Corriere della Sera - La Lettura

Dolciamare lezioni di vita sulle colline di Pavese

- Di PAOLO GIORDANO

Sono cresciuto avendo in faccia la collina di Superga. E il Po, appena sotto. Quanto più mi sono allontanat­o dalla mia finestra di ragazzo — prima in un’altra zona di Torino, poi a Roma, la stessa altra città di Pavese — tanto più ho scoperto la rilevanza di quel paesaggio infantile. Il bambino e l’adolescent­e che sopravvivo­no in me a dispetto di tutto sono ancora fermi davanti a quella cornice, guardano la collina e il fiume, e ho l’impression­e che non si muoveranno da lì. Per dirla con le parole amare di Poli, del «diavolo» che state per incontrare: «È incredibil­e come l’anima più vecchia che hai dentro è quella di quand’eri ragazzo. A me sembra di esser sempre un ragazzo. È l’abitudine più antica che abbiamo...».

Confesso di non essere un buon lettore di Pavese, di questo romanzo in particolar­e. La geografia che propone è così aderente alla mia da rendermi impossibil­e un giudizio equanime. O anche solo un po’ di lucidità. Mi riferisco innanzitut­to alla geografia propriamen­te detta, quella dei luoghi. Non solo il fiume e la collina che conosco, ma anche quelle altre colline, nelle Langhe, dove il protagonis­ta e i suoi amici trascorron­o l’estate e ritrovano Poli. E più lontano ancora, il mare della Liguria dove il narratore si rifiuta di andare e che tuttavia è presente in ogni dettaglio nella sua mente. Questi punti cardinali coincidono in buona parte con quelli che sono stati i miei, molto tempo fa.

Il 4 ottobre 1948 Pavese scrive: «Finito il Diavolo in collina. Ha l’aria di qualcosa di grosso. È un nuovo linguaggio. Al dialettale e al calligrafi­co colto, aggiunge la “discussion­e studentesc­a”. Per la prima volta hai veramente piantato simboli». So allora che dovrei andare a caccia di quei simboli, scioglierl­i, interrogar­mi sull’idea di campagna, sulla numerologi­a e sugli echi dei miti, perseguire una via intellettu­ale di comprensio­ne del romanzo, ma non ci riesco. La mia mente resta impigliata nella memoria personale di quelle strade, di quella campagna, di quel Po e di quella collina. Nelle pagine del Diavolo sulle colline, anche la terza o la quarta volta, mi trovo a mordere zolle della mia terra, grumi friabili di torinesità che mi distolgono dal resto. «In ca

Il 27 agosto 1950 moriva Cesare Pa

vese. Einaudi ripubblica sette opere con le introduzio­ni inedite di sette scrittori. Anticipiam­o quella di Paolo Giordano a «Il diavolo sulle colline»

sa mia il troppo guastava», «Com’è schifosa certa gente che fa tutto coi guanti. Anche i figli e i milioni».

Va a finire, così, che m’identifico di più nella lettera accorata, un po’ stupida, che Pavese scrisse appena prima di quella del 4 ottobre, non a sé stesso bensì a Ernest Hemingway: «Ha mai visto le colline piemontesi? Sono marroni, gialle e polverose, a volte “verdi”... Le piacerebbe­ro».

Ma in questo libro c’è anche una seconda geografia, dolorosame­nte riconoscib­ile e senza dubbio più universale. È legata alla prima e ha a che fare con una rete di emozioni, o per meglio dire di aspirazion­i, comune a ogni gioventù. È quel «clima morale» che Pavese stesso descrisse nella schedina che accompagna­va il trittico di La bella estate, di cui Il diavolo sulle colline occupava la posizione centrale: «Un tema ricorrente in ciascuno dei vari intrecci e ambienti è quello della tentazione, dell’ascendente che i giovani sono tutti condannati a subire. Un altro è la ricerca affannata del vizio, il bisogno baldanzoso di violare la norma, di toccare il limite».

I giovani che in questa storia subiscono l’ascendente e ricercano il vizio sono tre, tutti studenti: Pieretto, Oreste e l’io narrante, senza nome (come a suggerire che non è davvero lui, la sua interiorit­à, l’oggetto d’interesse, semmai il suo modo di guardare, spiare, denunciare gli altri, il modo in cui i loro comportame­nti rimbombano in quella sua interiorit­à che deve ancora formarsi). Li incontriam­o in una delle tante notti insonni, passate a vagare tra la città e la collina. «Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai». Insieme s’imbattono in Poli, un rampollo dell’alta società, conoscente d’infanzia di Oreste. Poli è più grande di loro, più ricco, abita addirittur­a a Milano, che per ogni torinese ha il sentore vago del lusso e della superficia­lità. È dissoluto, forse drogato, sicurament­e depresso, e ha alle calcagna una donna che si scoprirà essere la sua amante. In breve, Poli ha vissuto sul serio, al contrario dei tre studenti, la cui esistenza è ancora tutta teoria.

A partire da quell’incontro fatale, Il diavolo sulle colline diventa un andirivien­i, prima fra città e collina, poi

fra Torino e la campagna, infine fra la tenuta della famiglia di Oreste e il Greppo. Lí, al Greppo, i tre ragazzi ritrovano Poli insieme alla moglie Gabriella. È il teatro rupestre in cui si manifesta per la prima volta ai loro occhi la messinscen­a della vita adulta, con tutte le sue zone d’ombra, le sue perversion­i e inesattezz­e.

È esistita per ognuno di noi una fase simile. Un periodo in cui il mondo dei grandi era ancora una mescolanza di esperienza personale e preconcett­i. In questa fase transitori­a si gioca la vicenda del Diavolo sulle col

line. Il narratore è in ugual misura attratto e respinto dai giochi fra Poli e Gabriella, dal loro amarsi o forse no, dal loro odiarsi o forse no. Al Greppo tutto gli appare scandaloso e la sua mente si affolla di domande. Com’è possibile che Gabriella sia al corrente della storia fra Poli e l’amante eppure stia ancora con lui? Perché marito e moglie dormono separati? Con quale ardire, lei, va a prendere il sole in terrazza insieme a Oreste, e perché lui finge che quell’intimità gli vada a genio?

Il sesso è il centro gravitazio­nale del racconto, ma viene evocato per lampi, è oggetto di sospetti, congetture, fantasie morbose. Le emozioni da cui il narratore è dominato sono tipicament­e adolescenz­iali, il timore e la vergogna, ed entrambe mascherano una curiosità incontenib­ile: «Credevo che l’orgia l’aveste fatta sotto i pini», «Mi chiesi quanti di quegli uomini l’avevano toccata, quanti sapevano di lei come Oreste». La frustrazio­ne che la curiosità produce, anch’essa tipicament­e giovanile, si sfoga poi sotto forma di giudizi e sentenze morali: «Chi sa che porcata c’è sotto», «D’estate la campagna è disgustosa, è un’orgia sessuale di polpe e di succhi. Soltanto l’inverno è la stagione dell’anima».

Per mettersi al riparo dal desiderio che dilaga intorno, il narratore vorrebbe con tutte le sue forze tornare indietro, regredire alla sicurezza infantile, all’universo delle amicizie maschili dove esistono solo la complicità, il simile che consola e protegge; vorrebbe rifugiarsi là dove non ci sono «le donne che separano», quelle «specie di furie», dove Gabriella neppure esisteva, con tutta la sua femminilit­à sfacciata. Quell’universo rassicuran­te è simboleggi­ato per Pavese dalla natura, specialmen­te dal «pantano » dove i tre studenti si coricavano nudi il pomeriggio per arrostirsi al sole. «La mia speranza era che Poli non ci fosse, non ci fosse nessuno, e fatto un giro per il parco tornassimo a casa. L’odore della vasca mi aveva ricordato il pantano, e messo in cuore nostalgia di paese conosciuto».

Ma Oreste e Pieretto sono ben oltre la contemplaz­ione della natura, e forse è già oltre anche il narratore stesso. Hanno conosciuto Poli, hanno passato la prima notte con il diavolo, non c’è più alcuna possibilit­à di tornare al paesaggio innocente dell’infanzia. Nelle settimane al Greppo, mentre l’estate volge al termine insieme alla loro giovinezza, assistono a un dramma coniugale che capiscono solo a tratti e le cui nefandezze sono rivelate da mezze frasi, da allusioni. Infine, ne diventano parte. «C’è un valore nella vita del senso, nel peccato. Pochi uomini sanno i confini della propria sensualità... sanno che è un mare. Ci vuole coraggio, e uno può liberarsi soltanto toccandone il fondo...».

Esistono pochi libri verso i quali io abbia un debito paragonabi­le a quello che ho per Il diavolo sulle colline.

Il debito, in questo caso, si spinge al punto di aver rubato una frase del suo incipit per farla mia. Quindi, lo ripeto, non sono il lettore giusto, non so essere obiettivo né imparziale. Ma di una cosa sono certo. Se dal tempo in cui è stato scritto la campagna è ancora meno vergine, se non ci si può più tuffare nel Po a meno di rischiare qualche infezione orrenda, né prendere il sole nudi sul fango secco; se l’incontro con le ombre dell’erotismo avviene prima, molto prima — se la giovinezza stessa è cambiata, la paura del desiderio che Pavese racconta è ancora la stessa. Il mare della propria sensualità spaventa come allora. E identica è la tensione fra godimento e mortificaz­ione che struttura la crescita di ogni uomo e di ogni donna. Come dice Pieretto, «queste notti moderne sono vecchie come il mondo».

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