Corriere della Sera - La Lettura
Autobiografici contro epici: le vie per dare senso al mondo
Da quando temiamo le fake news, cerchiamo sempre più «storie vere». Ma come si comportano gli scrittori che non vogliono solo fare un resoconto e delineare una visione? Ecco due possibilità...
Ha ragione Olga Tokarczuk quando dice, nel discorso tenuto per l’accettazione del Premio Nobel nel dicembre 2019, che «la finzione ha perso la fiducia dei lettori da quando la menzogna è diventata un’arma pericolosa»: in altre parole, da quando sospettiamo che ovunque si nascondano fake news, amiamo sempre di meno le storie romanzesche, belle ma inventate, e cerchiamo sempre di più le «storie vere», i fatti e nient’altro che i fatti, magari raccontati con un po’ di aggiustamenti, ma pochi e poco vistosi, come capitava per esempio in Gomorra di Roberto Saviano.
Di fronte a questo stato di cose, come si comportano gli scrittori che vogliono comunque delineare una loro visione della realtà, non una semplice fotografia o un resoconto notarile, ma un’interpretazione sfaccettata, di sicuro non ovvia e magari nemmeno pedissequamente basata sui parametri scientifici condivisi? Alcuni si muovono verso la creazione di macchine narrative molto complesse, a volte un po’ assurde ma grandiose, altri restringono il campo e raccontano soprattutto di loro stessi, delle loro esperienze vere e di altre fittizie, spesso unite in modo indistricabile. Possiamo chiamare, per comodità, i primi gli «epici», i secondi gli «autobiografici».
Degli epici si è già un po’ parlato (su «la Lettura» #434 del 22 marzo). Sono quegli scrittori che non si accontentano di delineare i tratti più evidenti della realtà contemporanea, ma li stravolgono, li rendono ipertrofici, al limite grotteschi oppure tragici, e insomma creano incubi terribili, oppure cataloghi infiniti, oppure inseriscono persino elementi fantastici nella quotidianità. Ecco allora, fra gli italiani, Antonio Moresco, che rappresenta mondi kafkiani e lotte all’ultimo sangue nella sua trilogia Giochi dell’eter
nità: la verosimiglianza lascia subito il posto all’allegoria, e una storia che sembra partire nell’Italia degli anni di piombo arriva poi a toccare le stesse origini dell’umanità.
Ci sono altri epici che puntano decisamente sull’elencazione onnivora e sugli spostamenti dalla storia un po’ traballante, come in certi fumetti o film comici: Thomas Pynchon, per esempio, scrive in questo modo e riesce a tenere insieme situazioni tra loro lontanissime, anche nel suo Contro il giorno, appena riproposto in italiano, pieno di assurdi maneggi finanziari e buffi ma insieme drammatici complotti internazionali. Altri invece privilegiano una situazione molto meno surreale, anzi basata su fatti che sembrano certi, e non lo sono, ma inseriscono poi riferimenti che sembrano inventati, e non lo sono: così fa Don DeLillo nel grandioso Underworld.
Non è però facile essere epici in tutte le proprie opere, perché si rischia continuamente di saturare o di esorbitare: ecco allora gli epici-fantasisti, che offrono punti di vista diversi nei loro vari romanzi, come fa Mircea Cartarescu nella sua trilogia Abbacinante, nonché, per esempio, in un romanzo che sarà tradotto prossimamente, Solenoid, dove il protagonista è uno scrittore in crisi e di lui conosciamo soprattutto le allucinazioni. Gli incubi del singolo, magari quelli generati dalle storture sociali, diventano per un romanziere epico terrori collettivi, come ha dimostrato Margaret Atwood con Il racconto dell’ancella, che ha goduto del suo massimo e rinnovato successo (la prima edizione era del 1985) quando la distopia di una società iper-repressiva è diventata una concreta situazione nei territori dominati dall’Isis (e non solo lì).
Di fronte agli epici stanno gli autobiografici: ma i legami e gli spostamenti nelle due direzioni non sono pochi. Comunque, fra coloro che costruiscono narrazioni basate sulla propria esclusiva esperienza sembrano innanzitutto da indicare i creatori di «autofinzioni», ovvero di apparenti autobiografie però piene di fatti non accaduti. In Italia, il primo esponente di questo filone è stato Walter Siti, che ha raggiunto risultati molto importanti, per esempio in Troppi paradisi, là dove i comportamenti personali, persino abnormi, diventano lo specchio rivelatore di quelli sociali, che di solito è vietato dichiarare con la dovuta spietatezza.
Tuttavia pure il gioco dell’autofinzione diventa, alla lunga, prevedibile, e l’esperienza di un singolo, per quanto giocata tra autentica biografia e invenzione, può non bastare a coprire l’intera gamma delle vicende dei nostri tempi. Lo stesso Siti ha più volte modificato il suo modello narrativo, sino agli ultimi, potenti resoconti di La natura è innocente (con l’importante sottotitolo Due vite quasi vere).
Di certo l’autobiografismo si può declinare in tanti modi: c’è quello generazionale di Bret Easton Ellis, che ha raggiunto risultati notevoli soprattutto quando ha creato dei filtri tra il suo protagonista e le azioni orrende compiute, come in Ameri
can psycho, mentre è sembrato più debordante proprio quando ha provato a costruire un suo mondo autofinzionale in Lunar park. Un rischio per i romanzieri autobiografici è appunto quello di arrivare, involontariamente, al vaniloquio. Oppure si può indulgere nel descrittivismo e nella registrazione persino sovrabbondante di quanto il protagonista-alter ego dell’autore viene a sapere nella sua vita quotidiana.
Persino un’autrice ora molto elogiata come Rachel Cusk non sfugge a questo rischio nel suo recente Onori, che chiude la trilogia Outline. La sensibilità della sua Faye può condurre ad accogliere qualunque testimonianza dei personaggi incontrati, in modo da trovare nelle loro storie motivi per resistere al male, ovvero alle continue ferite generate dalla necessità di una convivenza sociale. Ma occorre forse un punto di vista più forte per non generare un effetto di uniformità così completa da non far capire più perché ci si dovrebbe interessare alle questioni familiari di un tizio incontrato in aereo o di una relatrice a un convegno.
Fondamentale allora è la novità della voce narrante, che sia in prima persona o in terza (ma con chiara evidenza che si tratta sempre di chi scrive). Per esempio il lettore si trova spiazzato dalla pseudoautofinzione di Teresa Ciabatti in La più
amata, resoconto in apparenza tragicomico, e in effetti dolorosissimo, di una storia familiare all’insegna delle sorprese: un padre famoso chirurgo, ma in realtà massone e in fondo despota sebbene ritenuto santo, una madre volubile e incerta sulla sua fisionomia esistenziale, una figlia sbalestrata fra il delirio di onnipotenza e una fragilità irrimediabile...
Da ciò si capisce che, per usare bene l’autobiografismo, bisogna essere davvero ossessionati, e occorre sempre sapersi guardare a distanza, così come ha fatto in tanti suoi scritti Annie Ernaux, che quasi si sdoppia o si triplica nelle sue storie sino a tornare indietro, alla forza dirompente («il grande ricordo della vergogna») del primo rapporto sessuale, in
Memoria di ragazza (ma il titolo francese, con il termine Mémoire, rimanda in primo luogo al resoconto diaristico).
Oppure, se evitiamo l’etichetta romanzo, e magari pensiamo invece ai diari, alle indagini su sé stessi e sui propri vicini (alla Montaigne o alla Leopardi), ecco altri testi che, partendo da un io ben individuato, arrivano a parlare a chiunque. Le pagine di In tutto c’è stata bellezza di Manuel Vilas sembrano toccare gli elementi minimi del vissuto (come ho ristrutturato casa, cosa preparo da mangiare...), però poi sintetizzano intere esistenze, simbolicamente forti, in poche rig h e . B a s t i l ’e p i s o d i o d e l l o s c r i t to r e invitato a corte dai reali di Spagna, assieme a tanti altri di cui si intuiscono pregi e difetti: ma siamo in democrazia, c’è posto per tutti, e i sovrani dedicano il loro tempo agli artisti della nazione, è bello e va bene. Poi qualcuno cronometra: per ogni saluto dei re ai singoli romanzieri o poeti sono disponibili nove secondi o poco più.
T i r a n d o l e s o mme , n o n e me r g e un’unica ricetta per scrivere opere all’altezza dei tempi, ma certo vanno evitati sia i rischi del minimalismo un po’ logorroico, sia quelli dell’assolutizzazione un po’ tronfia. Alla fine conta, come diceva più o meno Milan Kundera, catturare quel milionesimo di differenza che trasforma una situazione generica nella nostra specifica e unica esperienza della realtà.