Corriere della Sera - La Lettura
Gli assassini dell’haiku In Giappone tocca a loro
I testi di 22 autori del secondo dopoguerra (fino al nostro presente) danno conto di un radicale ma fecondo strappo rispetto alla tradizione lirica del Paese asiatico. E suggeriscono paralleli con quanto accadde da noi
Il genere antologico si può legittimamente definire come l’arte del compromesso. Quanto più un antologista, infatti, vorrebbe dar conto di un panorama il più possibile equilibrato e imparziale, tanto più si trova costretto a fare i conti con una quantità di sollecitazioni, d’istanze e di necessità pressoché infinita. Di conseguenza tutto — inclusioni, esclusioni, criteri della scelta, periodizzazione, commento, numero e rappresentatività dei testi — diventa oggetto di una mediazione, di un patteggiamento. A conti fatti, si può dire allora che una buona antologia debba per forza portare con sé il senso di un arbitrio e di un’ingiustizia commessi verso la complessità, la ricchezza, il dinamismo intrinseco della realtà. È una sorta di contrappasso che deve pagare, insomma, perché le si possa davvero riconoscere una qualche autorevolezza.
Questa buona (o cattiva) coscienza non sembra mancare alla scelta di Poeti giapponesi curata per Einaudi da Maria Teresa Orsi e Alessandro Clementi degli Albizzi. Il fatto che le testimonianze della poesia giapponese in Italia siano abbastanza sporadiche potrebbe forse bastare, almeno in linea di principio, ad attribuire un certo interesse a questo lavoro. Ma nel nostro caso i curatori si sono proposti di offrire una ricostruzione sensata e plausibile di quella poesia dall’immediato secondo dopoguerra a oggi. Cosa non facile, ovviamente. Nella sua introduzione Orsi non si è però nascosta la difficoltà e la relatività dell’impresa, evitando in tal modo d’irrigidire una vicenda di poesia estremamente vitale e diversificata in una specie di fermo immagine oggettivo e inevitabile. Il gusto e le preferenze personali, la conoscenza di una realtà più ampia di quella direttamente testimoniata e, di conseguenza, la responsabilità delle scelte, accompagnano continuamente la riflessione critica, con il risultato che l’antologia si può leggere con molto piacere e profitto.
I criteri seguiti nella composizione del volume sono essenzialmente due: uno cronologico e uno formale. L’antologia comprende infatti in ordine appunto cronologico autori nati dagli anni Trenta in poi, con la sola eccezione di Ishimure Michiko, che è del 1927 (sono 22, tutti accompagnati da un’esauriente nota biografica). Fuzuki Yumi, con cui si chiude l’antologia, è nata a Sapporo nel 1991. Poeti giapponesi offre così un panorama di poesia che comprende l’intero secondo Novecento ma anche il nostro presente fino ai giorni più vicini. Dal punto di vista formale, invece, viene adottato quale criterio selettivo il verso libero, riconosciuto come il metro (versatile e imprendibile per definizione) in cui la poesia contemporanea giapponese si è principalmente rappresentata e ha dato il suo meglio.
Dopo la sconfitta nella guerra del Pacifico e la fine della Seconda guerra mondiale, infatti, è proprio attraverso il verso libero che la nuova poesia giapponese ha cercato di definirsi prendendo le distanze non solo dall’antica tradizione lirica ma anche dalle convenzioni formali del passato più recente. Erano quelli anni, inevitabilmente, di totale ripensamento storico ed esistenziale. «Soprattutto la poesia breve ( tanka) », ci spiega Orsi nell’introduzione, «con la sua insistenza su una linea ereditaria ininterrotta e squisitamente “giapponese”, era così legata alla propaganda degli anni di guerra e nutrita di nazionalismo da essere ritenuta costituzionalmente inadeguata ai nuovi tempi e soprattutto alle proposte di una poesia, sviluppata in quei primi anni del dopoguerra, che insisteva sulla necessità di un discorso ideologicamente orientato verso la critica del passato».
Certo l’antologia si può leggere in modi diversi: seguendo le linee e gli svolgimenti suggeriti dal percorso critico dei curatori oppure saltando liberamente qui e là, cercando una coerenza d’insieme oppure soffermandosi sulle singole individualità poetiche. In ogni caso, visto che si tratta anche di una ricostruzione storico-critica, è difficile sottrarsi a paragoni e riscontri con quanto accaduto in Italia negli stessi anni. Insomma, se nell’immediato dopoguerra nella poesia giapponese sono prevalse istanze d’impegno e di presa diretta sulla realtà, a cui nel giro di pochissimi anni sono subentrate ragioni più meditate di riconoscimento dell’individuo e della dimensione personale, anche se sempre al cospetto della storia, diventa quasi impossibile non pensare alla reazione all’ermetismo che ha contraddistinto la poesia dell’Italia uscita dalla guerra e dalla dittatura, quindi subito alla poesia più organica ed equilibrata, quanto ai rapporti tra interiorità e mondo esterno, fiorita da noi nel corso degli anni Cinquanta.
Due personalità eminenti del secondo Novecento giapponese quali Ooka Makoto e Tanikawa Shuntaro (le loro poesie sono tra le più belle dell’antologia) si distinguono proprio per la loro capacità di salvaguardare i diritti di un’identità personale altrimenti conculcata dall’ideologia, dai meccanismi impersonali della società, dall’onnipresenza del mercato. Sono poeti, non a caso, in cui il filo della tradizione viene non più negato ma ripensato e attivato in modo nuovo.
Pur senza irrigidire troppo la comparazione, le analogie potrebbero senz’altro continuare. È vero infatti che nel corso degli anni Sessanta e nei primissimi Settanta, anche in virtù di un cambio generazionale, la poesia giapponese si apre alla lingua colloquiale e d’uso, allo sperimentalismo e al cosiddetto informale, a un rapporto più diretto con l’immediatezza e con la voce, con la gestualità e con le arti visive. Sono gli anni della mobilitazione giovanile, dell’impegno, del desiderio di cambiamento, di un rinnovamento non solo espressivo ma tematico. Ecco allora che Takahashi Mutsuo può scrivere della propria passione omeorotica, Ishimure Michiko esprimere la propria sensibilità ambientale e l’acclamato Yoshimasu Gozo dar vita ai suoi recital sciamanici.
Ma gli anni Settanta, quindi soprattutto il decennio successivo, si trasformano presto in un’epoca di riflusso ideologico, di disimpegno e di minimalismo intimista. La poesia, anche in Giappone, diventa un fatto di nicchia, sempre a rischio di porsi, o comunque di venire inteso come un linguaggio separato, anche se è importante segnalare come proprio in questi anni prenda il via quello che viene definito come il «boom della poesia femminile» giapponese. Ma poi, e siamo così grosso modo a quest’ultimo ventennio, l’avvento dei nuovi media sembra riaprire di nuovo il gioco della poesia, come spostandolo su piani di comunicazione diversi, ma insieme facendo, per così dire, perdere le sue tracce. «Questa poesia», come ha scritto Nomura Kiwao, «si chiama anche poesia libera. Infatti non ha una forma prestabilita come lo haiku o il
tanka, ma volta per volta si sposta senza sosta e scorre liberamente da una forma all’altra. Assomiglia all’immagine di un viandante». E proprio quest’immagine è forse la più precisa per definire la situazione della poesia contemporanea, anche se a questo punto senza più confini di luogo e di lingua.