Corriere della Sera - La Lettura

Benedetti Michelange­li l’arcitalian­o antitalian­o

- Di HELMUT FAILONI

Alla vigilia del venticinqu­esimo della morte, nell’anno del centenario, «la Lettura» interpella tre pianisti a proposito di un musicista leggendari­o. Vladimir Ashkenazy: «Nessuno è mai stato così devoto alla perfezione». Beatrice Rana: «Ci ricorda che alla tastiera dobbiamo essere illusionis­ti». Enrico Pieranunzi: «Il suo suono era legato a un orecchio sovrumano»

Sobrietà e generosità

Non faceva pagare gli allievi: «Sapere è un diritto». E al commercial­ista chiedeva di dargli il minimo e devolvere il resto in beneficenz­a

Martedì 13 giugno 1995. Pioviggina fuori dalla chiesa di San Martino, a Pura — paesino di 1.500 anime nel distretto di Lugano, in Svizzera — quando la bara di Arturo Benedetti Michelange­li, ricoperta da una corona di margherite, viene portata verso la tomba che per volontà stessa del Maestro doveva essere priva di lapide. Un crocefisso con il nome. Punto. Tra la folla al funerale, si intravedon­o Martha Argerich e Maurizio Pollini, che sono stati allievi del pianista scomparso il giorno prima, a 75 anni (un quarto di secolo fa) all’Ospedale Cantonale di Lugano, dove era stato ricoverato per un attacco cardiaco.

«La Lettura» lo vuole ricordare in occasione del suo doppio anniversar­io: oltre ai 25 anni dalla morte, ricorrono infatti i cento dalla nascita (Brescia, 5 gennaio 1920). Per l’occasione è uscito Il de

mone della perfezione: il genio di Arturo

Benedetti Michelange­li (Neri Pozza), un libro di Roberto Cotroneo, che ne ripercorre la vicenda artistica e umana. Vi si trova una citazione di Carlo Maria Giulini che ha saputo cogliere perfettame­nte lo spirito del musicista: «Non una sola volta ho visto un sorriso illuminare il suo volto, ma ancor peggio, nell’oscurità del suo viso, si vede quanto abbia sofferto».

I maestri del «nuovo Liszt»

Il padre di Benedetti Michelange­li era laureato in Legge e in Filosofia ma anche diplomato in pianoforte e in composizio­ne, la madre era appassiona­ta di musica. Il piccolo Arturo cominciò prestissim­o lo studio, prima con Paolo Chimeri (18521934) e poi con Giovanni Anfossi (18641946), due docenti della vecchia scuola, quella ancora illuminata dai bagliori del tardo romanticis­mo. Forse è anche questo che lo ha reso così unico e diverso dai suoi contempora­nei. A 19 anni, nel 1939, Benedetti Michelange­li vinse il prestigios­o concorso di Ginevra. Fu lì che Alfred Cortot si alzò in piedi ed esclamò la famosa frase: «È nato il nuovo Liszt». La sua carriera, un inseguimen­to continuo della perfezione in giro per il mondo e molto meno in Italia (a breve capiremo perché), cominciò dopo Ginevra e durò quarant’anni, costellati da successi e caratteriz­zati da un costante rifiuto assoluto di qualsiasi genere di compromess­o.

La Ferrari, Topolino e il repertorio

Austero, impenetrab­ile, sfuggente, misterioso, inavvicina­bile e riservato al punto da sembrare maleducato, Benedetti Michelange­li diceva di essere un discendent­e di Jacopone da Todi, adorava i cori di montagna al punto da lasciare raffinate armonizzaz­ioni per il Coro della Sat. Pretendeva cose impossibil­i dai suoi accordator­i e tecnici del pianoforte (il grande Angelo Fabbrini ne sa qualcosa...). E quando lo strumento non gli piaceva più, lo prendeva a male parole. Sfidava a braccio di ferro i suoi studenti (a proposito: non li faceva pagare, perché diceva che «il sapere è un diritto») e rifiutò otto lauree honoris causa. Non concedeva mai (ad eccezione di un’unica volta) dei bis. Cagionevol­e di salute, amava indossare maglioni con il collo alto, adorava la velocità sulla sua Ferrari (chi ci è salito, come Salvatore Accardo, ha detto: «Mai più»), il suo gatto rosso lo aveva chiamato Attila e il fazzoletto per asciugare il sudore sul palco era nero perché «il bianco distrae». Aveva (solo in concerto) un repertorio ristretto, Chopin, Ravel, Debussy, Mozart, Beethoven; riscoprì Domenico Scarlatti, Galuppi e lo spagnolo Federico Mompou (1893-1987). Leggeva «Topolino» e al commercial­ista chiedeva di dargli solo lo stretto necessario e il resto destinarlo in beneficenz­a. Nel 1968 lo Stato gli pignorò parte dei beni per il fallimento di una casa discografi­ca, la Bdm, della quale era socio: dopo si rifiutò di fare concerti in Italia, e non bastarono Aldo Moro e Sandro Pertini a fargli cambiare idea (solo nel 1980 ne fece uno, ma per beneficenz­a, a Brescia).

Il rifiuto dei concerti in Italia

A Londra cancellò un attesissim­o concerto, perché era venuto a sapere che molti biglietti rientravan­o in un pacchetto vacanze di turisti italiani, con concerto e buffet inclusi. Comprò a sue spese 4 pagine su altrettant­i quotidiani londinesi per scusarsi con il pubblico non gitante. Pagò tantissime penali per aver cancellato così spesso i concerti. Il direttore d’orchestra Sergiu Celibidach­e, suo amico, spiegò che ogni volta che Michelange­li poneva in dubbio la realizzazi­one di un concerto «sentivo che c’era dietro una ragione musicale e mai un capriccio». «In Giappone — ci dice la pianista Beatrice Rana (1993) — ho conosciuto un organizzat­ore di concerti che lo aveva invitato. Per accettare, Benedetti Michelange­li chiese che venisse spedito in Giappone uno dei suoi pianoforti dall’Italia. La sera del concerto lui disse che non se le sentiva di suonare. I giapponesi si arrabbiaro­no al punto che si tennero lo strumento». In Vita con Ciro (Ermitage, 1997), firmato dalla vedova Giuliana Benedetti Michelange­li (si sposarono nel 1943), si legge che in questi momenti diceva: «O mi gioco la reputazion­e di uomo che non mantiene l’impegno o mi gioco la reputazion­e di artista. Fra le due cose scelgo la prima». Come ha scritto Giorgio Pestelli, «Benedetti Michelange­li non stava bene nel sistema; non era fuori dalla cultura, era fuori dall’organizzaz­ione della cultura, che è cosa ben diversa».

Lo scandalo di un secondo posto

Entrò in Svizzera il 24 luglio 1969 e il 1° agosto 1979 si trasferì a Pura, in affitto in una villa a pochi passi da quella di un altro grande pianista, Vladimir Ashkenazy (1937). Tra i due c’era un antico legame. «Nel 1955 al mio esordio al Concorso pianistico Chopin di Varsavia — racconta a “la Lettura” l’artista russo-islandese , che è stato presidente del Concorso pianistico Premio Monza “Rino Sala” fondato da Benedetti Michelange­li — ottenni il secondo premio ma lui per me voleva il primo ( v i n t o d a l p o l a c c o A d a m Ha r a - siewicz, ndr). Ricordo che era così insoddisfa­tto del risultato finale, che lasciò la sala prima della cerimonia. Successiva­mente andai nel suo camerino con il diploma e gli chiesi: “Per favore, Maestro, mi firma il mio diploma?”. Lui rispose i mmedia t a mente : “No ! ” » . S e c o n d o Ashkenazy «nessuno dei grandi pianisti della sua generazion­e ha dimostrato, come lui, una devozione così assoluta alla perfezione pianistica, nessuno ha avuto una tale nobiltà interiore e sincerità spirituale».

I gesti di Buster Keaton

Beatrice Rana ricorda così lo choc dell’ascolto: «Il suo (celebratis­simo) Concer

to in sol di Ravel mi aveva catturata, ma non conquistat­a: preferivo l’animalità di Martha Argerich. Passarono degli anni e mentre studiavo la seconda Sonata opera 35 in si bemolle minore di Fryderyk Chopin, ascoltai la versione di Benedetti Michelange­li. Rimasi letteralme­nte ipnotizzat­a, un mago, un alchimista del suono. Come figura e come musicista è l’esatto opposto di quello che normalment­e si pensa dell’italianità». Rincara il pianista Enrico Pieranunzi. «È stato — racconta a “la Lettura” — il mio idolo. Lo vidi tre volte dal vivo, la prima nel 1968 quando avevo 18 anni e stavo studiando per il diploma. Era già un’emozione osservarlo avviarsi al pianoforte: veniva il groppo in gola. Durante il concerto ti teneva in compressio­ne, ti faceva entrare nella fabbrica del suono. Con quella seriosità inamovibil­e, come quella di Buster Keaton. Il suo suono era legato a un orecchio sovrumano e l’orecchio è un organo superiore, che ha a che fare con le emozioni, crea esigenze. Diceva Bill Evans: “Voglio suonare quello che mi piace sentire”». Quando esegue Le gibet (la forca) da Gaspard

de la nuit di Maurice Ravel, la sua lontananza dal mondo si fa siderale. La morte evocata dal testo di Aloysius Bertrand incombe sulla musica. Tutto è immobile, sospeso, avvolto in una nuvola nera. Un pedale insistente in si bemolle, il rintocco della morte, punteggia tutto il brano. Benedetti Michelange­li, spiega Rana, si trasforma «in quello che ognuno di noi pianisti in realtà dovrebbe essere, come diceva il mio maestro: un illusionis­ta».

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