Corriere della Sera - La Lettura
Tutte le devastazioni del Capitalocene
Che cosa ha modificato i rapporti tra masai e leoni? Perché i salmoni fanno più fatica a risalire i fiumi? Non è la presenza dell’uomo. È il modo di agire. Silvio Valpreda firma un diario di viaggio sulle orme di James W. Moore, critico del capitalismo
Viviamo un’epoca che fatichiamo a definire, che ancora non possiamo chiamare per nome perché un nome che metta tutti d’accordo non c’è. Per qualche tempo Antropocene sembrava essere il migliore e unico candidato, ma la sua diffusione ha messo in moto analisi e critiche e ha portato a nuove proposte. La filosofa Donna Haraway propende per Chthulucene, un omaggio alle creature di un «pianeta danneggiato» con le quali dovremmo stringere parentele più strette (il termine è ispirato al ragno Pimoa cthulhu). Il decano dell’ecologia James Lovelock ha risposto con Novacene, l’era delle macchine intelligenti create dall’uomo, in grado di aiutarci a limitare la pressione ecologica che esercitiamo sul pianeta. Stephen J. Pyne, dopo avere studiato i roghi in Amazzonia, Australia e Russia, è convinto che ci troviamo in pieno Pirocene, l’epoca dei grandi incendi boschivi. Nella lista, che pare destinata ad allungarsi ogni anno, è presente anche il termine coniato da Jason W. Moore, storico dell’ambiente e docente di Economia politica a Binghamton (Usa): Capitalocene.
La proposta di Moore, discussa nel libro del 2016 Antropocene o Capitalocene? (pubblicato in Italia da ombre corte edizioni), è una critica al concetto stesso di Antropocene, colpevole di descrivere l’attuale situazione del complesso socio-ambientale senza mettere sotto la lente, prima di ogni altra cosa, il capitalismo e le sue dinamiche. Oggi alcuni sostengono, con una battuta, che il trattino che divide socio da ambientale andrebbe eliminato. Moore sarebbe d’accordo, e aggiungerebbe che a tenerli uniti è proprio l’economia capitalista, che altera gli equilibri nelle società umane e al tempo stesso sfrutta le risorse del pianeta. È un moloch, una forza che agisce in ogni angolo del globo, pervasiva e intensiva, tanto che se ci mettessimo a mapparne la diffusione seguendone le filiere finiremmo per fare il giro del mondo.
Qualcuno ha preso sul serio questa idea, trasformandola prima in progetto e poi in libro. È un torinese, classe 1964: Silvio Valpreda. Scrittore e artista pop specializzato in design e arte visuale, ha visitato diversi Paesi, osservando con attenzione elementi naturali, spazi urbanizzati e dinamiche sociali. Il carnet de voyage a cui ha dato forma — e che oggi add editore porta in libreria con il titolo Capitalocene. Appunti da una nuova era — è il compendio perfetto del saggio di Moore: un libro che ricorda una lunga infografica, capace di portare il lettore a visualizzare le conseguenze del fare capitalistico sugli equilibri socio-ambientali del pianeta.
Grazie a illustrazioni dirette e schematiche, questo diario di viaggio è una carrellata di immagini che rendono palpabili le drammatiche alterazioni degli ecosistemi e delle pressioni a cui le specie che tentano di abitare quello spazio modificato, esseri umani compresi, sono sottoposte. Alcune di queste immagini sono vere planimetrie, come quella della casa di Miami in cui l’autore ha soggiornato durante uno dei suoi viaggi. L’edificio divide due «ecosistemi»: dalla finestra della cucina è possibile vedere la piscina dei vicini, quella del salotto mostra un vicolo in cui trova posto un cassonetto dell’immondizia, fonte di cibo per un orsetto lavatore e un senzatetto. Le note che accompagnano le illustrazioni sono quasi superflue: la pianta dell’area mostra in modo inequivocabile ciò che spesso non vogliamo vedere.
Davanti a simili esempi, che a prima vista potrebbero sembrare epifanie vagamente naïf, Valpreda si chiede quale sia la forza in grado di esercitare pressioni così notevoli sui viventi e sul territorio in cui essi tentano di sopravvivere. Per trovare risposte, e condurci verso la trattazione più dettagliata delle tesi di Moore sul Capitalocene, si serve di altri esempi, mostrando come la trasformazione dello spazio spesso conduca a situazioni surreali. È il caso dell’isola semi-artificiale di Tsukishima, nella baia di Tokyo. A partire dagli anni Cinquanta i grattacieli presero il posto delle case povere dei pescatori, tanto che l’isola venne convertita in una dimora per cittadini benestanti. Ma a causa dei prezzi sempre più alti, Tsukishima è rimasta inabitata per decenni: un ambiente artificiale reso irraggiungibile a qualsiasi categoria di persone. «Per chi è stato creato?», si chiede Valpreda. Quale forza è stata in grado di mutare così profondamente il concetto stesso di abitare un luogo?
Rispondere a simili interrogativi non è semplice, ma questi appunti di viaggio offrono diversi spunti di riflessione. Il più riuscito è legato a un’altra isola, fazzoletto di terra francese nel mezzo delle Bocche di Bonifacio: la disabitata Lavezzi. Anche qui, dove flora e fauna sembrano
le uniche presenze, l’uomo ha modificato l’ambiente, costruendo i due cimiteri che accolgono le spoglie dei 560 marinai della Sémillante, una nave militare naufragata su quelle coste nel 1855. Il semplice atto dell’esistere — o dell’essere esistiti, come suggeriscono le croci di Lavezzi —, comporta una presenza, un’alterazione dello spazio, un consumo delle risorse. Su questa considerazione poggia il significato del termine Antropocene, coniato dall’ecologo Eugene F. Stoermer e rilanciato dal premio Nobel Paul Crutzen. Per Moore invece le cose stanno diversamente: la nostra sola presenza non basta. La vera pressione, in grado di portare a situazioni all’apparenza prive di ogni logica, risiede nella forza propulsiva del capitalismo. Le dimensioni e la collocazione di quelle croci, spiega Valpreda con una dettagliata planimetria dei cimiteri, riflettono le condizioni economiche delle famiglie dei marinai e i rapporti di potere della Francia del tempo (da una parte gli ufficiali, più ricchi, dall’altra i marinai). Esse non testimoniano soltanto una presenza, ma descrivono un sistema e il modo di agire di uno specifico gruppo organizzato di esseri umani.
Il Capitalocene è questo, è l’epoca in cui la crisi ecologica non è dovuta alla nostra sola presenza, ma alle caratteristiche delle nostre azioni, la cui intensità e distruttività variano in base ai luoghi e ai periodi. Forse non è il nome adatto ai nostri tempi, forse in futuro ne verranno coniati di nuovi, più adatti a descrivere il periodo storico intricato in cui oggi viviamo e le forze che ci guidano nella trasformazione del pianeta. Quello che è importante del termine Capitalocene è che ci facilita il compito quando dobbiamo capire che cosa non va. Perché evidenzia che cosa ha modificato il rapporto fra masai e leoni nel Serengeti (l’introduzione di agricoltura e allevamenti intensivi, pratiche che prevedono l’eliminazione di ogni pericolo, per esempio dei leoni), che cosa rende la risalita dei fiumi difficoltosa per i salmoni norvegesi (le numerose dighe che alimentano centrali idroelettriche), che cosa ha portato la Scozia a essere una riserva di caccia per ricchi e un pascolo adatto all’allevamento di pecore da lana (l’intervento dei dominatori inglesi nella gestione delle risorse locali). In ognuno di questi esempi l’impronta del capitalismo è determinante. Inoltre, Capitalocene è un termine che sposta l’attenzione dalla mera esistenza a un preciso modo di agire, dall’essere al fare. Pare cosa da poco, ma è un aspetto da non sottovalutare, perché sostenere che solo l’estinzione di Homo sapiens, o la sua capitolazione, possa cambiare le cose su questo pianeta è l’alibi perfetto per mantenere il drammatico status quo e distogliere gli occhi dal vero problema.