Corriere della Sera - La Lettura

Ho recitato con Eduardo e vi racconto com’era

- Di VINCENZO SALEMME

Quando penso a Eduardo, mi tornano in mente ricordi in libertà. Vengo travolto da una serie di immagini e voci e ricordi e commedie e odori e colori... Vorrei provare a scrivere di getto per non costringer­vi a leggere un pezzo pieno di parole arrotolate sulla nostalgia e su cose che avrete già sentito mille volte. Vorrei provare a trasmetter­vi il mio ricordo, il ricordo di un’epoca d’oro del teatro italiano. L’ultimo tempo dei grandi personaggi, delle dive, delle discussion­i e della cultura, una cultura intrisa di curiosità e voglia di vivere. Di vivere il presente non per fondare una nuova umanità, ma affinché l’umanità potesse vivere appieno il mondo che conoscevam­o. Ci provo.

Eduardo con la U, alla napoletana, perché era napoletano nella profondità della sua natura cruda e severa. Era napoletano nella sua casa di Posillipo che per arrivarci dovevi affrontare una salita storta e ripida, nascosta alla vista della strada più grande. Era napoletano nella sua isola di Isca, di fronte a Nerano, accanto all’isola dei Galli, tre scogli meraviglio­si, proprietà di un grande ballerino russo, Massine, che poi la cedette a Nureyev. Mescolati ai mobili comprati, c’erano pezzi presi dalle tante scenografi­e dei suoi spettacoli a fare da arredament­o in quelle due case. C’erano opere di grandi o sconosciut­i artisti. Erano ricche di colori e di contrasti.

Erano più «realistich­e», più adatte alla vita quotidiana, invece, le due case romane: l’appartamen­to dei Parioli e la casa principale a via Aquileia, dove ho fatto le prime prove teatrali della mia vita con i De Filippo, padre e figlio. Fu in questa casa che ho visto per l’ultima volta il «direttore», era così che preferiva essere chiamato da noi attori e tecnici della compagnia. Facevamo le prove di una sua commedia e lui ne curava solo la regia per il figlio Luca, diventato a sua volta capocomico, raccoglien­do un’eredità così pesante che a volte temevo che il giovane figlio potesse «spezzarsi». Ricordo le parole velate dall’affanno che Eduardo ci rivols e i n u n a p a u s a : « Mi r a c c o ma n d o , studiate bene le parti perché stavolta mi sa che non ci rivediamo».

Poi andò a Taormina Arte in settembre, dove tenne un discorso che mi fece infuriare di dolore quando disse che «...il teatro è gelo!»; pensai a quanto avesse sofferto nella vita quell’uomo con le fosse senza vezzi nelle guance scavate, credo sopratutto, dalla perdita dell’adorata figlia Luisa. Aveva gli occhi ingranditi ancora di più dalle lenti spesse supportate da una montatura di tartaruga; una delle due lenti, negli ultimi tempi, era opacizzata per allenare l’occhio più debole. Sul palco di Taormina chiese affetto per il figlio Luca, e questo mi fece piangere perché ho voluto tanto bene a Luca, attore timido e schivo, in dote un affetto incondizio­nato del pubblico in sala.

Eduardo morì pochi giorni dopo la serata di Taormina. A Salsomaggi­ore, dopo aver salutato il figlio (me lo raccontò proprio Luca) e la moglie, si addormentò per sempre. La moglie, Isabella Quarantott­i, donna bellissima e mamma di Angelica Ippolito, figlia di Felice, scienziato napoletano di livello internazio­nale. Ricordo Angelica compagna nella vita dell’immenso Gian Maria Volonté. E la ricordo moglie di Eduardo in scena, lei meno di trent’anni e lui ottantenne, potenza del teatro!

Ricordo l’addio di Eduardo alla profession­e di attore, per stanchezza fisica, in una conferenza stampa al teatro Quirino di Roma dove eravamo in scena con alcuni suoi atti unici e una fila di spettatori che non finiva mai, c’era gente che dormiva fuori in attesa di un biglietto. Facevamo tre mesi di permanenza a Roma, circa 90 serate!

Ricordo in quel teatro la visita di Ingrid Bergman. Eduardo era rappresent­ato in molti Paesi: tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, il grande Lawrence Olivier era venuto in Italia per conoscerlo e portarlo a recitare sui palcosceni­ci di Londra.

Dire Eduardo per me vuol dire 1974, avere 17 anni, uscire da scuola e andare in stazione dove prendere un treno per Roma e assistere a una replica pomeridian­a di Natale in casa Cupiello. Eduardo per me vuol dire Cinecittà, il luogo che mi aveva fatto sognare ogni giorno nel piccolo cinema del mio paese, il cinema Sibilla, con tutte le pellicole di Maciste, Ursus e Sansone, con gli spaghetti western. E a Cinecittà nel 1977 feci il provino per Eduardo, davanti a tutta la compagnia. A Cinecittà, nel mitico studio 5, quello di Federico Fellini, ho visto da vicino le gambe di Monica Vitti dopo aver duettato in scena con lei! Ho recitato con Monica Vitti, Eduardo e la superba Pupella Maggio. Sento ancora la gioia e l’orgoglio vanitoso che provavo in quei giorni.

Adesso mi comprendo, comprendo la tentazione della presunzion­e, avevo appena 19 anni! Ero partito senza arte né parte dal mio paese e adesso stavo recitando con il più grande uomo di teatro dell’intero Novecento!

Nel 1978 Eduardo festeggiò il compleanno inaugurand­o il teatro Tenda di piazza Mancini, inventato da Carlo Molfese, e mi volle tra gli ospiti della serata. Recitai una scena dal Cilindro, con Monica Vitti (Eduardo mi rimproverò tantissimo alle prove generali perché non pronunciav­o interament­e le parole, mi «mangiavo» le sillabe finali, come accade spesso a noi attori napoletani autodidatt­i). Quella sera dissi pure un paio di battute con Marcello Mastroiann­i. A recitare erano in tanti, tutti grandi, tutti semplici, tutti appassiona­ti. C’erano la Fracci, Gassman, Gigi Proietti, la Moriconi, la nuova compagnia di canto popolare capitanata dal genio di De Simone.

Ma vi rendete conto in poche righe quanti nomi famosi e quanti punti esclamativ­i ho già utilizzato!? Ve l’avevo detto che vi parlavo di un’epoca d’oro. E non vi ho detto che poco tempo dopo, sempre grazie a Eduardo, sul palco, ancora una volta, del teatro Tenda di Roma ho visto da vicino il mio mito, era il 1981, un giovanissi­mo e già amatissimo Massimo Troisi, lo ricordo seduto di fronte al «direttore», in silenzio, con i gomiti sulle ginocchia e i pugni a sorreggere il mento, in ascolto. E a chi invece l’ascolto volesse dedicarlo alla diceria di un Eduardo cattivo rispondo con un ricordo, una sua frase, rivolta a uno di noi giovani attori, durante le prove di Ditegli sempre di sì: l’attore era così spaventato da Eduardo da non riuscire quasi a parlare... «Ma pecché ve mettete accussi’ paura ’e me? Che v’aggio fatto?». Lo chiese con disperata tristezza. Consapevol­e che il dolore che portava in ogni gesto, in ogni angolo del corpo, venisse confuso con la cattiveria, con un distacco superbo e cinico.

Io ho conosciuto un uomo buono, che accarezzav­a in silenzio la sua gatta Pallina, a macchie bianche e nere, con le mani provate da una feroce artrite deformante che gli procurava dolori spesso insopporta­bili e gli impediva persino di percepire la terra sotto i piedi. Ho conosciuto un uomo che alla morte del fratello mi disse: «Se Peppino avesse fatto solo il teatro comico, io avev’a chiudere ’o libro», intendendo che Peppino fosse inarrivabi­le per lui, almeno in quanto alla sua versatilit­à nel suscitare il riso.

Ho conosciuto un uomo che alla fine del debutto fiorentino al teatro La Pergola del primo spettacolo di Luca capocomico, fece un discorso a noi giovani attori. Il succo era questo: «Siate felici quando un applauso sottolinea la battuta di un vostro compagno perché quell’applauso appartiene a tutti voi, lo avrete conquistat­o insieme. Io ho fatto teatro quando gli attori erano analfabeti, incattivit­i dall’ignoranza. Era un ambiente pieno di diffidenze, di fame, di paure. Voi, oggi, potete studiare, avete tutti i mezzi e tutte le ragioni per essere migliori di noi».

Se questo è un uomo cattivo, come mai, a distanza di quasi 40 anni, mi manca ancora così tanto?

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