Corriere della Sera - La Lettura
Coloriamo i muri delle città
Due architetti ( Stefano Boeri e Odile Decq), un artista ( Emilio Isgrò), un poeta di strada ( Ivan Tresoldi): si sono incontrati per provare a immaginare un modo nuovo di abitare le metropoli e di riabitare i borghi quando finirà l’emergenza sanitaria. «Arte e cultura devono andare incontro ai cittadini»
Per diverso tempo ancora dovremo mantenerci a distanza, indossare le mascherine, comportarci con prudenza. Convivere con il coronavirus, eppure vivere. Per questo nelle prossime settimane, nel tentativo di costruire un nuovo ordinario, gli spazi più ampi e aperti potrebbero diventare preziosi alleati. «La Lettura» ha provato a raccogliere idee su come ridisegnare le città e i paesi coinvolgendo due architetti di fama internazionale: Stefano Boeri, ideatore del Bosco verticale, presidente della Triennale di Milano, e la francese Odile Decq, che curò tra l’altro, nel 2010, l’espansione del Museo di arte contemporanea di Roma (Macro ). E poi Emilio Isgrò,l’ artista celebre perle sue cancellature, scrittore, autore teatrale, e il poeta di strada Ivan Tresoldi. Insieme hanno dialogatovi a Skype. Ne è nata la visione di una città diversa nella quale, al netto delle priorità sanitarie, anche la cultura e l’arte possano uscire dagli spazi chiusi e incontrare tutti. Animare i luoghi. Quanto conta in questo momento lavorare sullo spazio aperto?
STEFANO BOERI—Insieme conl adesincronizzazione dei flussi della città, ad esempio la variazione degli orari di scuole o uffici, è una delle strategie principali per evitare che prevalgano due distopie. La prima è quella del controllo digitale, dell’essere geolocalizzati e codificati rispetto alla malattia, e in base a questo avere accesso o meno agli spazi pubblici. La seconda è quella del plexiglass, dei muri trasparenti, delle barriere nei bar, nelle piazze, sulle spiagge. Rispetto a questo, lo spazio aperto è una grande risorsa che le città mediterranee, e in generale quelle europee, possiedono e che dobbiamo imparare a sfruttare nei prossimi mesi. Un periodo in cui saranno ancora fortissimi il rischio e, nella psicologia collettiva, il timore del contagio.
ODILE DECQ — Ci troviamo a fare i conti con esigenze contrastanti. Una è la regolamentazione degli spazi: ci vorranno più elementi di separazione, altrimenti, quando si andrà in un luogo, si finirà per dovere stare attenti per tutto il tempo. Se però serve distanziarci, dobbiamo al contempo trovare il modo di stare insieme: l’essere umano da solo non sopravvive. Ecco perché non possiamo immaginare strade e vialoni con la plastica ovunque. Vorrebbe dire separare donne, uomini, giovani, anziani, persone di culture diverse, ma le società sono miste. Non tutti poi hanno il privilegio di vivere in spazi larghi, quindi, ancora di più, noi architetti, artisti, pensatori, dobbiamo trovare soluzioni per fare stare insieme le persone in modo sicuro. La mia più grande preoccupazione è la libertà. In questa fase siamo stati meno liberi e spero che, seppure non nell’immediato, potremo tornare a esserlo.
Che cosa si può iniziare a fare?
STEFANO BOERI — Rivolgere all’esterno attività collettive che di solito si svolgono all’interno. Il commercio di vicinato ad esempio, una delle realtà che abbiamo riscoperto in queste settimane, deve potere avere dei dehors, da non riservare solo ai bar. E poi l’intrattenimento, la cultura, lo sport devono trovare una nuova geografia all’esterno. Detassando l’occupazione di spazio pubblico, la città cambia: i piani terra possono estendersi fuori, il che significa ridurre la strada dando più spazio ai marciapiedi, ripensare mobilità e trasporti. Vuol dire anche spazi aperti per la cultura e l’intrattenimento. Noi per esempio quest’estate porteremo la Triennale nel Giardino: lì proporremo teatro, cinema, performance, mostre, dialoghi.
EMILIO ISGRÒ — La possibilità di portare più arte nello spazio pubblico è per fortuna connaturata alla cultura italiana. Io stesso nei primi anni Ottanta diedi il mio contributo al progetto delle Orestiadi di Gibellina, in Sicilia: lì fu creato uno spazio aperto per le rappresentazioni artistiche in un luogo che era stato distrutto dal terremoto del Belice. E lì ho in programma di portare quest’anno, se riusciremo, un’Odissea.
ODILE DECQ — Iniziative in giardino e all’aperto a Parigi o nei Paesi del Nord sono un po’ più difficili...
EMILIO ISGRÒ — I teatri antichi erano all’aperto e non solo nella Magna Grecia, anche a Verona, a Brescia. Lo era il teatro di Shakespeare a Londra. Il freddo e il clima c’entrano relativamente. Il problema non è fare arte all’esterno, quanto creare un linguaggio adeguato agli spazi aperti. Proprio questo però è il momento in cui l’arte dovrebbe rinunciare a un eccesso di sofisticherie e ritrovare una portata pubblica. Una dimensione di tipo epico che la renda capace di arrivare al più alto numero possibile di persone, anche a chi, appunto, la deve fruire in un contesto di maggiore distrazione, come l’ambiente esterno. Oggi che il virus ci pone di fronte a un duello tra la vita e la morte, è quanto mai evidente che bisogna dire parole chiare. Serve una semplificazione, che non vuol dire rinunciare alla complessità: la semplicità è un risultato al quale si arriva. Ed è anche un modo per tornare a includere quel ceto medio che, se si sente tagliato fuori, reagisce male.
IVAN TRESOLDI — Non posso che abbracciare questa centralità dello spazio aperto, io che da sempre scrivo nella strada. Lo spazio è fondamento ontologico della libertà. Poi abbraccio la visionarietà: noi autori siamo chiamati a rincorrere un mondo che ancora non c’è. E infine sottolineo l’importanza della sinergia, di lavorare insieme tra discipline, arte, architettura, espressioni dell’umanità come il teatro, perché non serve solo aprire spazi ma animare luoghi. Proprio lo scorso lunedì ho inaugurato un cantiere in un complesso abitativo in via Selvanesco a Milano, di fronte al quartiere Gratosoglio: lì la poesia, la parola, il colore sostituiranno la toponomastica tradizionale, ad esempio espressioni come Scala A o Scala B. In fondo è anche questo un modo per costruire quell’epica narrazione di massa di cui parla Emilio. I graffiti c’erano già decine di migliaia di anni fa, io non invento nulla e quelle che scrivo sui muri sono frasi semplici, che hanno un’accessibilità popolare. In questo momento mi piacerebbe esprimere cose che sono accadute e per le quali non abbiamo ancora le parole: come chiamiamo la gente che è stata alle finestre? Come chiamiamo una libertà che non è stata libera?
La popolazione è indubbiamente provata: c’è chi è così spaventato che teme di tornare fuori e chi è così desideroso di farlo da correre rischi e violare la legge. Come si concilia la vostra visione con questa realtà?
STEFANO BOERI — Sono andato a rileggermi Comment vivre ensemble, i seminari di Roland Barthes del 1977 al Collège de France: lì la domanda era se fosse possibile stabilire un rapporto tra la solitudine e la comunità, riconoscendo valo
re a entrambe. Ecco, anche noi adesso dobbiamo ripensare a come vivere insieme. Nel farlo emergono due grandi opposizioni: la prima è quella tra la densità dei corpi e l’intensità degli scambi. Oggi abbiamo bisogno di studiare forme di intensità anche in condizioni di minore densità dei corpi; l’intensità è fondamentale nelle relazioni sociali, nel fare comunità, nel fare città. Questo vuol dire lavorare in senso progettuale. Come anche la prossemica insegna, vuol dire ripensare gli interni domestici, dare una spazialità diversa ai luoghi dell’incontro, ad esempio la cucina. E poi lavorare sugli spazi aperti e su come segnalare i punti di maggiore condensazione dei corpi. E qui entra la seconda opposizione che è quella tra controllo dei movimenti e consapevolezza del rischio. Io sono a favore della seconda: come dicevo, dobbiamo evitare una vita codificata da strumenti di controllo. Consapevolezza invece vuol dire essere informati sempre sul rischio, lasciando però libertà d’azione. Altrimenti ammazziamo il concetto stesso di spazio pubblico, che è sostanzialmente imprevedibilità. Quindi ripeto: intensità e consapevolezza. Da qui nasce una serie di discorsi sulle città, sui piccoli borghi, che credo saranno la sfida dei prossimi anni.
Che cosa intende esattamente?
STEFANO BOERI — Concepire la città in una logica che ci porti ad avere i servizi commerciali, culturali, sanitari — che, apro una parentesi, ci sono mancati in questo pezzo di mondo in cui vivo io — a una distanza di 15 minuti, come è stato fatto a Parigi, o a 500 metri, come si è studiato a Berlino. Una città fatta per borghi. Questa pandemia in fondo è l’epilogo di un’epoca che ha costruito le città sulla base di luoghi centrali di condensazione dei corpi: fabbriche, mercati, stazioni, carceri. Ma anche le istituzioni di cui parlava Michel Foucault oggi sono in crisi. La questione però non è assolutamente estendere la città ma ripensare la distribuzione dei servizi in città. Basta con la dispersione urbana, spero che con la città diffusa sia finita per sempre. Al contempo si può invece accettare la sfida di andare a ripopolare borghi e centri storici in stato d’abbandono. È un aspetto diverso, che credo potrà procedere in parallelo con il ripensamento della città.
ODILE DECQ — Un tema centrale è la dimensione dei luoghi. Partiamo da quelli in cui abitiamo, dove in questo momento non solo dormiamo e mangiamo, ma spesso dobbiamo lavorare e insieme occuparci dei bambini. Dunque, anche alla luce di questo, c’è bisogno di aumentare lo spazio, senza però far salire i costi. Gli appartamenti non possono più essere così minimali né considerati solo oggetti finanziari. Per quanto riguarda la città, sono d’accordo: serve ridurre la densità ma non possiamo tornare alla dispersione del centro urbano nel territorio, non è più sostenibile dal punto di vista ecologico. Certo, proprio in questo momento potrebbe esserci chi sceglie di andare a vivere appena fuori Parigi o Milano, ma questo vuol dire portare lì i servizi, l’uso massiccio dell’auto. Una questione delicata quella dei trasporti, visto che già adesso in città molti prendono la macchina perché si sentono più sicuri che su bus e metrò. Si dovrebbero invece creare le condizioni per usare di più la bicicletta. Tutti interventi non rinviabili, perché non penso che torneremo presto alla vita di prima. In Francia vale il principio di precauzione e dunque, se anche i contagi scenderanno, bisognerà comunque seguire le regole di prevenzione.
EMILIO ISGRÒ — Apparentemente qui ci sono due piani: quello degli architetti e quello di un poeta e di un artista. Ma già lo scrittore Elio Vittorini, dopo la Seconda guerra mondiale sul «Politecnico», osservava che un mondo diverso si può costruire a patto che si inventi una cultura diversa. Ora noi abbiamo una fortuna per l’arte, la musica, la letteratura: le forme che saranno accettabili nei prossimi anni sono state già elaborate nel Novecento, anche se poi, in anni più recenti si sono perse in una certa autoreferenzialità della cultura. La pittura è già fuggita dai quadri. Torno a Gibellina. Il Cretto di Alberto Burri, opera di land art dove si svolgono le rappresentazioni, è l’espansione della sua pittura di taglio informale in uno spazio aperto, sorto dopo un terremoto. Non astratta invenzione, quindi, ma qualcosa che fa corpo con la vita. Io stesso portai lì l’Orestea nelle parvenze di un teatro che usa il dialetto. Anche la poesia è già fuggita dai libri: lo disse Nanni Balestrini a metà degli anni Sessanta. E fa benissimo Ivan a scriverla sui muri. Un «Ti amo» inciso per strada, ora che siamo a distanza e non è possibile dirlo di persona, è di per sé un gesto di rottura. L’arte deve rischiare di dire cose semplici e scommettere che sia possibile saldare cultura alta e bassa. Lo suggerisco a Ivan: oggi un ritorno a Montale equivarrebbe al ritorno di Eliot a Baudelaire quando scrisse La terra desolata. Le rivoluzioni salgono sulle spalle del passato.
IVAN TRESOLDI — Perché Montale? EMILIO ISGRÒ — È il poeta che unì la capacità di sofisticare il linguaggio ai limpidi versi per la moglie: «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale». Un antidoto a una certa inappartenenza di cui oggi soffre la cultura. Pensiamo alla Pop Art: allargò il pubblico ma poi si è ripiegata su sé stessa. Ecco, si può dire che Trump sia in un certo senso l’ultimo figlio della Pop Art, che ha perso la sua visione kennediana e aperta della realtà. Non di rado accade che le posizioni più aperte si rovescino nel loro contrario.
IVAN TRESOLDI — Noi proviamo a fare la nostra parte. Come ha scritto l’autore e studioso Francesco Terzago, in un testo che uscirà a giugno dall’editore AgenziaX e che ho potuto leggere in anteprima, la poesia di strada ha scelto l’immediatezza e la brevità: versi capaci d’imprimersi nell’orecchio dei passanti. Tanto più ora, dopo questo periodo d’isolamento, le cui ferite sulla psiche richiederanno tempo per rimarginarsi, sentiamo profondo il bisogno di ridare corpo alla città e agli spazi esterni. Perciò grazie Emilio per Montale, per questo riferimento, al quale mi piace aggiungere un verso di Alfonso Gatto dal componimento 25 Aprile: «Il cuore/ d’improvviso ci apparve in mezzo al petto». Ecco, noi adesso possiamo ritrovare questa stessa intensità, l’intensità di cui parlava Stefano Boeri, nonostante ci muoviamo ancora in una situazione d’incertezza, contraddittoria. Ma dobbiamo provarci e condurre per mano la politica, non possiamo essere solo schiavi dell’ordinanza. In fondo anche amore è una parola contraddittoria. Una delle sue interpretazioni etimologiche la fa derivare dal latino a-mors, cioè senza morte. Dunque anche il vocabolo più caldo e rosso porta dentro di sé il concetto di morte.
L’emergenza non è uguale per tutti. Non lo è per i più poveri o per chi perde il lavoro, non lo è per gli anziani, si sta rivelando non esserlo per le donne. Come farsi carico di tutto questo?
ODILE DECQ — All’inizio abbiamo sperato che la crisi, per quanto drammatica, potesse essere un’occasione di cambiamento. Ci sarà un prima e un dopo, si diceva. Adesso però non sono più così convinta che il dopo andrà meglio. Abbiamo impresso addosso il timore degli altri, abbiamo paura della loro pelle e del loro corpo. Si è pensato alla famiglia e al lavoro, non però agli amici o a come incontrare qualcuno per fare l’amore. Quali saranno le conseguenze? Detto questo, ne sono certa: gli artisti saranno creativi, perché nelle grandi costrizioni e limitazioni lo si è di più. «Resistenza» è stata sempre la mia parola e lo è tanto più adesso: non voglio vivere in un sistema che mi controlli, che mi faccia avere paura degli altri. Sarebbe già l’inizio della morte. Quindi sì, farò la mia parte, proporrò idee per riorganizzare la città, ma il problema è più ampio. La domanda è quale vita vogliamo vivere ed è la politica che dovrà ridefinire una nuova economia e un nuovo modello di sviluppo.
STEFANO BOERI — Io sono ottimista. Il bisogno di amarsi, di fare sesso, di incontrarsi, di scambiare esperienze, è più forte degli spazi stessi. Ci si ama a distanza, con il pensiero, con i sogni, con il desiderio. Dobbiamo costruire una città nuova. Useremo le parole di Ivan sui muri e le cancellature di Emilio, cancelleremo noi stessi pezzi di città, ma alla fine i sentimenti saranno più forti. Ci si apre un mondo nuovo. Pensiamo al rapporto con gli animali, che abbiamo rimosso, ma che ora sono tornati a prendersi il loro spazio. Al rapporto con gli alberi, che deve tornare a essere di prossimità. Sarà un futuro molto difficile ma bellissimo.
EMILIO ISGRÒ — Alla fine vince la vita. Pur nelle nostre solitudini, anche grazie ai mezzi digitali, oggi siamo qui a dialogare. L’importante è non uccidere mai il virus delle libertà umane.
IVAN TRESOLDI — La mia speranza è che l’arte e la poesia possano riacquisire una funzione sociale: essere armi di costruzione di massa in un mondo di distruzione. «Strada» d’altra parte, che è dove io lavoro, deriva da sternere, appianare. Semplificare, non dividere.