente e se questa tendenza continua, potrà rafforzare l’attrattiva del modello del Sudest asiatico e l’idea del sistema occidentale come fragile o inefficiente al confronto. Lo capiremo nei prossimi anni».
Anche se si riducono per effetto di guerre e pandemie, le disuguaglianze ritornano nel lungo periodo. Il cambiamento, dunque, è illusorio?
«Non significa che, se fai dei cambiamenti adesso, le persone non ne trarranno beneficio per un periodo di tempo. Per la vita di un’intera generazione, dopo la Seconda guerra mondiale, ha fatto la differenza. Certo, cinquant’anni dopo le disuguaglianze sono destinate a tornare. È un regalo, non qualcosa su cui si può contare. Ma non significa che il cambiamento sia impossibile, insignificante o non valga la pena perseguirlo».