Corriere della Sera - La Lettura
Salviamo gli artigiani dell’arte
Fonditori, stampatori, incisori, corniciai, fabbricanti di telai, venditori di pennelli e colori... in crisi per colpa del virus. Per Mimmo Paladino, e non solo (negli Usa è nato un movimento), sono indispensabili compagni: aiutiamoli o si perderà un tesoro di cultura
Il titolo dell’opera suona come una dichiarazione di poetica. Silenzio, mi ritiro a dipingere un quadro
(1977) è quasi un manifesto, per Mimmo Paladino. Una vetrata di colori cangianti, ispirata a Matisse e a Mondrian. Un mosaico suddiviso in rettangoli policromi. Pavimento, pareti, tappeti, stuoie, oggetti arcaici, animali di natura indefinita. Un ambiente domestico, nutrito di enigmi, geometrie, simboli, sacralità. In quel minimo teatro, un Pierrot schematico: un autoritratto differito dello stesso artista. Che ha sempre pensato la propria esperienza come un’avventura ambigua: la volontà di salvaguardare la specificità della pratica pittorica e plastica convive con il bisogno di agire come un nomade aperto a continui transiti tra pittura e scultura, tra grafica e illustrazione, tra fotografia e cinema, con una forte inclinazione a trasformare l’invenzione individuale in momento pubblico e urbano, pronto a lasciarsi contaminare dalla nostra presenza, privo però di «tentazioni» civili evidenti.
Nelle ultime settimane, questa vocazione «impolitica» è stata messa in discussione da Paladino. Che, come tutti noi, è stato profondamente scosso dal Covid-19: un virus «invisibile, impalpabile, etereo, quasi astratto», decisivo come «un evento epocale, che segna un prima e un poi», sospende «l’inevitabile del sempreuguale» e arriva a cambiare il modo di vedere il XXI secolo.
Lo scorso 28 aprile Paladino, per accompagnare la lettera inviata da Sandro Veronesi a Papa Francesco a nome di tanti artisti, ha pubblicato, sulle pagine del «Corriere della Sera», un dolente disegno: vi appare un Cristo in croce spezzato in due, «ritratto di un (…) amico (…) che da venti secoli indica la strada della salvezza, raffigurato nella postura che lo ha reso così amato, potente e necessario».
Qualche giorno dopo, in sostegno ai musicisti italiani, ha dipinto una colomba della pace dal cui becco fuoriescono strisce di colori-coriandoli. Infine, il j’ac
cuse affidato ora a «la Lettura», il cui senso potrebbe essere colto ritornando a quel che hanno scritto, sempre sul «Corriere», Walter Veltroni e ancora Veronesi. Dietro la complessa macchina dello spettacolo, ha ricordato Veltroni, si nasconde la fatica umile e quotidiana di «una platea enorme e silenziosa», fatta di macchinisti, di datori di luci, di fonici, di custodi di sala, di autisti: autori e operatori hanno la medesima dignità, poiché «non esistono, né l’uno né l’altro, se non in un rapporto di mutuo appoggio».
Queste parole potrebbero essere collegate a quelle di Veronesi, il quale, nella missiva al Papa, ha elogiato gli «amici invisibili, i comprimari, gli assistenti, i tecnici, i lavoratori in genere che danno il loro necessario contributo affinché gli artisti possano indicare (…) la strada per la bellezza». Veltroni e Veronesi hanno fotografato un malessere del quale è testimonianza anche il movimento appena sorto negli Stati Uniti: il NYC Art Workers, formato dai dipendenti di alcuni tra i maggiori musei della città come MoMa, Metropolitan, Dia Art Foundation, New Museum, Smithsonian Museum e Studio Museum. Nell’epoca del coronavirus, queste istituzioni hanno annunciato drastici tagli (il MoMa ha chiuso il dipartimento educativo, il Met ha mandato a casa circa cento addetti all’accoglienza).
Una schizofrenia. Da un lato, il sistema dell’arte promuove artisti impegnati, che affrontano tematiche legate alle emergenze politiche ed ecologiche. Dall’altro lato, lo stesso sistema si dimostra spregiudicato nelle sue scelte. «Ci devono spiegare la discrepanza tra i contenuti artistici che vengono sostenuti e sbandierati e le scelte che poi vengono attuate», hanno detto gli esponenti di NYC Art Workers, la cui azione è stata seguita, in Italia, dall’Awi (Art Workers Italia). Un gruppo composto da curatori, assistenti curatori, educatori museali, allestitori, producer, tecnici dell’illuminotecnica e del suono, registrar, videomaker, guardasala, trasportatori, assistenti di galleria, restauratori, grafici, assistenti di studio e addetti all’ufficio stampa, i quali chiedono, tra l’altro, sgravi fiscali, controllo del costo degli affitti per associazioni no profit e studi d’artista, regolamentazione dei compensi per la produzione di contenuti culturali digitali.
Esiste però un’altra tipologia di worker.
Anche se non ce n’è traccia nel dibattito politico e pubblico di queste settimane. «Politici e media hanno parlato soprattutto del cinema e del teatro: dei registi, degli attori e delle tante maestranze che stanno dietro l’industria dello spettacolo. E l’arte? Mi sembra che governo e giornali non abbiano dedicato la dovuta attenzione alle arti visive. Forse, perché noi artisti siamo monadi: non ci lega lo stesso spirito corporativo che unisce chi vive nel cinema e nel teatro. Inoltre, cinema e teatro fanno più notizia dell’arte e fanno più passerella». Secondo Paladino, pur tra mille difficoltà, artisti e curatori riusciranno ad andare avanti. Costretti a reinventarsi, anche musei, gallerie, fondazioni e mostre resisteranno.
Davvero a rischio è un mondo silente, di cui nessuno parla. «È un mondo parallelo e necessario soprattutto per gli artisti che adoperano ancora tecniche e strumenti artigianali». Un universo tradizionale, ostinatamente anti-moderno e anti-tecnologico, legato a sapienze consolidate nei secoli, abitato da figure capaci di far vivere e di rendere concrete intuizioni, visioni, progetti. Si tratta dei lavoratori che collaborano con gli artisti: li aiutano, ne rendono possibili le intenzioni, fino a diventare quasi co-autori. Tra i più appassionati aedi di questo continente dimenticato, Giorgio de Chirico che ne aveva tessuto le lodi. Memore delle pagine del padre della Metafisica, Paladino allude a un coro di voci senza nome: fonditori, stampatori, editori di libri a tiratura limitata, mosaicisti, corniciai, fabbricanti di telai, venditori di pennelli e di colori. «Sono anelli che si collegano in una catena processuale, senza la quale non ci sarebbero né le opere né le mostre, che, per me, hanno il valore di un atto finale, come quando un attore va in scena dopo anni di preparazione», aggiunge Paladino. Si pensi a fonderie come Di Giacomo a Napoli e Venturi a Bologna; a serigrafi come Serighelli a Milano; a stampatori come Avella a Nola e Bulla a Roma; a venditori di colore come Poggi a Roma; a ceramisti come Gatti a Faenza. Animatori di autentiche sacche di resistenza, i cui laboratori sono scrigni di segreti, sorprese, talento manuale.
Sorretto dall’idea dell’arte come costruzione corale e condivisa, Paladino considera questi artigiani insostituibili compagni di strada. «Per me che non credo all’idea della creazione solitaria, frequentare queste persone è indispensabile: senza di loro, molti miei lavori non esisterebbero. Mi piace trascorrere giornate intere nelle loro officine, rubando trucchi, artifici. Li tratto un po’ come miei attrezzi o pennelli». Da anni fonditori, stampatori, mosaicisti e corniciai si arrangiano, faticano. L’estenuante pausa pandemica espone questi custodi di maestrie lontane a tanti rischi: mostre cancellate, galleristi in crisi, collezionisti in difficoltà, committenza da parte degli artisti ridotta. Chi tutelerà questi preziosi servi di scena? Chi difenderà questi eroi minori? Sopravvivranno? Antiche sofferenze ora si sono fatte più dolorose. Paladino, perciò, auspica un serio intervento dello Stato. Innanzitutto, occorrerebbe finanziare corsi per formare possibili eredi di quei worker ed evitare che un giacimento plurisecolare di pratiche venga dimenticato. Inoltre, il governo — che ha appena fatto suo l’invito lanciato sul «Corriere» a varare un Fondo Cultura — potrebbe prevedere forme di sostegno economico: agevolazioni fiscali, tagli sulle tasse e sull’Iva. «Non vorrei che quel mondo sparisse lentamente, in silenzio, condannato a una morte bianca», dice, non senza inquietudine, Paladino.