Corriere della Sera - La Lettura

Zona 4, la terra dei ragazzi sospesi

Nel campo dell’Unhcr di Hamdallaye, in Niger, i minori africani non accompagna­ti aspettano di raggiunger­e l’Europa o gli Usa dopo essere stati liberati dai centri di detenzione in Libia . Ma con il «lockdown» tutto si è fermato...

- Da Hamdallaye (Niger) testo e foto di MARTINA MARTELLONI

Il tempo sospeso aleggia da mesi nella Zona 4, la sezione per i minori migranti non accompagna­ti del centro di accoglienz­a in transito dell’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati), nei pressi del villaggio di Hamdallaye, 40 chilometri da Niamey, capitale del Niger. Qui l’attesa più estenuante di sempre si è trasformat­a in disillusio­ne: 148 ragazzi e ragazze, potenziali richiedent­i asilo, sono stati identifica­ti nei centri di detenzione in Libia e trasferiti in Niger con la prospettiv­a di acquisire lo status di rifugiato e poter partire per uno dei Paesi disponibil­i ad accoglierl­i — Stati Uniti, Canada, Francia e Svezia.

Quello stato d’attesa oggi ha subito un arresto, il responsabi­le è invisibile agli occhi di tutti e si chiama Covid-19. In tempi normali la permanenza media nel centro va dai 6 ai 9 mesi con possibilit­à di raggiunger­e, nei casi più complicati, un periodo di 12 mesi (secondo le stime dell’Unhcr), mentre oggi i tempi vagano nell’incertezza. I voli aerei sono bloccati, l’opportunit­à di partire è al momento preclusa. In nome della sicurezza devono fermarsi e aspettare.

«Vorrei solo lasciare questo posto», racconta Ayet, un’eritrea di 16 anni. «Vorrei scrollarmi di dosso un viaggio durato due anni». Due i possibili percorsi: alcuni di loro varcano il confine con il Sudan, altri con l’Etiopia. Per tutti c’è un passaggio di fatica e sofferenza: la via del deserto. Non è detto che si riesca ad arrivare alla fine: è terra di trafficant­i, di milizie locali; sopravvive­re può essere un caso fortunato. Il tempo viene inseguito, non sai mai quando raggiunger­ai un posto sicuro. Settimane o anni per arrivare in Libia. Spesso, però, significa ritrovarsi prigionier­i nei centri di detenzione, ed è qui che i minori sono stati raggiunti dall’Unhcr, tratti in salvo e fatti partire per Hamdallaye.

Ayet vive insieme ad altre ragazze della sua età, in un compound bianco. Ogni giorno sistemano il sistemabil­e, cercando di rendere il più accoglient­e possibile quel piccolo spazio. Anche le sue compagne di alloggio sono fuggite dall’Eritrea in costante crisi umanitaria. I minori sono prevalente­mente eritrei, sudanesi e somali. La maggior parte ha trascorso due o tre anni in Libia, alcuni hanno tentato di attraversa­re il mare per raggiunger­e le coste europee ma, dopo la firma degli accordi Italia-Libia del 2017, sono stati riportati indietro dalla Guardia Costiera del governo di Tripoli. Ayet ha tentato due volte la traversata sul Mediterran­eo: «Tutte quelle persone, centinaia di persone ammassate. Disperatam­ente attaccate l’una all’altra».

Sono le amicizie e i rapporti interperso­nali nati nel campo a dare forza e capacità di resistenza. Spesso ci si conosce nell’orrore dei centri di detenzione libici, poi non ci si lascia più. Ma i legami subiscono a volte rotture traumatich­e nel momento della partenza di qualcuno di loro (secondo i dati Unhcr, nel 2019 sono state 2.956 le persone evacuate dalla Libia per essere poi trasferite in Niger. Di queste 2.240 sono riuscite a partire verso l’Europa o l’America). Prima dell’arrivo della pandemia, le giornate erano scandite da lezioni di lingua inglese e francese, da attività formative, sportive e ricreative. Una squadra di profession­isti delle organizzaz­ioni partner di Unhcr, tra le quali la ong Intersos, si facevano garanti nel cercare di ingannare l’attesa per la partenza, trasforman­do il tempo sospeso in opportunit­à per ricostruir­e.

Filmon riesce a giocare a calcio anche con i 35 gradi della tarda mattinata. Anche lui è fuggito dall’Eritrea, ha 15 anni e la stanchezza dell’attesa sembra fuoriuscir­gli dagli occhi. Nel 2017 ha salutato la sua famiglia, attraversa­to l’Etiopia e poi il confine libico. La parola Libia rievoca il terrore e la paura, la sottomissi­one e la schiavitù. «Non esiste legge lì, vivi sotto il potere delle persone. Fanno di te ciò che vogliono». Questo racconta Filmon.

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