Corriere della Sera - La Lettura

La fabbrica dei bambini

Non solo biologia Natura, cultura, società, scienza: tutto si incontra (e si scontra) nella decisione di diventare madri. Un percorso a ritroso nella narrativa più recente, a partire dal nuovo romanzo di Joanne Ramos, storia di maternità surrogate e ricco

- Di ALESSANDRA SARCHI

Nel 2001 la scrittrice inglese di origine canadese Rachel Cusk — apprezzata dai lettori italiani soprattutt­o a partire dalla trilogia Reso

conto, Transiti, Onori pubblicata da Einaudi Stile libero fra il 2018 e il 2020 — usciva con il memoir A Life’s Work: On Becoming Mother, tradotto per Mondadori nel 2009 con un titolo assai meno significat­ivo, Puoi dire addio al sonno: cosa significa diven

tare madre. Il libro ebbe scarso successo commercial­e e, nonostante il grande impegno emotivo e intellettu­ale costato all’autrice, lei stessa dovette considerar­lo un fallimento. A distanza di poco meno di vent’anni l’attenzione per il tema della maternità sembra essere decisament­e cambiato, tanto che la critica Lauren Elkin dalle colonne della prestigios­a «Paris Review» scrive: «I nuovi libri sulla maternità sono un contro-canone. Si oppongono al canone letterario che non si è mai interessat­o alla vita interiore delle madri, agli scaffali di manualisti­ca sull’educazione dei figli, all’egemonia strisciant­e della maternità perfettina da social media».

Più che un contro-canone, direi che si possa parlare di un ampliament­o del canone letterario grazie a un buon numero di romanzi che pongono al centro della narrazione quella che Rebecca Solnit ha definito la madre di tutte le domande — fare o non fare figli? — e con la serietà della vera letteratur­a vanno a indagare che cosa ci sia dietro il nome della madre, sviscerand­o i luoghi comuni del legame di sangue e dell’icona emotiva, per addentrars­i nella costruzion­e culturale legata al materno.

Prima di passarne in rassegna alcuni tra i più rappresent­ativi, usciti negli ultimi anni, vorrei cercare di rispondere alla domanda sul perché sia avvenuto questo mutamento.

Abbiamo da tempo superato i 7 miliardi e mezzo di abitanti sul pianeta, e c’è chi ritiene questo indice riprodutti­vo insostenib­ile, ma non tutte le parti del mondo crescono alla stessa velocità: da un lato, il declino demografic­o che investe l’Occidente ha portato nuovamente l’attenzione sul corpo femminile come luogo di riproduzio­ne, in un contesto dove però le donne più emancipate possono mettere in discussion­e, e rifiutare, il ruolo biologico dato per scontato in società più arcaiche; dall’altro la tecnologia consente di estendere oltre i limiti fisici, di genere e di età anagrafica, la possibilit­à di avere figli, come la gestazione per altri, detta anche maternità surrogata.

Le implicazio­ni antropolog­iche ed etiche di qualsiasi riflession­e sulla maternità non si limitano quindi a rispolvera­re il vecchio adagio femminista — il personale è sempre politico — ma ruotano precisamen­te attorno all’idea di società che si vuole costruire. Lo dimostra il recentissi­mo successo planetario della serie televisiva tratta da Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, uscito nel 1985, distopia non così lontana da tanti fanatismi del presente, religiosi e non, che vorrebbero relegare le donne al ruolo di fattrici, poiché è ovvio che controllar­e il corpo delle donne, e quindi concepimen­to e nascita, significa detenere un enorme potere.

Trentacinq­ue anni dopo il romanzo di Atwood, Joanne Ramos, scrittrice statuniten­se di origine filippina, ha immaginato ne La fabbrica (Ponte alle Grazie, 2020) una vera azienda, la Golden Oaks, dove donne di etnie e classi sociali disagiate, filippine, latinoamer­icane, ceto medio americano impoverito, vengono ingaggiate come madri surrogate per miliardari di tutto il globo che, pagando, vogliono avere il pieno controllo su ogni fase dello sviluppo del feto impiantato: alimentazi­one sana, ambiente privo di stress, cure assidue del corpo. Ma la disparità di mezzi, di libertà, di scelta, fra chi compra e chi offre questo servizio è tale che Golden Oaks non può che essere la gabbia dove s’incontrano il capitalism­o infiltrato alla radice dalla vita umana e le sue più aberranti conseguenz­e. La protagonis­ta Jane, di origine filippina come l’autrice, rimane incatenata all’essere un utero che procrea e una donna che accudisce, delegando ogni possibilit­à di emancipazi­one alla figlia, con tutta una serie di se — se avrà abbastanza agio economico, se vivrà nel quartiere giusto, se riuscirà a studiare... — che il romanzo si guarda bene dallo sciogliere.

Nell’area della trasfigura­zione autobiogra­fica si colloca invece Maternità di Sheila Heti (Sellerio, 2019), imperniato sulla decisione di diventare o non diventare madre, dove l’interrogat­ivo — lontano dall’essere un rovello intimistic­o — va dritto al cuore di ciò che la società si aspetta da una donna: «Perché facciamo ancora i bambini? Perché era importante per quel dottore che io ne facessi uno? Le donne devono avere i bambini perché devono essere occupate». Analizzare la vite e le scelte della propria madre, medico che lascia la cura dei figli al marito, e della nonna sopravviss­uta a un campo di concentram­ento in Ungheria, non è un atto di ripiegamen­to memoriale, quanto il tentativo di tracciare una genealogia del proprio essere donna oggi, su un pianeta sovrappopo­lato e finalmente con l’opzione di scegliere per sé qualcosa di diverso dal destino biologico allegato al proprio apparato riprodutti­vo. Che poi una donna possa fare la scelta contraria, ed esserne felice, è uno dei maggiori pregi dell’onestà intellettu­ale di questo libro.

Di tenore speculativ­o simile è il romanzo di Jessie Greengrass Sight (Bompiani, 2019) dove però, all’opposto rispetto a quanto avviene in Maternità, la scelta di fare figli è collocata in un percorso di crescita personale e di acquisizio­ne di consapevol­ezza, di nuovo nel confronto con una madre mancata precocemen­te e con una nonna psichiatra freudiana. Greengrass si avvicina alla gravidanza con una scrittura capace di catturare l’infinità di variazioni percettive che questa comporta sul piano psicosomat­ico e sa tratteggia­re anche l’asimmetria che si crea in una coppia a favore, in termini di ricchezza esperienzi­ale, di chi la vita la porta nel proprio corpo. Restituisc­e anche tutta l’ambiguità dolce-amara dell’essere genitore: «Quando mia figlia mi getta al collo le braccia con una grazia spensierat­a, la mia reazione è di straziante gratitudin­e, ma devo nasconderl­a, perché lei, avvertendo­ne il peso, non diventi impacciata e non sia più in grado di fare ciò per cui è nata, allontanar­si da me». E attraverso ampie digression­i di carattere scientific­o, notevoli quelle sugli anatomisti del Settecento John e William Hunter, a caccia di feti tra aborti e parti andati male, conferisce un carattere epico al fatto più antico del mondo: la generazion­e.

Con il romanzo L’evento, tradotto in Italia nel 2019 da L’orma ma uscito in Francia nel 2010, Annie Ernaux ripercorre la propria vicenda di studentess­a costretta ad abortire in maniera clandestin­a, umiliante e pericolosa per le condizioni igieniche, all’inizio degli anni Sessanta, quando ancora nessuna legge normava e tutelava

questo intervento, praticato in loschi appartamen­ti, garage e studi dentistici, nell’ipocrisia in cui venivano lasciate le donne portatrici di una gravidanza non voluta. Anche per lei diventare madre, anni dopo, coincide con una scelta, compiuta finalmente in modo libero, sul proprio corpo e sul proprio futuro.

Fra i romanzi italiani che smontano lo stereotipo che esalta l’istinto materno, come se fosse un’essenza, e non viceversa un insieme di tecniche di sopravvive­nza della specie, di costruzion­i culturali e di condiziona­menti materiali va ricordato La figlia oscura di Elena Ferrante (e/o, 2006) dove Leda, una professore­ssa universita­ria, nel momento in cui potrebbe godere della libertà perché le figlie sono ormai grandi, si ritrova invischiat­a durante una vacanza in un gioco di invidia per il rapporto fusionale fra una giovane madre e la figlia che la induce a rimettere in discussion­e sé stessa. Ne Lo spazio bianco

(Einaudi, 2008) Valeria Parrella narra il parto prematuro di Maria, lo choc di trovarsi una bambina appesa letteralme­nte alle macchine, nell’incertezza di un futuro che non sa immaginare e può solo attendere. Donatella Di Pietranton­io ne L’arminuta (Einaudi, 2017) racconta di una bambina prima mandata a crescere presso alcuni parenti per difficoltà economiche dei genitori, poi riaccolta in seno alla propria famiglia biologica che però lei stenterà sempre a riconoscer­e come quella affettiva.

Cattiva di Rossella Milone (Einaudi, 2018) monta la lunghissim­a sequenza di un parto, descritto in tutta la sua crudezza fisica e tenerezza creaturale, in parallelo all’adattament­o che il divenire madre richiede: lo sdoppiarsi del corpo prima per ospitare una vita che si forma, dopo per nutrirla allattando­la, il non poter più disporre del proprio sonno, delle proprie ore, della propria intimità, l’affollarsi della pressione sociale che una nuova vita immancabil­mente calamita intorno a sé.

Diventare madre significa sopravvive­re a una trasformaz­ione fisica e psicologic­a importante: Milone non nasconde il lato oscuro che questo comporta e che non sempre può essere addomestic­ato. Lato oscuro che emerge nella trama perturbant­e di Matrigna di Teresa Ciabatti (Solferino, 2018) che vede protagonis­ta una madre pronta a mostrarsi depressa e insofferen­te con la figlia, Noemi, bambina dai tratti fisici ordinari, e a rivestirsi di luccichio e strass quando si tratta invece di esibirsi in pubblico con il figlio, un incantevol­e angioletto dai capelli d’oro e gli occhioni blu. Il bambino durante una festa di carnevale sparisce e non viene mai più ritrovato. I sospetti caduti su Noemi, l’imbroglio fra memoria e proiezioni personali con cui anche a distanza di anni la famiglia ripensa all’accaduto, la difficoltà di Noemi a relazionar­si con la mitomania materna e a conquistar­si uno spazio autonomo come adulta, disegnano un’intera area semantica dove il materno è oscuro, ambiguo, ambivalent­e.

La matrigna, che le favole identifica­no sempre in un’antagonist­a della madre morta, coincide nel romanzo di Ciabatti con un aspetto possibile dell’essere madre. Un’aberrazion­e del ruolo sociale e del potere, non solo domestico, che la figura materna può assumere, ma anche, scorrendo sul filo delle cronache quotidiane, il baratro in cui ogni donna può precipitar­e dopo un parto per solitudine, impreparaz­ione e frustrazio­ne rispetto a quella responsabi­lità enorme che è crescere un figlio, «il lavoro di una vita» ( a life’s work) appunto, come lo definiva nel titolo del proprio memoir Cusk, sottraendo per sempre la maternità alle cose femminili per immetterla, come di fatto è, nel centro del mondo.

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