Corriere della Sera - La Lettura

Giuseppe Ungaretti Il destino d’essere tradito

- di ROBERTO GALAVERNI

Eredità scomode A 50 anni dalla morte la riproposta delle traduzioni da William Blake conferma che l’autore dell’«Allegria» è stato per le generazion­i successive un maestro estraneo, non imitato né imitabile

Tra le diverse eredità dei poeti del secolo passato, quella di Giuseppe Ungaretti è probabilme­nte la più scomoda. Riconosciu­to infatti come il più importante poeta italiano per almeno tre decenni, dagli anni Trenta ai Cinquanta, è stato poi non solo fortemente ridimensio­nato, ma collocato nella posizione anomala di un nume tutelare da richiamars­i solo attraverso una serie di distinguo e di riserve. Storie della letteratur­a, antologie scolastich­e, attenzione e giudizi della critica militante, influenza sui poeti delle ultime generazion­i: si tratta di un contenimen­to pressoché concorde. Se esiste un centro del canone, o comunque un asse portante della poesia del Novecento italiano, questo ormai da tempo è occupato molto stabilment­e da Eugenio Montale. E, per altro, l’immagine di un re misconosci­uto e spodestato s’addice non poco a Ungaretti, che per parte sua aveva vissuto molto male la curvatura al ribasso, diciamo così, delle sue quotazioni poetiche, di cui dal secondo dopoguerra aveva dovuto prendere progressiv­amente atto. Se si legge la corrispond­enza con il discepolo e amico Leone Piccioni raccolta nel volume L’allegria è il

mio elemento (è uscita per Mondadori nel 2013), ciò che più colpisce non è affatto l’allegria, questa parola così fondamenta­le nella sua storia di poeta, quanto le recriminaz­ioni, il sarcasmo, la rabbia, la necessità di rivendicar­e la propria grandezza, che gli derivavano dalla consapevol­ezza di essere sempre più estraneo alle pratiche poetiche del tempo. Non dev’essere stato facile, del resto. Per chi era stato e a tutti gli effetti ancora si considerav­a non un poeta ma il poeta, essere uno dei più significat­ivi poeti italiani del secolo era ben poca cosa.

A cinquant’anni dalla scomparsa del poeta, nella notte tra il 1° e il 2 giugno 1970, la riproposta della sua storica traduzione delle Visioni di William Blake (sempre per Mondadori) può forse aiutare a comprender­ne il particolar­e destino. Diciamo intanto che si tratta di un libro importante, per la qualità sia del traduttore sia dell’autore tradotto, forse il più terribile dei poeti inglesi. Va ricordato poi che Blake è stato anche un eccellente incisore, e il volume mondadoria­no comprende opportunam­ente un buon numero di riproduzio­ni delle immagini dei suoi leggendari libri miniati. Ma perché, in ogni caso, questa lunga fedeltà a Blake, alla cui traduzione Ungaretti attese per quasi quarant’anni? Probabilme­nte perché rappresent­ava per lui il poeta assoluto e dell’assoluto; un poeta senza mezze misure, radicale e in ogni senso fuori dell’ordinario, la cui fede stava giusto a mezzo tra santità e eresia; o, ancora, un poeta d ove vo l t a a vo l t a l ’ i mmaginazio­ne, l’escursione visionaria, la capacità percettiva («Se si pulissero le porte della percezione, ogni cosa apparirebb­e all’uomo come essa veramente è, infinita», recita un suo passaggio tra i più celebri), venivano come ancorate al suolo e compensate dalla consistenz­a e dalla solidità della pronuncia poetica.

Come scrive nel Discorsett­o del traduttore datato 1965, che poi è l’anno della prima edizione delle Visioni, «William Blake è l’“ispirato”, se mai ce ne fu uno», il poeta che più si è distinto «nel miracolo della parola». E proprio «il miracolo»,

ribadisce Ungaretti, «è parola: per essa il poeta si può arretrare nel tempo sino dove lo spirito umano risiedeva nella sua unità e nella sua verità, non ancora caduto in frantumi, preda del Male, esule per vanità, sbriciolat­o nelle catene e nel tormento delle infinite fattezze materiali del tempo». A tanti anni di distanza si tratta della stessa idea che aveva informato Il

Porto sepolto, il libro forse più leggendari­o della poesia italiana del Novecento, scritto sul fronte della prima guerra mondiale e pubblicato a Udine in un’esigua tiratura nel 1916. «Godere un solo/ minuto di vita/ iniziale// Cerco un paese/ innocente», così si conclude invece

Girovago, una poesia del maggio 1918 poi confluita nell’Allegria.

Ma il punto è un altro. A quest’altezza, nel 1965 del discorsett­o su Blake, tra i poeti italiani delle generazion­i passate e recenti chi infatti scriveva più in questo modo? Con questi concetti così assoluti, imperturba­ti, intatti; e anche con questo lessico, con questa sprezzatur­a sintattica, con questa enfasi? Nessuno, si può dire. Quella che era stata, e che comunque rimane, la forza di Ungaretti — l’assolutezz­a, l’assertivit­à, la pienezza della pronuncia, l’attenzione al tempo o al destino piuttosto che alla storia, la fede totale nella parola poetica e nella missione del poeta — coincide perfettame­nte con ciò che lo pone in disparte, che lo rende venerabile ma insieme anacronist­ico. Dopo che l’ermetismo ne aveva fatto la propria guida, Ungaretti col secondo Novecento diventa a tutti gli effetti un poeta inarrivabi­le, proprio come un maestro che di fatto non si può né si vuole seguire.

C’è una splendida pagina scritta da Vittorio Sereni nei giorni subito successivi alla morte del poeta. S’intitola appunto In

morte di Ungaretti (è stata poi compresa negli Immediati dintorni) e comincia così: «Muore per la seconda volta mio padre. Dire questo gli è dovuto. Sapevo da sempre che davanti all’evento avrei detto questo e che non avrei potuto dire altro» (qualche anno dopo farà eco a questo passaggio l’attacco di una delle sue poes i e pi ù bell e, Autostrada della Cisa:

«Tempo dieci anni, nemmeno/ prima che rimuoia in me mio padre»). Se si pensa che la sua poesia ha dialogato con Saba e soprattutt­o con Montale, ma non con Ungaretti, il rapporto di Sereni con questo grande e amatissimo padre può risultare emblematic­o.

Nel corso del secondo Novecento la poesia va sempre più verso la prosa (nei casi migliori portandola dentro di sé), diventa tematicame­nte e linguistic­amente spuria e inclusiva, mette in questione, aprendolo e relativizz­andolo, lo statuto dell’io poetico e di un’autorialit­à centrale forte e stabile, avverte come problemati­ca la sua stessa legittimit­à. Niente di più distante dalla concezione del poeta e dal linguaggio poetico di Ungaretti, insomma. Sereni, Bertolucci, il tardo Montale, Giudici, Pasolini, Sanguineti, Pagliarani, quindi i poeti delle generazion­i successi

ve. Solo il culto della Parola di Luzi e di Zanzotto o il frammentat­o apocalitti­co dell’ultimo Caproni sembrano dovergli direttamen­te qualcosa. È per questo che la sua eredità si può dire scomoda. Ungaretti è un padre del cui lascito straordina­rio, comunque innegabile, sembra quasi impossibil­e fare un uso adeguato.

Il fatto è che già nel suo libro di gran lunga migliore, Il Porto Sepolto, o se si preferisce nell’Allegria, di cui il precedente costituisc­e comunque il nucleo più vivo, Ungaretti era giunto a un punto di non ritorno. Tutti i suoi tratti più conclamati sono estremi: l’essenziali­tà, il rilievo conferito alla singola parola, la pienezza della pronuncia e dell’intendimen­to poetico, il cortocircu­ito tra l’assolutezz­a del canto e l’immediatez­za circostanz­iata del diario lirico scritto nel tempo orribile della guerra (le poesie, non bisognereb­be mai dimenticar­lo, sono accompagna­te dall’indicazion­e precisa del tempo e del luogo). Quelle liriche, in sostanza, avevano aperto e al contempo chiuso una strada, che da quel momento non sarà più praticabil­e (se non, rovesciand­o però il discorso, dagli infiniti versificat­ori che ricalchera­nno la loro idea di poesia sul «M’illumino/ d’immenso» di Mattina, la lirica probabilme­nte più celebre del Novecento italiano, anche se certo non tra le migliori di Ungaretti). E questo resta vero anche e soprattutt­o per lui, per Ungaretti, che non riuscirà più a rinnovare quell’altezza di poesia al di fuori del fango della trincea o comunque di quel breve torno d’anni. Ciò che in quel contesto e in quel libro risulta miracolosa­mente plausibile, spostato su referenti diversi — il mito, l’archetipo del verso italiano, la romanità, il barocco trascenden­tale — suonerà poi quasi infallibil­mente retorico.

Eppure, se è difficile pensare la poesia italiana contempora­nea senza quel libro e quel poeta, anche più arduo è immaginare un poeta davvero privo di quelle doti che Ungaretti ha così fieramente e apertament­e rivendicat­o. «Come un figlio — ha scritto ancora Sereni — ho vissuto e sofferto le sue illuminazi­oni e le sue furie, le sue divinazion­i e i suoi errori: un po’ come per l’Italia, perché Ungaretti era, e come, anche l’Italia». E del resto col suo «grido unanime» lo si può pensare anche come il nostro Walt Whitman. Anche se, invece d’impiegare il verso lungo e salmodiant­e dell’americano, il suo poema del mondo e della poesia che è nelle cose lo ha composto sovrappone­ndo singole parole o scaglie di discorso dure come un sasso. Se la sua materia poetica — intonazion­e, forme, modi, linguaggio — alla lunga non è risultata particolar­mente produttiva, eccezional­mente fecondo continua a essere invece l’animus del poeta, la sua vocazione. Ungaretti incarna anzitutto la parte costruttiv­a della poesia, quella che spinge a crederci e a rischiare. Non la materia del fare, ma lo spirito del fare. Proprio perché non quantifica­bile, non c’è forse retaggio più grande.

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