Corriere della Sera - La Lettura
Qui le domande le faccio io
Il tema dell’interrogare, e dell’invocare, domina la nuova raccolta di Anna Maria Carpi
Il nuovo libro di Anna Maria Carpi ha nel titolo il verbo «chiedere»: non più «parlare», come nella raccolta complessiva delle sue poesie dal 1990 al 2015 ( E io che intanto parlo, 2016), ma, appunto, un verbo d’interrogazione. Tuttavia la domanda sembra non trovare un interlocutore, se non sognato, cercato, implorato. Il titolo suona infatti E non si sa a chi chiedere (Marcos y Marcos) e sigilla una raccolta che fa compiere alla scrittura dell’autrice un ulteriore scatto in avanti.
Il corpo delle poesie è tutto interrogativo o se si preferisce è tutto una richiesta. Ogni piccola briciola dell’essere — perché la parola dell’autrice è quotidiana, è immersa nel trantran dei giorni — si domanda il suo senso, il suo posto, lo cerca e non lo trova, eppure non dispera, continua, si riaccende attorno alla domanda. I cari che se ne sono andati, gli animali amati come creature, quasi come persone, le loro sepolture, le ore del giorno (specie la sera e la notte), la casa e i vicini, i riti dell’anno, le stagioni: tutto il carillon dell’esistere suona e risuona con il suo dolceamaro e dolente andare a vuoto. Ma davvero a vuoto, invano? Oppure c’è un grembo più grande, che accoglie anche chi non ne sa nulla, anche chi crede e insieme non crede, chi nemmeno sa o ricorda di cercare? È tutto un inseguirsi di interrogazioni sotto traccia, racchiuse nella trama del tempo con i suoi soprassalti e la sua nenia uguale.
«Invocare, e se fosse/ questo la poesia?», si sorprende a un certo punto a scrivere l’autrice. Perché il chiedere della parola non è per avere, ma per essere: per scoprire il cielo ancora come possibile dimora di Dio. Piccoli apologhi, quelli di Carpi, di una comunità di cuori intelligenti e vigili, che non sanno e però non dimenticano: «Uno perché ha studiato i russi,/ uno perché le donne lo abbandonano,/ poi la mamma di un figlio scombinato,/ poi una donna che ha paura di tutto,/ poi vengo io. Per così dire:/ cercatori di Dio./ E mai che se ne parli. Non osiamo». È un’ipotesi o forse un desiderio: abbandonarsi nelle braccia di Lui, il grande Assente, che sussurra nella notte dell’anima: «“Non mentite: o la polvere/ o l’abbraccio divino”».
Non c’è risposta, appunto, ma l’ininterrotto sollevarsi di un’idea o richiesta di compagnia, che può all’improvviso scartare dalla semplice creatura al volto di Dio. La poesia, suggerisce Carpi, è forse in questo trapassare impercettibile, nel confondere il noto e il familiare con l’Ospite sconosciuto (e può essere anche il povero, il rifugiato che bussa alla nostra porta). E così vari testi parlano del mistero della poesia, si interrogano su che cos’è e su come si pratica, in tempi tanto poveri, quest’arte minima e bruciante. Nella genealogia di Carpi entrano Umberto Saba e la sua sincerità, ma anche i prediletti poeti di lingua tedesca (Rainer Maria Rilke, Gottfried Benn), come a congiungere levità e gravità. Che è poi il segreto di questa scrittura: «Io non so abitare/ che la giovinezza/ io nello zaino ho solo la speranza».