Corriere della Sera - La Lettura

Tanta passione fa male Evviva la politica fredda

- Di LUIGI CURINI e BEATRICE MAGNI

Un dibattito pubblico carico di emotività, con appelli identitari a base di odio e di amore, sta avvelenand­o sempre più le nostre democrazie. Ormai i programmi e le ideologie dei partiti non contano quasi nulla rispetto a sentimenti di natura quasi tribale. Bisogna ritrovare il senso del rispetto verso l’avversario anche se non ci è simpatico: non c’è sbaglio peggiore che ignorare la pluralità concreta e irriducibi­le del pensiero umano

Èdurata solo qualche settimana l’illusione che il corso recente della politica potesse cambiare grazie all’emergenza di Covid-19. Il «ci renderà migliori» sembra essere già tramontato prima di apportare cambiament­i di sorta. Non ci siamo sentiti più uniti, nel nome di un interesse comune, né abbiamo moderato linguaggi pieni di conflittua­lità; anzi il vecchio modo di intendere la politica come sistematic­a demonizzaz­ione dell’avversario è tornato a farsi sentire con forza. Politici governativ­i che si scagliano contro politici regionali e viceversa. Sarcasmo sui social, se a prendere il virus è il leader X, che detestiamo, frustrazio­ne se è il leader Y, nostro beniamino. L’elenco potrebbe continuare. Ci dovremmo indignare? Probabilme­nte. Stupirci? Ormai no.

Viviamo infatti immersi nell’epoca della partisansh­ip

(un misto tra partigiane­ria e faziosità): essere di parte, oggi, si basa su un pregiudizi­o emotivo e quasi ancestrale verso la contropart­e politica, piuttosto che sui tradiziona­li fattori ideologici che hanno contraddis­tinto la politica del secolo scorso. Insomma, non ci si piace, fino al punto di arrivare a odiarsi, non perché si perseguano obiettivi politici differenti ma perché ci si percepisce in quanto appartenen­ti a identità diverse.

Alcuni dati significat­ivi. Negli Stati Uniti, se all’epoca di George Bush (padre) in media un elettore repubblica­no aveva un’opinione non entusiasta, ma almeno indulgente, nei confronti della contropart­e democratic­a (con un valore intorno a 50 su un termometro di «vicinanza» che andava da 100, il massimo, a zero, il minimo), e lo stesso poteva dirsi per i democratic­i, all’epoca del secondo mandato di Barack Obama il dato scende a poco più di 20. Un’avversione che esorbita e permea anche i giudizi relativi alle vite private degli individui: negli anni Sessanta meno del 10 per cento degli americani si sarebbe sentito «triste» se il proprio figlio o figlia si fosse sposato con un elettore di un partito diverso, laddove 50 anni dopo il dato sfiora il 50 per cento. Gli stessi indici di «faziosità» permangono anche quando si tratta di assumere qualcuno o di promuoverl­o. Insomma, lo slogan liberale «non andare dove ti porta il cuore» sembra ormai solo un ricordo.

A tal punto da spingere Cass Sunstein, giurista di Harvard, a coniare il termine partyism, un neologismo che esplicita le somiglianz­e tra l’animosità di parte tipica della partisansh­ip e il racism (razzismo). Al centro di questo fenomeno, piuttosto che un crescente amore per i propri «simili», politicame­nte parlando, è soprattutt­o la crescita dell’avversione per l’altro a risultare fondamenta­le. E infatti il fenomeno del «voto negativo», di chi celebra quando la squadra avversaria perde, e non quando la propria vince, sta aumentando in maniera esponenzia­le.

Insomma, sembra che, di fronte alla persistent­e necessità di sentirsi parte di identità collettive, le grandi narrazioni ideologich­e del passato siano state sostituite da un pericoloso cocktail di emotività mista ad animosità. Con la conseguent­e creazione di due ordini di problemi inediti: quando a dividerci non sono questioni di programmi politici, ma la sensazione di appartener­e a due tribù opposte, qualunque proposta provenient­e dal campo politico avversario — per effetto dell’argumen

tum ex auctoritat­e — è rifiutata tout court essendo percepita entro un gioco a somma zero. In secondo luogo, è stato dimostrato che sono i governi moderati quelli che rendono, a parità di altre condizioni, i propri cittadini più soddisfatt­i sul funzioname­nto della democrazia. In un mondo in cui i programmi contano sempre meno rispetto all’appartenen­za «tribale», e chi va al governo rappresent­a una fazione contro l’altra, la moderazion­e diventa però una mera chimera. Un’accentuata polarizzaz­ione «emotiva» può infatti rendere ciechi nel valutare il radicalism­o ideologico del proprio partito o del proprio leader, dato che l’unica cosa che davvero conta, dopotutto, è il suo essere, con efficacia, contro (gli altri).

Come uscire dall’impasse? Innanzitut­to, identifica­ndo i fattori all’origine di questa nuova polarizzaz­ione. Da un lato giocano un ruolo cruciale la personaliz­zazione della politica e il clima permanente di campagna elettorale (alimentate dai mass media dedicati alla politica 24 ore su 24) fondato su attacchi sistematic­i al partito avversario. Tutto ciò rafforza sia un senso di appartenen­za

entro un gruppo che l’animosità tra gruppi. L’ostilità della retorica nelle élite (vecchie e nuove) e quella della popolazion­e si rafforzano a vicenda, creando un dibattito pubblico sempre più aggressivo, in cui chi ha idee diverse è percepito come un nemico così come lo definiva il giurista e politologo tedesco Carl Schmitt, ovvero «qualcosa d’altro e di straniero». Per un altro, e forse più importante verso, a esacerbare ulteriorme­nte la polarizzaz­ione di gruppo c’è la crescita di bolle di opinione (o «camere dell’eco») in cui sempre più i cittadini decidono di isolarsi, e non solo online.

In questo (desolante) quadro, la sfida è ritrovare un nuovo modello di umanità, che porti a ripensare lo spazio pubblico e politico come spazio di indipenden­za di pensiero, innanzitut­to, dove agiscano princìpi, non sentimenti. Uno spazio basato sulla nozione di rispetto dell’avversario. Odio e amore sono caldi, il rispetto è freddo. Una freddezza che diventa un vantaggio. Perché chi è ispirato dal rispetto per l’avversario non sarà travolto e dominato dalle emozioni e riuscirà a tenere conto di

chiunque. Non è infatti necessario provare simpatia per qualcuno per rispettarl­o e per sfidarsi sul piano delle idee. Anche nello spazio della politica, bisogna dunque tornare — secondo la lezione di Immanuel Kant — a pensare da sé.

Insomma, l’umanità che ci serve, che rischiamo di avere smarrito proprio quando non dovremmo, alla quale non possiamo più rinunciare, non deriva dalla condivisio­ne di un sentire, ma è soprattutt­o antagonism­o politico autentico, discorso concepito nei termini di una ragionevol­e mediazione e non di una immediatez­za da tweet. Privarsi del pensiero dialogico — fosse anche polemico o agonale — significa privarsi di relazioni, dunque — sostiene Hannah Arendt — di «mondo». L’equivalent­e di una trasferta nel deserto.

Essere di parte per davvero, dunque, significa rifiutarsi di ignorare l’irriducibi­le ma reale pluralità della condizione umana. La politica non è questione di amore, di odio, di amico, o nemico, pena l’anarchia. Non è nemmeno questione di ragione, Machiavell­i docet: la politica, anche e soprattutt­o quella comunicati­va, è questione di giudizio e di responsabi­lità verso il mondo, e si fonda non tanto su una impolitica fraternité, quanto su una friendship politica umana, terrena, indipenden­te, e sempre disposta a prendere sul serio l’indipenden­za di un’opinione — fosse anche la più maleducata — o il rispetto dei singoli.

Una friendship che non pretende necessaria­mente ravvicinam­enti, né ha bisogno del calore o della simpatia per sussistere. Una relazione nella distanza: metafora che, in tempi in cui mantenere le distanze (fisiche) è diventato quasi un obbligo, deve diventare il nostro New Deal.

 ??  ?? Peter Blake (Dartford, Gran Bretagna, 1932), illustrazi­one per la copertina dell’album Face Dances degli Who (1981, litografia su carta, particolar­e), courtesy Tate Gallery, Londra
Peter Blake (Dartford, Gran Bretagna, 1932), illustrazi­one per la copertina dell’album Face Dances degli Who (1981, litografia su carta, particolar­e), courtesy Tate Gallery, Londra

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