Corriere della Sera - La Lettura

Una missione impossibil­e: battere Higuaín

Calcio Tattiche e regole, ecco com’è cambiato il gol. Più di una rete a partita per l’argentino

- di MARIO SCONCERTI

Un particolar­e del gol è che non dipende dalla qualità dei calciatori, ma solo dal modo di giocare. Un uomo da saltare è un piccolo muro in qualunque categoria si giochi. Se in proporzion­e gli uomini fossero ostacoli diversi, nelle categorie più basse si dovrebbero avere molti più gol. Non è così. I risultati sono identici a quelli del grande calcio. In Italia, seriamente, la storia del gol comincia dopo la guerra, quando il girone unico è ormai consolidat­o e si parla apertament­e di tattica.

C’è uno slancio diverso, il Paese è appena uscito da una guerra durissima. La liberazion­e è qualcosa di fisico, che porta il calcio a cercare il gol con un’energia che non aveva mai avuto. Il Torino ne realizza 203 in due stagioni. Juventus e Milan 305 in tre. Numeri epici. Protagonis­ta di quella pioggia di gol fu il milanista Gunnar Nordahl, uno svedese del tempo, grande e grosso, squadrato, molto veloce. Indistrutt­ibile. Con lui arrivò improvvisa­mente una genia di giocatori sconosciut­a: gli uomini dell’estremo Nord, gli scandinavi. Furono tanti e quasi tutti bravi. Ricordo Liedholm, Gren, Gustavsson, Pr a e s t , i f r a te l l i Hansen, Pl oeger, Hamrin, Jeppson, Rasmussen, Skoglund.

Eravamo popoli così lontani che quando Nordahl arrivò a Milano nel gennaio del 1949 scese dal treno alla stazione con una camicia a fiori di tipo hawaiano. Il termometro era sullo zero, ma a lui avevano detto che l’Italia era il Paese del sole. Rimase a letto una settimana con l’influenza e saltò le prime due partite.

Perché tanti scandinavi tutti insieme? E che cosa portarono? Alla prima domanda ho sempre risposto con una conseguenz­a della guerra. La Danimarca fu invasa dai tedeschi, ma con pochi scontri. La Svezia fu toccata marginalme­nte dalla guerra. In parole povere, Svezia e Danimarca erano tra i pochissimi popoli europei che potevano portare una gioventù intatta in un continente che aveva perso nella guerra intere generazion­i.

Avevano un fisico diverso dal nostro. Noi eravamo piccoli e agili. Nordahl e i suoi fratelli erano alti oltre un metro e ottanta, pesavano intorno ai novanta chili. In sostanza cambiavano il gol. Fu necessario cercare di alzare la palla. Nacque il colpo di testa, il centravant­i d’area di rigore. Nemmeno Silvio Piola lo era stato. Era più completo di qualunque scandinavo arrivato in Italia, ma più flessibile, gli piace

va partecipar­e al gioco anche spalle alla porta.

Dopo l’età di Nordahl venne quella del libero, cioè di uno schema più attento alla difesa. Il catenaccio è una cosa di sinistra, nasce come ridistribu­zione della ricchezza. Togliere a chi ha troppo per dare a chi ha poco. Sono piccole squadre che lo sperimenta­no, la Salernitan­a di Viani, la Triestina di Rocco. Lo stacco avviene quando è una grande squadra a cercare di vincere con la nuova idea. Foni era stato un grande terzino, allenava l’Inter e usciva da una stagione in cui la Juventus aveva segnato 98 gol per vincere il campionato, subendone 34. L’anno prima il Milan aveva vinto segnando 107 reti. Troppi gol pensò Foni. Cominciava­no a essere fuori dal tempo. Ma se io subissi 10 gol in meno, potrei anche segnare una trentina di gol in meno. Sarebbe un altro calcio.

Come fare? La sua Inter aveva un’ala, Armano, che aveva tecnica e respiro lungo. Non era un attaccante tipico. Foni lo chiamò e gli chiese se se la sentiva di coprire tutta la fascia destra, cioè attaccare e difendere. Armano lo guardò aprendo bene gli occhi, poi pensò che poteva essere divertente. Accettò. Così Foni potè spostare il terzino destro Blason al centro e aggiungere un secondo stopper alla difesa. Questa moltiplica­zione, aggiunta alla qualità di una grande squadra, rovesciò il calcio italiano. L’Inter vinse il campionato passando dai 98 gol della Juve ai suoi 46, ma né subì solo 24 in 38 partite, cifra più che attuale ma ottenuta settant’anni fa.

Da allora la media gol in Italia diminuì costanteme­nte. Dai 3,32 gol di media del 1950 si passò all’1,93 del Cagliari campione nel 1970. E nei successivi vent’anni siamo arrivati a superare i 2,10 solo sei volte. Inutile dire che nel frattempo il calcio europeo era arrivato a tre gol a partita. Questo però fa anche la storia. Segnare poco tutti faceva brillare chi segnava molto in quel tempo. Così gli anni più poveri di gol, quelli tra fine anni Sessanta e gli anni Settanta, sono le stagioni dei grandi cannonieri storici. Riva, Chinaglia, Boninsegna, Pulici. Più tardi Platini. Segnano solo loro. La media gol per vincere un campionato è stabile su 1,60 gol a partita. Il risultato classico è 1-0.

La classifica del gol spiega molto delle qualità degli attaccanti e racconta una storia spesso improvvisa­ta fuori dalla comunicazi­one solita. Di Natale ha vinto due volte la classifica cannonieri come Ibrahimovi­c; Boninsegna due volte come Shevchenko; Toni ancora come Shevchenko, ma in squadre molto più improbabil­i del Milan, come la Fiorentina e il Verona. Beppe Signori quanto Riva, Pulici e Platini. In sostanza vincere tre volte quella classifica è nel suo genere molto vicino ad Alessandro Magno che arriva all’Indo.

Oggi siamo stabilment­e intorno ai mille gol, virus a parte. Hanno cambiato tutto due nuove regole: il campionato a venti squadre e soprattutt­o i tre punti a vittoria. Hanno reso inutile il pareggio, quindi si cerca più il gol. Questo ha un significat­o profondo. L’esito felice va cercato, non basta pensarlo.

Un’ultima nota: l’unico che abbia superato un gol a partita. Si chiama Gonzalo Higuaín e non è più molto di moda. Ha segnato 36 reti in 35 partite nel Napoli per una media di 1,13 a partita. Sarà difficile fare meglio.

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