Corriere della Sera - La Lettura
Giuseppe Ungaretti Il destino d’essere tradito
Eredità scomode A 50 anni dalla morte la riproposta delle traduzioni da William Blake conferma che l’autore dell’«Allegria» è stato per le generazioni successive un maestro estraneo, non imitato né imitabile
Tra le diverse eredità dei poeti del secolo passato, quella di Giuseppe Ungaretti è probabilmente la più scomoda. Riconosciuto infatti come il più importante poeta italiano per almeno tre decenni, dagli anni Trenta ai Cinquanta, è stato poi non solo fortemente ridimensionato, ma collocato nella posizione anomala di un nume tutelare da richiamarsi solo attraverso una serie di distinguo e di riserve. Storie della letteratura, antologie scolastiche, attenzione e giudizi della critica militante, influenza sui poeti delle ultime generazioni: si tratta di un contenimento pressoché concorde. Se esiste un centro del canone, o comunque un asse portante della poesia del Novecento italiano, questo ormai da tempo è occupato molto stabilmente da Eugenio Montale. E, per altro, l’immagine di un re misconosciuto e spodestato s’addice non poco a Ungaretti, che per parte sua aveva vissuto molto male la curvatura al ribasso, diciamo così, delle sue quotazioni poetiche, di cui dal secondo dopoguerra aveva dovuto prendere progressivamente atto. Se si legge la corrispondenza con il discepolo e amico Leone Piccioni raccolta nel volume L’allegria è il
mio elemento (è uscita per Mondadori nel 2013), ciò che più colpisce non è affatto l’allegria, questa parola così fondamentale nella sua storia di poeta, quanto le recriminazioni, il sarcasmo, la rabbia, la necessità di rivendicare la propria grandezza, che gli derivavano dalla consapevolezza di essere sempre più estraneo alle pratiche poetiche del tempo. Non dev’essere stato facile, del resto. Per chi era stato e a tutti gli effetti ancora si considerava non un poeta ma il poeta, essere uno dei più significativi poeti italiani del secolo era ben poca cosa.
A cinquant’anni dalla scomparsa del poeta, nella notte tra il 1° e il 2 giugno 1970, la riproposta della sua storica traduzione delle Visioni di William Blake (sempre per Mondadori) può forse aiutare a comprenderne il particolare destino. Diciamo intanto che si tratta di un libro importante, per la qualità sia del traduttore sia dell’autore tradotto, forse il più terribile dei poeti inglesi. Va ricordato poi che Blake è stato anche un eccellente incisore, e il volume mondadoriano comprende opportunamente un buon numero di riproduzioni delle immagini dei suoi leggendari libri miniati. Ma perché, in ogni caso, questa lunga fedeltà a Blake, alla cui traduzione Ungaretti attese per quasi quarant’anni? Probabilmente perché rappresentava per lui il poeta assoluto e dell’assoluto; un poeta senza mezze misure, radicale e in ogni senso fuori dell’ordinario, la cui fede stava giusto a mezzo tra santità e eresia; o, ancora, un poeta d ove vo l t a a vo l t a l ’ i mmaginazione, l’escursione visionaria, la capacità percettiva («Se si pulissero le porte della percezione, ogni cosa apparirebbe all’uomo come essa veramente è, infinita», recita un suo passaggio tra i più celebri), venivano come ancorate al suolo e compensate dalla consistenza e dalla solidità della pronuncia poetica.
Come scrive nel Discorsetto del traduttore datato 1965, che poi è l’anno della prima edizione delle Visioni, «William Blake è l’“ispirato”, se mai ce ne fu uno», il poeta che più si è distinto «nel miracolo della parola». E proprio «il miracolo»,
ribadisce Ungaretti, «è parola: per essa il poeta si può arretrare nel tempo sino dove lo spirito umano risiedeva nella sua unità e nella sua verità, non ancora caduto in frantumi, preda del Male, esule per vanità, sbriciolato nelle catene e nel tormento delle infinite fattezze materiali del tempo». A tanti anni di distanza si tratta della stessa idea che aveva informato Il
Porto sepolto, il libro forse più leggendario della poesia italiana del Novecento, scritto sul fronte della prima guerra mondiale e pubblicato a Udine in un’esigua tiratura nel 1916. «Godere un solo/ minuto di vita/ iniziale// Cerco un paese/ innocente», così si conclude invece
Girovago, una poesia del maggio 1918 poi confluita nell’Allegria.
Ma il punto è un altro. A quest’altezza, nel 1965 del discorsetto su Blake, tra i poeti italiani delle generazioni passate e recenti chi infatti scriveva più in questo modo? Con questi concetti così assoluti, imperturbati, intatti; e anche con questo lessico, con questa sprezzatura sintattica, con questa enfasi? Nessuno, si può dire. Quella che era stata, e che comunque rimane, la forza di Ungaretti — l’assolutezza, l’assertività, la pienezza della pronuncia, l’attenzione al tempo o al destino piuttosto che alla storia, la fede totale nella parola poetica e nella missione del poeta — coincide perfettamente con ciò che lo pone in disparte, che lo rende venerabile ma insieme anacronistico. Dopo che l’ermetismo ne aveva fatto la propria guida, Ungaretti col secondo Novecento diventa a tutti gli effetti un poeta inarrivabile, proprio come un maestro che di fatto non si può né si vuole seguire.
C’è una splendida pagina scritta da Vittorio Sereni nei giorni subito successivi alla morte del poeta. S’intitola appunto In
morte di Ungaretti (è stata poi compresa negli Immediati dintorni) e comincia così: «Muore per la seconda volta mio padre. Dire questo gli è dovuto. Sapevo da sempre che davanti all’evento avrei detto questo e che non avrei potuto dire altro» (qualche anno dopo farà eco a questo passaggio l’attacco di una delle sue poes i e pi ù bell e, Autostrada della Cisa:
«Tempo dieci anni, nemmeno/ prima che rimuoia in me mio padre»). Se si pensa che la sua poesia ha dialogato con Saba e soprattutto con Montale, ma non con Ungaretti, il rapporto di Sereni con questo grande e amatissimo padre può risultare emblematico.
Nel corso del secondo Novecento la poesia va sempre più verso la prosa (nei casi migliori portandola dentro di sé), diventa tematicamente e linguisticamente spuria e inclusiva, mette in questione, aprendolo e relativizzandolo, lo statuto dell’io poetico e di un’autorialità centrale forte e stabile, avverte come problematica la sua stessa legittimità. Niente di più distante dalla concezione del poeta e dal linguaggio poetico di Ungaretti, insomma. Sereni, Bertolucci, il tardo Montale, Giudici, Pasolini, Sanguineti, Pagliarani, quindi i poeti delle generazioni successi
ve. Solo il culto della Parola di Luzi e di Zanzotto o il frammentato apocalittico dell’ultimo Caproni sembrano dovergli direttamente qualcosa. È per questo che la sua eredità si può dire scomoda. Ungaretti è un padre del cui lascito straordinario, comunque innegabile, sembra quasi impossibile fare un uso adeguato.
Il fatto è che già nel suo libro di gran lunga migliore, Il Porto Sepolto, o se si preferisce nell’Allegria, di cui il precedente costituisce comunque il nucleo più vivo, Ungaretti era giunto a un punto di non ritorno. Tutti i suoi tratti più conclamati sono estremi: l’essenzialità, il rilievo conferito alla singola parola, la pienezza della pronuncia e dell’intendimento poetico, il cortocircuito tra l’assolutezza del canto e l’immediatezza circostanziata del diario lirico scritto nel tempo orribile della guerra (le poesie, non bisognerebbe mai dimenticarlo, sono accompagnate dall’indicazione precisa del tempo e del luogo). Quelle liriche, in sostanza, avevano aperto e al contempo chiuso una strada, che da quel momento non sarà più praticabile (se non, rovesciando però il discorso, dagli infiniti versificatori che ricalcheranno la loro idea di poesia sul «M’illumino/ d’immenso» di Mattina, la lirica probabilmente più celebre del Novecento italiano, anche se certo non tra le migliori di Ungaretti). E questo resta vero anche e soprattutto per lui, per Ungaretti, che non riuscirà più a rinnovare quell’altezza di poesia al di fuori del fango della trincea o comunque di quel breve torno d’anni. Ciò che in quel contesto e in quel libro risulta miracolosamente plausibile, spostato su referenti diversi — il mito, l’archetipo del verso italiano, la romanità, il barocco trascendentale — suonerà poi quasi infallibilmente retorico.
Eppure, se è difficile pensare la poesia italiana contemporanea senza quel libro e quel poeta, anche più arduo è immaginare un poeta davvero privo di quelle doti che Ungaretti ha così fieramente e apertamente rivendicato. «Come un figlio — ha scritto ancora Sereni — ho vissuto e sofferto le sue illuminazioni e le sue furie, le sue divinazioni e i suoi errori: un po’ come per l’Italia, perché Ungaretti era, e come, anche l’Italia». E del resto col suo «grido unanime» lo si può pensare anche come il nostro Walt Whitman. Anche se, invece d’impiegare il verso lungo e salmodiante dell’americano, il suo poema del mondo e della poesia che è nelle cose lo ha composto sovrapponendo singole parole o scaglie di discorso dure come un sasso. Se la sua materia poetica — intonazione, forme, modi, linguaggio — alla lunga non è risultata particolarmente produttiva, eccezionalmente fecondo continua a essere invece l’animus del poeta, la sua vocazione. Ungaretti incarna anzitutto la parte costruttiva della poesia, quella che spinge a crederci e a rischiare. Non la materia del fare, ma lo spirito del fare. Proprio perché non quantificabile, non c’è forse retaggio più grande.