Corriere della Sera - La Lettura
Il paradosso del virus: può rilanciare l’Unione
Come dimostra l’iniziativa Merkel-Macron, oggi ci sono le condizioni per rilanciare il processo d’integrazione sulla scia della crisi sanitaria. Ma non mancano le incognite: l’entità del debito italiano, un nuovo sovranismo nordico «in doppiopetto», le ricadute della recente sentenza della Corte costituzionale tedesca. Ne discutono Antonio Calabrò, Maurizio Ferrera, Piergaetano Marchetti, Alberto Martinelli e Antonio Padoa-Schioppa, autori un anno fa di un libro in difesa dell’Ue
Icinque autori del libro Europa nonostante tutto, pubblicato lo scorso anno da La nave di Teseo, fanno il punto in questo dibattito sul modo in cui l’Unione sta reagendo alla crisi del coronavirus. Sono il politologo Maurizio Ferrera, il manager Antonio Calabrò, i giuristi Piergaetano Marchetti e Antonio Padoa-Schioppa, il sociologo Alberto Martinelli.
MAURIZIO FERRERA — La pandemia Covid-19 ha causato in tutti i Paesi una grave crisi di salute pubblica. La risposta dell’Unione Europea è stata timida e tardiva, tanto che la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha chiesto ufficialmente scusa all’Italia. Alla crisi sanitaria ne è subito seguita un’altra di natura e conomica e s oci a l e , i n part i col a re s ul l a s c i a dei
lockdown. Bruxelles ha cercato di impostare una strategia comune, tramite strumenti monetari e fiscali. A questo punto è scoppiata una crisi politica a causa delle tradizionali, ma stavolta esasperate, fratture tra Nord e Sud. Come se non bastasse, la sentenza dei giudici della Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe ha aperto un altro fronte. Nel nostro volumetto, apparso poco prima delle elezioni per il Parlamento europeo a maggio del 2019, ci preoccupavamo soprattutto del rischio populista. Il titolo suggeriva anche, implicitamente, che la Ue avrebbe superato il delicato passaggio elettorale, come infatti è avvenuto. Ma riuscirà ora a far fronte alla nuova «poli-crisi»? Iniziamo dagli aspetti economici.
ANTONIO CALABRÒ — I dati sull’andamento dell’economia, elaborati dal Fondo monetario internazionale, indicano una caduta del Pil mondiale, nel 2020, del 3%, la peggiore contrazione dal dopoguerra e, per i Paesi Ocse, del 6,1%. Nell’Eurozona va peggio: -7,7%, secondo la commissione Ue. Nel dettaglio: -6,5% in Germania, -8,2 in Francia, -9,4 in Spagna. E in Italia? -9,5% prevede la Ue, -9,1 secondo il Fondo monetario internazionale e -9 secondo la Banca d’Italia, il maggior crollo dall’Unità d’Italia a oggi, escluso il periodo 1943-’44, durante la guerra. E il governo? Ha calcolato un -8%, nella preparazione, a fine aprile, del Documento di economia e finanza. Circa 150 miliardi di perdita di Pil per il coronavirus, tra export in netta discesa (-14,4%) e caduta rovinosa di gran parte dei consumi (-7,2%) dall’industria al turismo, dal commercio al resto dei servizi. Per il 2021 il governo prevede un rimbalzo del 4,7% e la Commissione Ue del 6,5: dunque una ripresa lenta, parziale, fragile.
MAURIZIO FERRERA — Un quadro drammatico. Il lockdown ha però esasperato debolezze che già c’erano.
ANTONIO CALABRÒ — Spegnere l’impresa significa spegnere l’Italia. Ma per riaccendere la crescita e garantire la tenuta sociale occorre un piano straordinario di investimenti che metta al centro le manifatture di qualità, le relazioni tra fabbriche e servizi, l’industria che sperimenta, produce, crea valore aggiunto con ricadute non solo economiche: il lavoro, il benessere, l’ascensore sociale, le opportunità per le nuove generazioni.
MAURIZIO FERRERA — Come vanno valutati gli interventi già messi in campo da Bruxelles e le proposte oggi in discussione?
ANTONIO PADOA-SCHIOPPA — Tra le molte e rilevanti misure decise o in preparazione — Mes per fronteggiare l’emergenza sanitaria, finanziamenti Bei per le imprese, fondo Sure per sovvenire alla disoccupazione — l’avvio del Recovery Fund consentirà di procedere a investimenti su infrastrutture relative a «beni pubblici europei» che per definizione le imprese non possono finanziare da sole. Purché però: a) l’impegno sia sufficientemente corposo, per non accrescere lo scarto tra i Paesi dell’Unione, pregiudizievole anche per i più ricchi; b) vi sia una quota di stanziamenti diretti a fondo perduto, accanto ai prestiti su tempi lunghi; c) almeno una quota dei fondi aggiuntivi provenga da risorse proprie (come una carbon border tax sui beni importati nell’Ue dall’esterno, proporzionale alle emissioni di CO2 necessarie a produrli), attivabili senza riforma dei Trattati. Il Green Deal, ma anche investimenti per energie alternative, sanità, ricerca e sicurezza potrebbero venir finanziati in questo modo. Il Fondo sarebbe gestito e controllato dalla Commissione e dal Parlamento europeo, dando vita anche a imprese di diritto comunitario a partecipazione pubblica. Il bilancio dell’Unione crescerebbe dall’1 all’1,2% del Pil europeo ma le garanzie dell’Ue per i prestiti accesi tramite le risorse del Fondo coprirebbero un aumento fino al 2% del Pil. Un grande passo avanti.
ALBERTO MARTINELLI — La proposta della Commissione sul Recovery Fund verrà discussa il 27 maggio dal Consiglio. Si è intanto pronunciato il Parlamento Europeo, che a larga maggioranza ha chiesto un ambizioso piano di duemila miliardi per aiutare i Paesi più colpiti da Covid-19, finanziato con emissioni garantite dal bilancio Ue, anche con risorse proprie. È necessario che i cittadini europei sostengano il Parlamento di Strasburgo, ribadendo due punti: 1) il Recovery Fund va agganciato al quadro finanziario pluriennale 2021-2027, superando la logica dei saldi netti nazionali. Vanno promossi grandi investimenti strategici pluriennali nell’economia verde e sostenendo la sovranità digitale europea. 2) il Fondo va finanziato anche da entrate fiscali dirette del bilancio comunitario: web tax e carbon border tax.
MAURIZIO FERRERA — Ma l’Italia saprebbe trarre davvero vantaggio dal Recovery Fund?
ALBERTO MARTINELLI — Senza dubbio è fondamentale che il nostro governo presenti per tempo programmi coerenti con gli obiettivi della Commissione, con tempi certi di attuazione, procedure snelle (specie in materia di appalti), controlli efficaci. Si può adottare il «modello Genova» per la ricostruzione del ponte crollato, trovando un equilibrio tra l’esigenza di realizzazione rapida e quella di contrasto alla corruzione.
MAURIZIO FERRERA — Sempre che i sovranisti non si mettano di mezzo, e il rischio non è solo italiano...
PIERGAETANO MARCHETTI — Le elezioni europee hanno dato un segnale preciso, confermato dalle vicen
de che hanno condotto alla nomina della presidente della Commissione. Come avevamo ipotizzato un anno fa, il sovranismo populista non ha sfondato. I semi di antieuropeismo non hanno germogliato. Tuttavia, si ha l’impressione che sia stata la politica di Paesi che pur si ponevano come custodi dell’Europa a generare, da un lato, un sovranismo «in doppiopetto» e a riattizzare il sovranismo populista, dall’altro lato. Il sovranismo in doppiopetto dei Paesi del Nord cavalca spesso argomenti giuridici: la pretesa estraneità della sanità alle competenze comunitarie; un alibi per rifiutare di nuovo politiche mutualistiche. Quest’impostazione è insostenibile. La salute non è competenza esclusiva ma è ben presente nei Trattati come lo sono la politica sociale, la coesione, sulle quali la pandemia incide pesantemente. L’articolo 6 del Trattato di Lisbona stabilisce che l’Unione «ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare, completare, l’azione degli Stati membri» in varie materie, tra le quali (e al primo punto) «tutela e miglioramento della salute umana». Il problema è squisitamente politico. Occorre evitare che il dibattito su una scelta politica debordi, per reazione, in rifiuto del terreno stesso di incontro e scontro. Il sovranismo del Nord favorisce, per reazione, quello di altri Paesi, spesso populista, che sfocia nel rigetto dell’istituzione.
ALBERTO MARTINELLI — Il nazionalismo populista è il maggiore ostacolo all’attuazione di una strategia comune per fronteggiate le conseguenze dirette e indirette di Covid-19. I sovranisti pretendono ingenti aiuti finanziari dall’Ue, rifiutando di condividerne gli obblighi. Tuttavia la loro marcia è tutt’altro che inarrestabile, anzi. Oggi, i sondaggi più attendibili mostrano che prevale la volontà di rimanere nell’Unione e nell’euro e di dare risposte comuni alla crisi pandemica.
MAURIZIO FERRERA — Quindi l’emergenza Covid-19 non ha causato reazioni antieuropee. Come si spiega?
ALBERTO MARTINELLI — A fronte di un’emergenza grave e improvvisa, la prima reazione è quella di rifugiarsi nelle identità e solidarietà più forti e immediate come la nazione. Presto però ci si rende conto che il principio «ci si salva tutti insieme» non è uno slogan abusato, ma corrisponde alla reale necessità di unire le forze. Basti pensare al costo di finanziamento del debito in forte crescita di Paesi come l’Italia, nel caso in cui dovessero presentarsi sui mercati da soli, con una propria moneta. L’uso politico di questioni come il nuovo Mes in Italia, da parte dei partiti populisti, rallenta e complica i processi decisionali ma non modifica l’orientamento favorevole a un maggiore coordinamento e rafforzamento dell’Unione. Per depotenziare il vincolo sovranista è tuttavia necessario cogliere l’opportunità offerta dalla comune sofferenza pandemica per sviluppare una reciproca solidarietà tra i cittadini degli Stati membri e una lealtà condivisa verso le istituzioni comunitarie.
MAURIZIO FERRERA — Per muovere in questa direzione è importante il ruolo dei mass media nazionali.
PIERGAETANO MARCHETTI — I media italiani, a mio parere, non stanno affrontando il tema della pandemia come questione europea. Qualche dato, qualche episodio, ma rari sono gli sguardi d’assieme. Questa angolatura della narrazione esaspera l’oggettivo, aspro dibattito sulle misure europee. Facilita la conclusione per cui si debba pensare a sé stessi, senza ricorrere all’Europa; facilita il pregiudizio verso gli interventi europei, sospettati di essere cavallo di Troia di una pesante ingerenza interna. È il terreno di coltura di un sovranismo populista che forse ha cambiato pelle. Non più un sovranismo borioso e sprezzante ma un sovranismo «da delusione». Chi si batte perché l’Europa resista e cresca deve comprendere la nuova faccia di questo sovranismo. È necessario far capire che si è all’interno di una ricorrente dialettica politica (conservatori-progressisti, se si vuole, destra-sinistra), sottolineando i segni di evoluzione positiva che pure si colgono. L’informazione sull’Europa è troppo spesso attestata a descrivere contrasti sulle singole proposte e misure. Non coglie il fatto che la pandemia possa essere il detonatore di una lotta politica grazie alla quale l’Europa — il Recovery Fund sarà un banco di prova — può rigenerarsi e progredire.
MAURIZIO FERRERA — È probabile che la crisi economica abbia conseguenze di rilievo sulle dinamiche della globalizzazione. Alcuni parlano di ripiegamenti «regionali», ossia una frantumazione degli scambi all’interno di blocchi geo-economici diversi. Quali sarebbero le implicazioni per l’Italia?
ANTONIO CALABRÒ — Il doppio colpo della pande
mia e della recessione ha colto le imprese italiane in un difficile momento di passaggio, tra l’uscita stentata dagli effetti di lungo periodo della grande crisi del 2008 e le trasformazioni per reggere le sfide dell’economia digitale e dell’intelligenza artificiale. Molte erano impegnate in trasformazioni da «Industria 4.0», nonostante gli ultimi governi abbiano irresponsabilmente bloccato o ridotto i vantaggi fiscali per gli investimenti in innovazione. La maggior parte sono ancora sul crinale stretto del cambiamento. Adesso fanno i conti con la ripresa, sapendo che è cambiato il contesto generale. La globalizzazione, come la conoscevamo, è in crisi. Ma non si può cedere a quella che l’«Economist» definisce the lure
of self sufficiency, «la seduzione dell’autosufficienza». Se è vero che è stato un errore costruire supply chain, catene di fornitura, sbilanciate verso «le fabbriche del mondo» (Cina, India, Paesi dell’Estremo Oriente) inseguendo il basso costo, è altrettanto vero che la Ue deve definire una nuova politica industriale che riporti nei Paesi europei parti di quelle lavorazioni (automotive, meccatronica, robotica, chimica, farmaceutica, agroindustria, energia, telecomunicazioni) per non ritrovarsi strozzata dal blocco di forniture per l’esplodere di crisi sociali, ambientali, sanitarie. La Ue deve rilanciare l’industria e giocare da protagonista politico per definire nuove ragioni di fair trade, di commercio internazionale attento ai diritti e agli equilibri economici e sociali.
MAURIZIO FERRERA — Il rilancio dell’economia italiana resta però pesantemente ostacolato dal debito. Che peraltro spaventa i nostri partner e li induce a resistere a ogni forma di «mutualizzazione».
ANTONIO PADOA-SCHIOPPA — Non ritengo che il rischio Italia, dovuto al nostro debito pubblico, che ora salirà a oltre il 160% del Pil, debba essere garantito dall’Unione. A una discesa graduale, ma strutturale, del nostro debito pregresso dobbiamo pensare noi: possiamo farlo, controllando con fermezza la spesa corrente, recuperando una significativa quota ulteriore di evasione fiscale, anche con una riemersione del sommerso, e aumentando la crescita con una serie di riforme del sistema Paese (burocrazia, semplificazione normativa, giustizia) oggi rese possibili proprio dall’emergenza sanitaria. La crescita potrà inoltre giovarsi grandemente delle risorse europee messe a disposizione dal Recovery Fund. Non bisogna mai dimenticare che, se la Bce a un certo punto dovesse attenuare il sostegno che ci aiuta a tenere sotto controllo lo spread con l’acquisto diretto e indiretto dei nostri titoli, la situazione potrebbe precipitare. E allora, a seguito di un default dell’Italia, potrebbe implodere l’intero mercato unico, euro incluso. Il Parlamento di Strasburgo ha appena calcolato, per questa drammatica evenienza, un calo del Pil europeo dal 17 al 22% all’anno, senza contare gli effetti del coronavirus. Sta in primo luogo a noi tutelare a un tempo il nostro Paese e l’Unione Europea. Possiamo e dobbiamo farlo, senza ulteriori indugi. Anche il potere negoziale dell’Italia in Europa dipende da queste scelte nostre.
MAURIZIO FERRERA — La riduzione del debito dipende anche dal famoso «denominatore», la nostra capacità di crescere.
ANTONIO CALABRÒ — Infatti. E questa crisi è un’opportunità per accelerare i processi di cambiamento dell’economia italiana, superando finalmente la stagnazione ventennale della produttività e la carente competitività non delle nostre industrie migliori, ma del contesto economico nel complesso. Subiamo, purtroppo, una diffusa cultura anti-impresa. E si diffonde la tentazione del ritorno allo «Stato padrone». Sono rischi gravi, per la tenuta dell’economia, in chiave europea. Dal punto di vista dell’impresa come motore primario di sviluppo, è semmai indispensabile che le risorse europee, al di là dei sostegni per l’emergenza, siano destinate a un grande piano per le infrastrutture, per la formazione di lungo periodo del capitale umano adatto all’«economia della conoscenza», per la ricerca nel rapporto tra imprese e università, per la sicurezza. La sostenibilità ambientale e sociale è ormai ben radicata, nella coscienza delle imprese più dinamiche, come asset fondamentale di competitività. È la nostra chiave di sviluppo.
MAURIZIO FERRERA — Gli altri Paesi e la stessa Commissione sembrano però ossessionati dal numeratore, l’ampiezza del deficit e del debito, più che dai bassi tassi di crescita. È un circolo vizioso, come spezzarlo?
ALBERTO MARTINELLI — Il nostro punto di forza è l’elevato grado di interdipendenza economica con gli altri Paesi membri, a cominciare dalla Germania. La coalizione dei nove Paesi mediterranei, a trazione francospagnolo-italiana, è una carta politica importante da giocare nel dibattito con i membri del Nord. Il mondo politico e la classe dirigente tedeschi sono profondamente divisi, come appare chiaramente dalla discussione, corretta ma molto dura, che si sta svolgendo in queste settimane sui media, non con l’eurofobica ed emarginata Alternative für Deutschland (AfD), ma tra tutti gli altri partiti «diversamente europeisti», tra chi teme soprattutto l’aggravarsi del debito sovrano dei Paesi del Sud, con il connesso rischio di mutualizzazione, e chi teme soprattutto la recessione di economie strettamente interconnesse. Per questo motivo le capacità negoziali dell’Italia nel gioco europeo sarebbero potenziate da un’inequivoca presa di posizione del governo sul debito, che chiarisca strumenti e tempi per controllarlo e progressivamente ridurlo alla fine dell’emergenza.
MAURIZIO FERRERA — Il secondo governo Conte ha fortunatamente recuperato il rapporto con un alleato importante nel gioco europeo, la Francia.
ALBERTO MARTINELLI — Il ruolo di Emmanuel Macron è cruciale per il peso che la Francia ha sempre avuto nell’Ue, come dimostra l’ultima proposta franco-tedesca su un fondo comune di 500 miliardi per investimenti strategici (come il Green Deal) con trasferimenti a fondo perduto agli Stati membri. L’unità d’intenti con Italia e Spagna rafforza la posizione di Parigi. La peculiarità del sistema politico mette Macron al riparo da continui agguati alla tenuta e durata del suo governo; ma ampi settori della società non lo appoggiano e lo costringono a destreggiarsi in un funambolico equilibrio tra visione europeista e interesse nazionale francese. La pandemia crea le condizioni per un rilancio del progetto europeo, ma comporta anche rischi di disgregazione dell’Unione. Tutti i cittadini, non solo i governi, devono fare la loro parte per evitare un collasso che avrebbe conseguenze drammatiche per un Paese come l’Italia.
MAURIZIO FERRERA — La Germania ha oggi un vincolo in più nella sua politica verso l’Europa. Oltre ai sovranisti di AfD, anche la Corte costituzionale. La sentenza di Karlsruhe può, secondo alcuni, minare l’equilibrio fra i poteri dell’Ue e fra questi e quelli nazionali...
PIERGAETANO MARCHETTI — La posizione della Corte costituzionale tedesca va valutata anzitutto sul piano politico. Costituisce l’espressione più oltranzista degli Stati del Nord. Trascende la questione specifica sulla quale verte, cioè la legittimità del quantitative ea
sing, dell’acquisto di titoli da parte della Bce. La Corte di Karlsruhe rivendica agli Stati membri un potere di continuo monitoraggio del rispetto dei limiti di competenza da parte dell’Unione. Afferma che le Corti dei singoli Stati possono giudicare non adeguatamente motivate le decisioni dell’organo di giustizia suprema dell’Ue, ritenendole in tal caso «arbitrarie» e quindi non vincolanti per legittimare l’azione delle istituzioni europee. Si tratta di una inversione del fondamento di un sistema federale. La tesi per cui i singoli Stati, tramite le loro Corti supreme, possono essi giudicare se l’azione di una istituzione europea (qui la Bce, ma il principio può valere per qualsiasi altra istituzione) sia rispettosa del principio di proporzionalità o di altri standard, indipendentemente dalla valutazione della Corte di giustizia europea, ha in sé un’enorme potenzialità disgregatrice.
ANTONIO PADOA-SCHIOPPA — La sentenza di Karlsruhe pretende ingiustamente di accreditare la legittimità di un’interpretazione a livello nazionale di una pronuncia della Corte di giustizia europea, che è la sola Corte legittimata a pronunciarsi sui Trattati, dai quali è retta la Banca centrale europea. Se poi si arrogasse il diritto di bloccare direttamente o indirettamente l’adesione della Bundesbank a una decisione della Bce alla quale la Banca federale tedesca ha partecipato nel Consiglio della stessa Bce, saremmo in presenza di una violazione dei Trattati, passibile di un’azione davanti alla Corte europea. Disattendere l’autonomia della Bce, che proprio la Germania ha voluto, appare comunque paradossale. Ma non penso che ciò accadrà. Anche a Berlino le forze proeuropee non sono spente, perché sono ben chiari a molti gli immensi vantaggi che sono derivati ai tedeschi dal mercato unico e dalla moneta comune.
MAURIZIO FERRERA — Forse è proprio pensando a questi vantaggi che la cancelliera ha deciso di ascoltare Macron e formulare il 18 maggio una nuova proposta.
ANTONIO PADOA-SCHIOPPA — L’iniziativa francotedesca è davvero molto importante. I due governi hanno proposto di mettere a disposizione 500 miliardi a fondo perduto (non un prestito!) per gli investimenti, Green Deal incluso. Le erogazioni non saranno necessariamente proporzionali ma commisurate alle necessità dei vari Paesi: uno sviluppo nell’ottica della solidarietà, un vero avvio di politica economica europea, complementare rispetto alla stabilità garantita dalla Bce. Siamo inoltre alla vigilia del superamento del divieto di eurobond da parte della Germania.
MAURIZIO FERRERA — Secondo la famosa «maledizione di Jean Monnet», l’Europa progredisce solo con le crisi e la proposta franco-tedesca lo dimostra. Anche l’emergenza Covid-19 ha un evidente potenziale «costruttivo». Questa «poli-crisi» è un banco di prova cruciale. Di fronte a uno choc esogeno comune a tutti gli Stati, la Ue non può sottrarsi ai suoi doveri di solidarietà, peraltro espressamente previsti dai Trattati. Dal punto di vista politico, dobbiamo lavorare in due direzioni: smascherare gli alibi del «sovranismo in doppiopetto» dei Paesi del Nord; far leva sul «sovranismo deluso» del Sud. In Europa c’è ancora una vasta maggioranza a favore dell’integrazione, che peraltro inizia a uscire allo scoperto: i Verdi tedeschi stanno emergendo come la principale forza propulsiva nel Parlamento europeo e c’è da sperare che esercitino un ruolo simile anche in Germania. L’Italia deve giocare bene le sue carte. Mettendo in chiaro che sul fronte del debito è capace di farcela da sola e che ha in mente un ambizioso rilancio dell’economia, in direzione dell’apertura e della collaborazione fra Paesi. Bisogna convincere i nostri partner che «l’Italia conviene». Aiutarla non è uno spreco, ma può essere una scommessa con vantaggi per tutti. Un’operazione tutt’altro che facile, ovviamente. Ma per noi decisiva, e che per questo richiede una mobilitazione straordinaria non solo da parte della politica, ma anche e forse soprattutto della società civile e dei suoi gruppi dirigenti.