Corriere della Sera - La Lettura
Sei ritornato, piccolo grande Lauzi
In un volume l’intera produzione in versi del cantautore che conquistò il successo anche grazie al legame con Genova (ma c’è pure molta Lombardia in lui). Ironia, amarezza e lo stesso talento che ne fece un paroliere apprezzato
Una poetica fondata sul recupero di antichi equilibri frantumati: necessità di ricostruire un o rdi to musica l e ni t i do, compattezza delle strutture metriche tradizionali, scelta di utilizzare un lessico quotidiano discorsivo, non scevro di neologismi. Con uno sguardo cinematografico su cose e protagonisti minimi teso a interpretare l’enigma dell’esistenza con schietta, amara ironia. Sono temi ricorrenti nelle liriche di Bruno Lauzi, proposte ora dall’opera omnia Ricomporre armonie (Poesie 1992-2006), a cura di Francesco De Nicola. Il volume raggruppa in ordine cronologico le raccolte Mari interni (Crocetti, 1994), Riapprodi (Rangoni, 1996), Versi facili (1999) ed Esercizi di sguardo (2002) uscite entrambe con Edizioni Marittime, per chiudere con la postuma Agli immobili cieli (Pincopallo, 2010) e in appendice la versione manoscritta di Poesie contromano.
Come un minatore, un palombaro oppure un bambino curioso e sempre stupefatto, Lauzi si cala nei segreti anfratti dell’interiorità umana, nascondiglio dei sentimenti più autentici e inconsci, là ove l’io poetante vive controvento. Scende per risalire e partire nuovamente. I paesaggi cantati rispecchiano la sua biografia. Nato l’8 agosto 1937 ad Asmara, nell’Eritrea italiana, figlio di Francesco e di Laura Nahum, ebrea costretta per sposarsi a farsi cristiana, con la famiglia si trasferì a Genova alla fine del conflitto mondiale. La geografia poetica di Lauzi è quadripartita: la Liguria intera che «s’inturchina», sua adorata sposa, anche se restò stabilmente a Genova solo una quindicina d’anni; Varese, il lago Maggiore e l’intenso rapporto con lo scrittore Piero Chiara; le colline astigiane e Rocchetta Tanaro, di cui era cittadino onorario poiché da viticoltore produceva lì con la moglie Giovanna Coprani una piacevolissima barbera; Milano e la sua casa rifugio a Peschiera Borromeo, dove morì il 24 ottobre 2006.
In ogni caso nei suoi versi la memoria ritorna spesso agli anni dell’adolescenza e di formazione trascorsi a Genova con gli amici Luigi Tenco, Gino Paoli, Oscar Prudente e Umberto Bindi. Tutto allora profuma di ligustri, glicini, parietarie, dorsi di balene, paranze, macaia, risacca, baluginìo di lampare, scogliere e mareggiate. Colpiscono fragili figure evocate con cinica dolcezza crepuscolare velata di melanconia quali il barzellettiere tronfio, la cubista muta, il tuffatore che si dimenticò di respirare, l’astronomo claustrofobico. Lauzi gioca con sarcasmo sul senso della vita e il suo fluire, alternandolo alla costante beffarda autoderisione per la bassa statura, la voglia di stare ancora col naso al finestrino del treno da anziano adolescente, la mano «farfalla» impallinata dal morbo di Parkinson, che lo colpì dal 2000 fino alla morte.
Un artista controcorrente, pronto a schierarsi a favore di quei padri separati, a cui viene precluso il contatto dei figli con palesi falsità, nella poesia Redde rationem. Dinanzi alla sua ritrosia nell’esplicitare l’ars poetica risultarono determinanti gli incontri con Nicola Crocetti, che lo spronò a scrivere e pubblicò la prima raccolta, e con Francesco De Nicola, docente di Letteratura italiana contemporanea a Genova, che divenne l’amico destinatario al quale Lauzi inviava ininterrottamente le proprie liriche.
In realtà la sua vita fu un continuo misurarsi con la parola e i versi. Da ragazzo al liceo «Andrea D’Oria» di Genova fu costretto a un esercizio educativo da Adriano Gimorri, il professore di Lettere: tradurre prima in prosa il De bello gallico di Cesare e poi costruirne la versione in endecasillabi. Per non parlare dei testi come paroliere di successo: Il poeta, Ritornerai, L’appuntamento per Ornella Vanoni, Piccolo uomo e Almeno tu nell’universo per Mia Martini. Tra i poeti, che lo influenzarono di più, possiamo rintracciare Leopardi, Pascoli, Carducci, d’Annunzio, Baudelaire e gli amatissimi Roccatagliata Ceccardi, Sbarbaro, Caproni.
Se finalmente oggi buona parte della critica è concorde nel delineare Camillo Sbarbaro quale padre dell’inizio letterario italico del secolo scorso, a ragione calza a pennello la definizione per Lauzi di un piccolo (di altezza corporale) grande poeta di fine Novecento. Potesse leggere questa puntualizzazione critica, non per finta modestia si metterebbe a sbraggià, andrebbe su tutte le furie. Macché grande! Altro che poeta! Tanto che nei suoi versi si descrive «ben poca cosa», perché «dentro, son come sono/ di presenza/… E in quanto a intelligenza,/ fin troppo spesso brilla./ Per assenza».