Corriere della Sera - La Lettura
La diagnosi del dottor Manzoni
Dal punto di vista della lingua e delle parole, la cosiddetta «fase due» sta per aprire un nuovo capitolo di quella che — senza timore di ricorrere a un vocabolo abusato — andrà definita senz’altro la narrazione del virus. Un racconto a più voci che si è sviluppato nel discorso pubblico secondo un percorso tutt’altro che lineare e, giorno dopo giorno, ha condizionato in maniera determinante la nostra percezione e reazione collettiva. Giunti al momento di quest’attesa svolta, si può tentare — anche alla luce dei tanti interventi che ci sono stati sul tema in Italia e all’estero — un primo bilancio.
In principio era la parola
In principio dunque, non pandemia, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche proferire il vocabolo. Info
demia, piuttosto. La parola arriva nei giornali italiani il 2 febbraio, proveniente da un comunicato dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) che denunciava i rischi di «una sovrabbondanza d’informazioni, alcune accurate alcune no». Fenomeno per cui veniva usato il vocabolo infodemic ( information + epide
mi c ) creato dal politologo David J. Rothkopf nel 2003, all’epoca della prima Sars. Come dire che il rischio era soprattutto nelle parole.
Monito condivisibile, per certi versi, che però ha avuto l’esito di sminuire drasticamente la sensazione di pericolo. Allarmismo eccessivo, solo una bolla mediatica: questo il messaggio che è passato. Anche se in realtà l’infodemia non ha mai smesso di agire fino a oggi, manifestandosi — più che nella quantità — nella contraddittorietà delle dichiarazioni rilasciate di volta in volta dalle diverse fonti medico-scientifiche e (ciò che è peggio) istituzionali. Il che vale anche per le parole d’ordine con cui la situazione è stata via via descritta e affrontata.
Il nome della cosa
Poi, focolai epidemici diffusi: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Ma non vera pandemia; vale a dire pandemia sì, ma in un certo senso; non pandemia proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. E la questione non è da poco, perché il nome influenza davvero i comportamenti delle persone. Parlare di «influenza cinese», com’è stato fatto da noi tra gennaio e febbraio, ha avuto il doppio effetto di far sembrare quella malattia abbastanza lontana e abbastanza innocua da non doversene preoccupare più di tanto. Oltre a violare le linee guida dell’Oms, che già dal 2015 consiglia di evitare nomi legati a specifiche aree geografiche (come quelli attribuiti in passato alle varie ondate d’influenza: dalla temibile spagnola del 1918, alla fi
lippina e alla stessa cinese di fine Novecento) o di specie animali (come per le recenti influenze suina e aviaria).
Il nome scelto dalla stessa organizzazione l’11 febbraio è Covid-19: sigla neutra che sembra dissolvere la malattia nella sintesi di un hashtag, retrodatando il fe
nomeno a quel primo caso di Wuhan dello scorso 31 dicembre. CO-rona VI-rus D
isease indica la malattia, essendo il virus già stato battezzato dalla Commissione internazionale per la Tassonomia dei Virus come Sars-CoV-2: sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus 2. Nella settimana che va da giovedì 20 a giovedì 27 febbraio la parola coronavirus risuona nei canali radiotelevisivi italiani una volta ogni 90 secondi. A fare breccia è soprattutto quell’immagine, dovuta alla somiglianza del virus visto al microscopio con la corona solare: somiglianza che nel 1968 suggerì il nome a un gruppo di ricercatori coordinato dal virologo Anthony Peter Waterson.
La guerra dei balconi
Finalmente, pandemia senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, quella di una guerra da combattere. La gravità della situazione suggerisce metafore come quella della peste (con i suoi untori e lazzaretti) o del terremoto (con il suo epicentro, che da noi è in Lombardia). Se all’epoca della prima Sars i giornali britannici avevano insistito soprattutto sull’idea del virus come killer, quella che adesso si afferma più di ogni altra è la metafora bellica. Di
trincea e fronte, di nemico ed eroi non si parla solo in Italia, ma dovunque il virus comincia a mietere vittime. « Nous som
mes en guerre »: siamo in guerra, dice Macron il 16 marzo rivolgendosi ai francesi e su quel concetto articola metà del suo discorso; due giorni dopo Merkel, in un discorso molto più breve, usa solo una volta la parola battaglia ( Kampf). Conte il 4 marzo aveva parlato di emergenza e mai di guerra, pur facendo appello — negli interventi successivi — a valori e simboli patriottici, come l’inno e la bandiera nazionale «per sconfiggere il nemico invisibile» (così un tweet del 17 marzo, centocinquantanovesimo anniversario dell’unità d’Italia).
Gli italiani e le italiane, in effetti, prendono a esporre il tricolore e a condividere dalle loro case alcuni momenti: applaudono, cantano, suonano, si scambiano saluti e sorrisi dalle finestre, dai balconi, dai ballatoi. La parola ballatoio viene probabilmente dal latino bellatorium, anticamente riferito a una costruzione fortificata. Quello che la gente sente di vivere, più che una guerra, è una forma condivisa di resistenza (tra le canzoni c’è
Bella ciao). Non si tratta di prendere le armi, ma di assumere nei propri comportamenti una responsabilità che riguarda il bene di tutti. L’orizzonte ideale è quello che il filosofo Aldo Masullo, scomparso il 24 aprile, dodici giorni dopo avere compiuto 97 anni, chiamava pan-patia.
Lessico poco famigliare
Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia delle idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Quello che oggi appare diverso è la dimensione globale del fenomeno. Il che spiega almeno in parte la presenza, tra le parole del virus, di molti anglicismi. Ci sono quelli internazionali co
me lockdown, usato dall’Oms e legato in origine alle misure di sicurezza che — in situazioni di emergenza — impediscono di entrare o uscire da una certa zona. Ci sono quelli mascherati come distanzia
mento sociale, rifatto su social distancing, che si riferisce al complesso delle misure di contenimento e non va confuso con la distanza interpersonale di almeno un metro necessaria per evitare le goccioline del droplet. E poi ci sono quelli inventati: come smart working, che in inglese si dice remote working o working
from home ( smart non significa telematico!) e in italiano si potrebbe tranquillamente dire telelavoro o lavoro da casa.
Ma attenzione a parlare di «parole infette» o di un virus che ha «infettato anche la lingua». Significherebbe riesumare la metafora preferita dai puristi dei secoli scorsi per denunciare la «peste dei vocaboli francesi». Tra i quali peraltro c’era anche grippe, cioè influenza: «Mia moglie esce da una grippe che le è costata due cavate di sangue, ma che è finita bene», scriveva in Manzoni una lettera del 1858. Parola così diffusa che ai primi del Novecento influenza poteva essere «creduto comunemente nome nuovo» — dice Panzini nel Dizionario moderno
— «di malattia nuova», pur essendo usato fin dal Medioevo.
Cento giorni di casalinghitudine
Questi giorni di casalinghitudine — il neologismo, bellissimo, è il titolo di un libro di Clara Sereni del 1987 — hanno cambiato in parte il nostro lessico. Nel
covidizionario, infatti, non ci sono solo parole nuove (anche scherzose come
apericall, coronababy o covidiota). Ci sono parole vecchie che tornano a vecchi significati (i virus sembravano ormai una questione informatica e la viralità un invidiabile privilegio degli influencer) o si sbilanciano verso significati diversi (le persone positive ora ci mettono paura, per la trasmissione non si fanno più tanti complimenti). La speranza è che tutto questo abbia cambiato anche il nostro rapporto con la lingua: che possa aiutarci a comprendere meglio lo sfaccettato spessore delle parole e insegnarci, magari, a trattarle con un’altra cura. Il che vale — a maggior ragione — per chi ha voce in capitolo nel dibattito pubblico: non solo i politici, ma tutti gli intervistati e gli intervistatori, tutti gli opinionisti, tutti quelli che appunto possono (o vogliono, o ambiscono a, o rischiano di) influenzare gli altri.
Sarebbe bello se l’esperienza che stiamo vivendo potesse lasciarci in eredità questa nuova consapevolezza. Si potrebbe allora — per citare un’ultima volta quel capitolo dei Promessi sposi a cui si è qui già largamente attinto — evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma — appunto — parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire.
All’inizio di tutto la parola pandemia non si poteva dire, assolutamente no:
infodemia, piuttosto. Poi sono venuti i focolai, la terminologia tecnica, quindi l’ondata delle metafore: quella bellica (con trincee ed
eroi, nemici e battaglie), quella sismica (l’epicentro...) e, ovvio, la peste dei «Promessi sposi» con i suoi untori e il
lazzaretto. Ma in fondo è l’intera cronistoria linguistica (e sociale, e psicologica) di queste settimane che nel suo romanzo il grande scrittore aveva profeticamente anticipato. Perché anche la nostra lingua va curata