Corriere della Sera - La Lettura
Tanta passione fa male Evviva la politica fredda
Un dibattito pubblico carico di emotività, con appelli identitari a base di odio e di amore, sta avvelenando sempre più le nostre democrazie. Ormai i programmi e le ideologie dei partiti non contano quasi nulla rispetto a sentimenti di natura quasi tribale. Bisogna ritrovare il senso del rispetto verso l’avversario anche se non ci è simpatico: non c’è sbaglio peggiore che ignorare la pluralità concreta e irriducibile del pensiero umano
Èdurata solo qualche settimana l’illusione che il corso recente della politica potesse cambiare grazie all’emergenza di Covid-19. Il «ci renderà migliori» sembra essere già tramontato prima di apportare cambiamenti di sorta. Non ci siamo sentiti più uniti, nel nome di un interesse comune, né abbiamo moderato linguaggi pieni di conflittualità; anzi il vecchio modo di intendere la politica come sistematica demonizzazione dell’avversario è tornato a farsi sentire con forza. Politici governativi che si scagliano contro politici regionali e viceversa. Sarcasmo sui social, se a prendere il virus è il leader X, che detestiamo, frustrazione se è il leader Y, nostro beniamino. L’elenco potrebbe continuare. Ci dovremmo indignare? Probabilmente. Stupirci? Ormai no.
Viviamo infatti immersi nell’epoca della partisanship
(un misto tra partigianeria e faziosità): essere di parte, oggi, si basa su un pregiudizio emotivo e quasi ancestrale verso la controparte politica, piuttosto che sui tradizionali fattori ideologici che hanno contraddistinto la politica del secolo scorso. Insomma, non ci si piace, fino al punto di arrivare a odiarsi, non perché si perseguano obiettivi politici differenti ma perché ci si percepisce in quanto appartenenti a identità diverse.
Alcuni dati significativi. Negli Stati Uniti, se all’epoca di George Bush (padre) in media un elettore repubblicano aveva un’opinione non entusiasta, ma almeno indulgente, nei confronti della controparte democratica (con un valore intorno a 50 su un termometro di «vicinanza» che andava da 100, il massimo, a zero, il minimo), e lo stesso poteva dirsi per i democratici, all’epoca del secondo mandato di Barack Obama il dato scende a poco più di 20. Un’avversione che esorbita e permea anche i giudizi relativi alle vite private degli individui: negli anni Sessanta meno del 10 per cento degli americani si sarebbe sentito «triste» se il proprio figlio o figlia si fosse sposato con un elettore di un partito diverso, laddove 50 anni dopo il dato sfiora il 50 per cento. Gli stessi indici di «faziosità» permangono anche quando si tratta di assumere qualcuno o di promuoverlo. Insomma, lo slogan liberale «non andare dove ti porta il cuore» sembra ormai solo un ricordo.
A tal punto da spingere Cass Sunstein, giurista di Harvard, a coniare il termine partyism, un neologismo che esplicita le somiglianze tra l’animosità di parte tipica della partisanship e il racism (razzismo). Al centro di questo fenomeno, piuttosto che un crescente amore per i propri «simili», politicamente parlando, è soprattutto la crescita dell’avversione per l’altro a risultare fondamentale. E infatti il fenomeno del «voto negativo», di chi celebra quando la squadra avversaria perde, e non quando la propria vince, sta aumentando in maniera esponenziale.
Insomma, sembra che, di fronte alla persistente necessità di sentirsi parte di identità collettive, le grandi narrazioni ideologiche del passato siano state sostituite da un pericoloso cocktail di emotività mista ad animosità. Con la conseguente creazione di due ordini di problemi inediti: quando a dividerci non sono questioni di programmi politici, ma la sensazione di appartenere a due tribù opposte, qualunque proposta proveniente dal campo politico avversario — per effetto dell’argumen
tum ex auctoritate — è rifiutata tout court essendo percepita entro un gioco a somma zero. In secondo luogo, è stato dimostrato che sono i governi moderati quelli che rendono, a parità di altre condizioni, i propri cittadini più soddisfatti sul funzionamento della democrazia. In un mondo in cui i programmi contano sempre meno rispetto all’appartenenza «tribale», e chi va al governo rappresenta una fazione contro l’altra, la moderazione diventa però una mera chimera. Un’accentuata polarizzazione «emotiva» può infatti rendere ciechi nel valutare il radicalismo ideologico del proprio partito o del proprio leader, dato che l’unica cosa che davvero conta, dopotutto, è il suo essere, con efficacia, contro (gli altri).
Come uscire dall’impasse? Innanzitutto, identificando i fattori all’origine di questa nuova polarizzazione. Da un lato giocano un ruolo cruciale la personalizzazione della politica e il clima permanente di campagna elettorale (alimentate dai mass media dedicati alla politica 24 ore su 24) fondato su attacchi sistematici al partito avversario. Tutto ciò rafforza sia un senso di appartenenza
entro un gruppo che l’animosità tra gruppi. L’ostilità della retorica nelle élite (vecchie e nuove) e quella della popolazione si rafforzano a vicenda, creando un dibattito pubblico sempre più aggressivo, in cui chi ha idee diverse è percepito come un nemico così come lo definiva il giurista e politologo tedesco Carl Schmitt, ovvero «qualcosa d’altro e di straniero». Per un altro, e forse più importante verso, a esacerbare ulteriormente la polarizzazione di gruppo c’è la crescita di bolle di opinione (o «camere dell’eco») in cui sempre più i cittadini decidono di isolarsi, e non solo online.
In questo (desolante) quadro, la sfida è ritrovare un nuovo modello di umanità, che porti a ripensare lo spazio pubblico e politico come spazio di indipendenza di pensiero, innanzitutto, dove agiscano princìpi, non sentimenti. Uno spazio basato sulla nozione di rispetto dell’avversario. Odio e amore sono caldi, il rispetto è freddo. Una freddezza che diventa un vantaggio. Perché chi è ispirato dal rispetto per l’avversario non sarà travolto e dominato dalle emozioni e riuscirà a tenere conto di
chiunque. Non è infatti necessario provare simpatia per qualcuno per rispettarlo e per sfidarsi sul piano delle idee. Anche nello spazio della politica, bisogna dunque tornare — secondo la lezione di Immanuel Kant — a pensare da sé.
Insomma, l’umanità che ci serve, che rischiamo di avere smarrito proprio quando non dovremmo, alla quale non possiamo più rinunciare, non deriva dalla condivisione di un sentire, ma è soprattutto antagonismo politico autentico, discorso concepito nei termini di una ragionevole mediazione e non di una immediatezza da tweet. Privarsi del pensiero dialogico — fosse anche polemico o agonale — significa privarsi di relazioni, dunque — sostiene Hannah Arendt — di «mondo». L’equivalente di una trasferta nel deserto.
Essere di parte per davvero, dunque, significa rifiutarsi di ignorare l’irriducibile ma reale pluralità della condizione umana. La politica non è questione di amore, di odio, di amico, o nemico, pena l’anarchia. Non è nemmeno questione di ragione, Machiavelli docet: la politica, anche e soprattutto quella comunicativa, è questione di giudizio e di responsabilità verso il mondo, e si fonda non tanto su una impolitica fraternité, quanto su una friendship politica umana, terrena, indipendente, e sempre disposta a prendere sul serio l’indipendenza di un’opinione — fosse anche la più maleducata — o il rispetto dei singoli.
Una friendship che non pretende necessariamente ravvicinamenti, né ha bisogno del calore o della simpatia per sussistere. Una relazione nella distanza: metafora che, in tempi in cui mantenere le distanze (fisiche) è diventato quasi un obbligo, deve diventare il nostro New Deal.