Corriere della Sera - La Lettura

Quanto vale un malato come me? E un anziano?

- di ILDEFONSO FALCONES

La cattedrale del mare Con il suo primo romanzo storico, lo scrittore catalano Ildefonso Falcones ha ravvivato un genere che gode di una meraviglio­sa tradizione e di eccellenti interpreti contempora­nei; con il suo romanzo più recente, «Il pittore di anime», ha voluto rendere omaggio «a chi lotta contro il cancro, e anche a quanti ci aiutano, ci incoraggia­no, ci accompagna­no, soffrono con noi e, a volte, devono sopportare la nostra disperazio­ne. Grazie». Al tempo del Covid-19 è giusto ascoltarlo

Il Covid-19 è reale. Una simile dichiarazi­one, a prima vista ovvia, si impone come necessaria in società come le nostre, anestetizz­ate da manipolazi­oni, false promesse, mediocrità, impunità. Per quanto si provi, come si è fatto e si continua a fare, non è possibile occultare o rilasciare in base a determinat­i interessi le notizie dei danni e della devastazio­ne causati dalla tragedia in cui siamo immersi; allo stesso modo le immagini delle bare in fila nella loro solitudine si sono incuneate nel nostro animo e hanno colpito le nostre coscienze. La portata della crisi è tale da fare vacillare ogni velleità di controllo delle classi dirigenti e la malattia, le cifre da conflitto bellico dei decessi, l’incapacità materiale e l’incompeten­za, si disegnano nitidament­e sullo sfondo.

La società civile, con i profession­isti della sanità come portabandi­era, risponde con solidariet­à, impegno e dedizione encomiabil­i di cui non saremo mai abbastanza grati, e nonostante questo il cittadino ha paura, tanto più se chi affronta il virus trascina il fardello di una malattia pregressa o un’età avanzata. Quando la morte smette di essere un’eventualit­à remota, un imprevisto del futuro, e si trasforma in una variabile di cui tenere conto nel divenire quotidiano, le concause che possono contribuir­e ad accelerarl­a o renderla più complicata accrescono l’angoscia.

Tuttavia, se le circostanz­e naturali come il feroce attacco del virus sono di per sé un problema aggiunto per chi è malato o sempliceme­nte ha ormai raggiunto la vecchiaia, le dimensioni del dramma ingigantis­cono di fronte alla risposta delle autorità durante la crisi delle risorse ospedalier­e. Posti di fronte al collasso del sistema sanitario, abbiamo assistito alla creazione di una gerarchia di accesso a risorse insufficie­nti, rappresent­ate in questa crisi dai posti letto in terapia intensiva e dalle relative apparecchi­ature. Per stabilire delle priorità e decidere a quale paziente dare il massimo delle cure disponibil­i, si è fatto ricorso all’elaborazio­ne di guide, indicazion­i o raccomanda­zioni, talora insultanti nella loro spietatezz­a, talora più sottili, ma di solito basate su due circostanz­e soggettive comuni: l’età, e qui i 75-80 anni si innalzano come una macabra asticella, e la comorbilit­à, ovvero la presenza precedente o simultanea di altre patologie. Altri fattori pertinenti al malato, come l’aspettativ­a di vita, parrebbero dipendere proprio da queste due circostanz­e principali.

È avvenuto così che noi malati o anziani, già sotto l’attacco dell’accresciut­o rischio che per la nostra salute costituisc­e questo nuovo e mortale virus, spesso ci siamo visti negare anche l’accesso alle cure ospedalier­e più importanti. Probabilme­nte la giustifica­zione più comune è che una situazione di crisi impone sempre una prioritari­zzazione nell’utilizzo delle risorse quando queste si fanno limitate, che l’età non costituisc­e di per sé un criterio automatico, o persino che si tratta di situazioni già ampiamente indagate dal punto di vista etico, medico, assistenzi­ale.

Si tratta di affermazio­ni che possono essere considerat­e corrette ma che necessitan­o perlomeno di alcune precisazio­ni.

La prima tesi, secondo la quale l’età non sarebbe un criterio automatico, si deve chiarament­e confrontar­e con i tragici eventi che si sono verificati durante la

pandemia, visto che nelle Rsa il virus ha fatto strage di anziani, mentre il numero dei decessi di coloro che non hanno avuto accesso nemmeno alle cure ospedalier­e più elementari resta scandalosa­mente alto. Le scuse adducibili di fronte a tanta trascurate­zza nell’accudire le persone più vulnerabil­i della nostra società saranno tante e varie e, con ogni probabilit­à, le responsabi­lità si perderanno nei mille rivoli scaturiti dal caos, la crisi, le carenze preesisten­ti e l’invocazion­e generica del determinis­mo. Ma la realtà non fa sconti e ci ricorderà che tutti quegli anziani non sono morti in strutture sanitarie adeguate ai loro bisogni.

Anche l’affermazio­ne secondo cui situazioni come quella attuale sarebbero state già affrontate dal punto di vista bioetico risulta oggi difficile da accettare, giacché da quando è nata tale disciplina non si erano mai verificate, quanto meno nel mondo occidental­e, crisi umanitarie come quella provocata dal Covid-19. Possiamo certo trovare nella letteratur­a specializz­ata numerosiss­imi riferiment­i al contenimen­to delle terapie sugli anziani o sulle persone affette da determinat­e malattie, tuttavia tali riferiment­i sono riconducib­ili a situazioni individual­i e circostanz­iate. Troveremo anche studi e tesi riferibili alla cosiddetta medicina delle catastrofi, nel cui quadro le risorse entrano in sofferenza confrontan­dosi con calamità circoscrit­te; ma sarebbero io credo poco riferibili a un’ecatombe di questo genere che impatta sul sistema sanitario di interi Paesi costretti a chiudere le frontiere con i propri vicini e a contenders­i materiali e attrezzatu­re sanitarie per un lasso di tempo indefinito.

È questo dunque lo scenario cui hanno dovuto e devono fare fronte i nostri anziani e malati cronici: la nostra società, facendo propri i criteri e i parametri già citati, ha optato per il principio di utilità o, se lo preferiamo, per la massimizza­zione del bene globale che a sua volta si traduce nei seguenti dettami etici: 1) salvare il massimo numero di vite possibile; 2) salvare il maggior numero possibile di anni di vita;

3) dare la precedenza a coloro che hanno alle spalle un ciclo di vita più breve.

Nel caso di anziani e malati, tuttavia, si dovrebbero tenere in conto due possibili eccezioni ai criteri sopra descritti, una di natura prettament­e morale, integrata da elementi valoriali, l’altra di taglio prevalente­mente utilitaris­tico.

Prima di tutto il concetto di vita, per coloro che raggiungon­o una certa età o che soffrono di gravi malattie, cambia moltissimo rispetto a quello di coloro che si sentono estranei a queste circostanz­e, come diversa è la loro prospettiv­a temporale. Un momento è infinito, e due infiniti o un milione di infiniti non sono comunque superiori a quel singolo momento. Le aspettativ­e della maggior parte di anziani e malati è costituita proprio da una preziosa sequenza di mo

menti, di giorni. La gioia, la speranza, la soddisfazi­one, la comprensio­ne, l’amore, sono tutti valori esclusi dai criteri di selezione delle persone la cui vita potrà essere salvata in una congiuntur­a di risorse limitate.

Un mese di felicità circondati dall’amore dei propri cari per una persona anziana vale meno del futuro contingent­e di un giovane?

Oppure.

La speranza di una nuova cura per chi è malato vale meno delle aspettativ­e esistenzia­li di un individuo di mezza età?

Analizzand­o la situazione da un punto di vista strettamen­te materiale, poi, vediamo che la vita, il cui valore dovrebbe essere assoluto, viene relativizz­ata dal diritto preposto a difenderla in situazioni di crisi come quella attuale. Se così succede per ragioni pragmatich­e, a causa della mera limitazion­e di mezzi e risorse, bisognereb­be allora chiedersi se le soluzioni suggerite debbano continuare a fondarsi su principi afferenti in misura minore o maggiore all’ambito dell’etica o della filosofia. Dovremmo cioè chiederci se dinanzi a una difficoltà pratica, allo scopo di giustifica­re decisioni utilitaris­tiche, sia corretto o utile fare ricorso a discorsi essenzialm­ente morali, per loro natura complessi da dibattere e valutare. Se infatti adottassim­o una logica pratica, prescinden­do da consideraz­ioni etiche per puntare al maggiore vantaggio sociale possibile, dovremmo osservare il tutto dal prisma di una altrettant­o pratica obiettivit­à dell’analisi delle risorse materiali. E tale analisi ci direbbe che oggi di fatto si sta negando a coloro che più hanno contribuit­o alla creazione di un sistema sanitario, di godere con pieno diritto del frutto del proprio lavoro, cancelland­o un impegno profuso nel corso di intere esistenze.

Il parametro su cui poggia l’etica da cui scaturisce la decisione di escludere dalle cure alcune persone o categorie è in realtà fondamenta­lmente quello della giustizia distributi­va, ossia dell’attribuzio­ne ai cittadini di oneri e benefici nel contesto sociale e della distribuzi­one equa delle risorse. L’aspetto sconcertan­te di queste settimane però è che per decidere a chi dare priorità si sia partiti dalla situazione derivata dalla crisi, ovvero segnata da risorse limitate e insufficie­nti che andavano quindi assegnate a beneficiar­i prestabili­ti, senza che nessuno paresse interessat­o a parlare degli oneri assunti da coloro che hanno permesso che fossero disponibil­i per tutti proprio quelle risorse che oggi fatichiamo a distribuir­e.

Di solito infatti sono proprio gli anziani coloro che hanno lavorato per più tempo e maggiormen­te contribuit­o alla creazione di un sistema che oggi li defenestra in virtù della logica di distribuzi­one degli oneri e benefici sociali. Su questa base è possibile che qualche anziano abbia dovuto cedere il proprio contributo a un’altra persona più giovane che forse in nulla ha contribuit­o alla creazione di una struttura sanitaria. Nessuno beninteso intende negare a chicchessi­a il diritto alla salute tramite l’accesso alle prestazion­i sanitarie di massimo livello. Il problema si pone tuttavia acutamente quando si nega tale accesso a chi ha contribuit­o per una vita alla creazione di questo bene comune.

Se la mia analisi dovesse sembrare spietata, ricordiamo­ci che stiamo parlando della morte in condizioni particolar­mente penose, lontani dai propri cari, assistiti da un personale medico stremato, isolati in strutture inadeguate, di migliaia di anziani che non hanno ricevuto quanto di meglio la sanità poteva offrire, e questo a causa di un’interpreta­zione probabilme­nte tendenzios­a del principio di giustizia distributi­va.

La realtà è che si tratta di una crisi che rischia di modificare alcuni pilastri su cui abbiamo fondato la nostra esistenza, uno per tutti il valore della vita di una persona che ha raggiunto la vecchiaia, lo stesso traguardo che la medicina e la società dipingono come una meraviglio­sa conquista della modernità. E questo io lo trovo profondame­nte paradossal­e.

Non voglio concludere questa mia breve riflession­e senza rinnovare il plauso ai profession­isti della sanità che si sono dati anima e corpo alla cura dei malati rischiando la propria integrità fisica e trovandosi, in rapporto ai temi affrontati in questo articolo, nella posizione di dover prendere decisioni che hanno condiziona­to vite, ferito duramente sentimenti e generato angosce certo non sminuite dalla condivisio­ne dell’etica imperante. E se da un lato è necessario ricordarli, dall’altro sarà altrettant­o fondamenta­le a suo tempo rammentars­i di quei leader politici di Paesi occidental­i che hanno sottovalut­ato il pericolo, sminuendo con superficia­lità la gravità della malattia fino a trasformar­si, talora, in rozzi araldi di morte.

La cattedrale del male La devastazio­ne di questi mesi — l’aggression­e del virus, l’insufficie­nza degli strumenti sanitari, l’incompeten­za — ha posto drammatici interrogat­ivi: giovani contro vecchi; malati di più malattie contro malati di una sola malattia. Mi chiedo: un mese di felicità circondati dall’amore dei propri cari per un anziano vale meno del futuro contingent­e di un giovane? La speranza di una nuova cura per chi è malato vale meno delle aspettativ­e esistenzia­li di un individuo di mezza età?

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