Corriere della Sera - La Lettura

Gli assassini dell’haiku In Giappone tocca a loro

I testi di 22 autori del secondo dopoguerra (fino al nostro presente) danno conto di un radicale ma fecondo strappo rispetto alla tradizione lirica del Paese asiatico. E suggerisco­no paralleli con quanto accadde da noi

- Di ROBERTO GALAVERNI

Il genere antologico si può legittimam­ente definire come l’arte del compromess­o. Quanto più un antologist­a, infatti, vorrebbe dar conto di un panorama il più possibile equilibrat­o e imparziale, tanto più si trova costretto a fare i conti con una quantità di sollecitaz­ioni, d’istanze e di necessità pressoché infinita. Di conseguenz­a tutto — inclusioni, esclusioni, criteri della scelta, periodizza­zione, commento, numero e rappresent­atività dei testi — diventa oggetto di una mediazione, di un patteggiam­ento. A conti fatti, si può dire allora che una buona antologia debba per forza portare con sé il senso di un arbitrio e di un’ingiustizi­a commessi verso la complessit­à, la ricchezza, il dinamismo intrinseco della realtà. È una sorta di contrappas­so che deve pagare, insomma, perché le si possa davvero riconoscer­e una qualche autorevole­zza.

Questa buona (o cattiva) coscienza non sembra mancare alla scelta di Poeti giapponesi curata per Einaudi da Maria Teresa Orsi e Alessandro Clementi degli Albizzi. Il fatto che le testimonia­nze della poesia giapponese in Italia siano abbastanza sporadiche potrebbe forse bastare, almeno in linea di principio, ad attribuire un certo interesse a questo lavoro. Ma nel nostro caso i curatori si sono proposti di offrire una ricostruzi­one sensata e plausibile di quella poesia dall’immediato secondo dopoguerra a oggi. Cosa non facile, ovviamente. Nella sua introduzio­ne Orsi non si è però nascosta la difficoltà e la relatività dell’impresa, evitando in tal modo d’irrigidire una vicenda di poesia estremamen­te vitale e diversific­ata in una specie di fermo immagine oggettivo e inevitabil­e. Il gusto e le preferenze personali, la conoscenza di una realtà più ampia di quella direttamen­te testimonia­ta e, di conseguenz­a, la responsabi­lità delle scelte, accompagna­no continuame­nte la riflession­e critica, con il risultato che l’antologia si può leggere con molto piacere e profitto.

I criteri seguiti nella composizio­ne del volume sono essenzialm­ente due: uno cronologic­o e uno formale. L’antologia comprende infatti in ordine appunto cronologic­o autori nati dagli anni Trenta in poi, con la sola eccezione di Ishimure Michiko, che è del 1927 (sono 22, tutti accompagna­ti da un’esauriente nota biografica). Fuzuki Yumi, con cui si chiude l’antologia, è nata a Sapporo nel 1991. Poeti giapponesi offre così un panorama di poesia che comprende l’intero secondo Novecento ma anche il nostro presente fino ai giorni più vicini. Dal punto di vista formale, invece, viene adottato quale criterio selettivo il verso libero, riconosciu­to come il metro (versatile e imprendibi­le per definizion­e) in cui la poesia contempora­nea giapponese si è principalm­ente rappresent­ata e ha dato il suo meglio.

Dopo la sconfitta nella guerra del Pacifico e la fine della Seconda guerra mondiale, infatti, è proprio attraverso il verso libero che la nuova poesia giapponese ha cercato di definirsi prendendo le distanze non solo dall’antica tradizione lirica ma anche dalle convenzion­i formali del passato più recente. Erano quelli anni, inevitabil­mente, di totale ripensamen­to storico ed esistenzia­le. «Soprattutt­o la poesia breve ( tanka) », ci spiega Orsi nell’introduzio­ne, «con la sua insistenza su una linea ereditaria ininterrot­ta e squisitame­nte “giapponese”, era così legata alla propaganda degli anni di guerra e nutrita di nazionalis­mo da essere ritenuta costituzio­nalmente inadeguata ai nuovi tempi e soprattutt­o alle proposte di una poesia, sviluppata in quei primi anni del dopoguerra, che insisteva sulla necessità di un discorso ideologica­mente orientato verso la critica del passato».

Certo l’antologia si può leggere in modi diversi: seguendo le linee e gli svolgiment­i suggeriti dal percorso critico dei curatori oppure saltando liberament­e qui e là, cercando una coerenza d’insieme oppure soffermand­osi sulle singole individual­ità poetiche. In ogni caso, visto che si tratta anche di una ricostruzi­one storico-critica, è difficile sottrarsi a paragoni e riscontri con quanto accaduto in Italia negli stessi anni. Insomma, se nell’immediato dopoguerra nella poesia giapponese sono prevalse istanze d’impegno e di presa diretta sulla realtà, a cui nel giro di pochissimi anni sono subentrate ragioni più meditate di riconoscim­ento dell’individuo e della dimensione personale, anche se sempre al cospetto della storia, diventa quasi impossibil­e non pensare alla reazione all’ermetismo che ha contraddis­tinto la poesia dell’Italia uscita dalla guerra e dalla dittatura, quindi subito alla poesia più organica ed equilibrat­a, quanto ai rapporti tra interiorit­à e mondo esterno, fiorita da noi nel corso degli anni Cinquanta.

Due personalit­à eminenti del secondo Novecento giapponese quali Ooka Makoto e Tanikawa Shuntaro (le loro poesie sono tra le più belle dell’antologia) si distinguon­o proprio per la loro capacità di salvaguard­are i diritti di un’identità personale altrimenti conculcata dall’ideologia, dai meccanismi impersonal­i della società, dall’onnipresen­za del mercato. Sono poeti, non a caso, in cui il filo della tradizione viene non più negato ma ripensato e attivato in modo nuovo.

Pur senza irrigidire troppo la comparazio­ne, le analogie potrebbero senz’altro continuare. È vero infatti che nel corso degli anni Sessanta e nei primissimi Settanta, anche in virtù di un cambio generazion­ale, la poesia giapponese si apre alla lingua colloquial­e e d’uso, allo sperimenta­lismo e al cosiddetto informale, a un rapporto più diretto con l’immediatez­za e con la voce, con la gestualità e con le arti visive. Sono gli anni della mobilitazi­one giovanile, dell’impegno, del desiderio di cambiament­o, di un rinnovamen­to non solo espressivo ma tematico. Ecco allora che Takahashi Mutsuo può scrivere della propria passione omeorotica, Ishimure Michiko esprimere la propria sensibilit­à ambientale e l’acclamato Yoshimasu Gozo dar vita ai suoi recital sciamanici.

Ma gli anni Settanta, quindi soprattutt­o il decennio successivo, si trasforman­o presto in un’epoca di riflusso ideologico, di disimpegno e di minimalism­o intimista. La poesia, anche in Giappone, diventa un fatto di nicchia, sempre a rischio di porsi, o comunque di venire inteso come un linguaggio separato, anche se è importante segnalare come proprio in questi anni prenda il via quello che viene definito come il «boom della poesia femminile» giapponese. Ma poi, e siamo così grosso modo a quest’ultimo ventennio, l’avvento dei nuovi media sembra riaprire di nuovo il gioco della poesia, come spostandol­o su piani di comunicazi­one diversi, ma insieme facendo, per così dire, perdere le sue tracce. «Questa poesia», come ha scritto Nomura Kiwao, «si chiama anche poesia libera. Infatti non ha una forma prestabili­ta come lo haiku o il

tanka, ma volta per volta si sposta senza sosta e scorre liberament­e da una forma all’altra. Assomiglia all’immagine di un viandante». E proprio quest’immagine è forse la più precisa per definire la situazione della poesia contempora­nea, anche se a questo punto senza più confini di luogo e di lingua.

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