Corriere della Sera - La Lettura
Mai dire parolacce al supereroe Kobe
Gli atleti del basket Nba si ispirano apertamente ai supereroi Marvel (non solo fisicamente). Il loro copione proviene da quella mitologia. Kobe Bryant è stato l’ultimo di questi supereroi. Dal giorno della sua tragica fine (26 gennaio 2020) The Mamba Mentality (nel senso del serpente velenoso) è fisso in classifica. Il libro (bellissime fotografie agonistiche di Andrew D. Bernstein chiosate da Kobe) è molte cose assieme. È un manuale tecnico: si tira con il pollice e l’indice, non con tutta la mano (se hai, ovviamente, il superpollice e superindice di Kobe). È un breviario dove le preghiere sono gli allenamenti (a partire dalle 5 del mattino fino a mezzanotte, l’ora della classica spaghettata per la gente normale). È un trattato di filosofia esistenziale (se hai un sogno di grandezza, fanne la tua ossessione; come diceva Truman Capote: «Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è predisposta unicamente all’autoflagellazione»). Ora il libro è diventato il suo testamento. E si legge con commozione. Ma anche con divertimento come quando spiega che un’arma impropria e usatissima nel gioco è il trash talking, dire parolacce agli avversari per mortificarli. Con il Mamba non funzionava perché, al contrario, il trash talking lo eccitava (come capita a letto tra amanti). Il campione dice che ha imparato molto da Muhammad Ali. Si riferisce al rope-a-dope: sfruttare la forza dell’avversario per usarla contro di lui. Da noi lo faceva Gigi Riva, che, per certi versi, è stato il Cassius Clay italiano. Kobe scrive che in una squadra di basket i ruoli sono come i caratteri di un dramma: c’è il fratello maggiore, l’intellettuale, lo zio simpatico. Guardate l’appassionante serie The Last Dance su Michael Jordan, il primo supereroe Nba, e capirete che è così. Oggi le rappresentazioni teatrali più vere (più elisabettiane) sono quelle dello sport.
P.S. Però una parola sulla sua Calabria Kobe poteva scriverla.