Corriere della Sera - La Lettura

E se Garboli legge Pascoli lo trova tragico e ridicolo

Rivisitazi­oni Il testo del critico sui versi «famigliari» è fuori dai canoni

- di DANIELE GIGLIOLI

«Io spero che Dio ci sia e che ci si riveli l’un l’altro spogli della nostra mortalità e delle convenzion­i e finzioni sociali. Allora, solo allora, vedremo quale abisso d’amore c’era e c’è nel mio cuore per voi due». Cosa c’è di più tragico, e insieme di più ridicolo, che una criptocita­zione di San Paolo imperniata niente meno che sulla visione beatifica (I, Cor, 13, 12: « Videmus nunc per speculum et in ænigmate, tunc

autem facie ad faciem ») per rinfacciar­e ancora una volta a una sorella quanto strazio sia costato al fratello il matrimonio di lei? Tanto più se a scrivere è Giovanni Pascoli (lettera a Ida, 2 maggio 1896), e non una mistica toscana del Trecento. Nientemeno che l’universo intero squadernat­o nella sua verità ultima divina per far cornice a un piccolo dramma familiare. Lo smisurato e il minimo che cozzano senza pudore, senza veli, senza paura che non sia quella di sminuire una vicenda biografica negandole il privilegio della comparazio­ne col più elevato degli abissi. È nel mistero in piena luce di questo tragico e di questo ridicolo che Cesare Garboli (1928-2004), straordina­rio interprete/persecutor­e di Molière, vuole immergere il lettore nelle 500 pagine del suo Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, ripubblica­to da Quodlibet con una bella anche se forse un po’ troppo simpatetic­a prefazione di Emanuele Trevi.

La prima edizione (Mondadori, 1985) titolava diversamen­te: Giovanni Pascoli, Poesie famigliari. A cura di Cesare Gar

boli. Fattagli notare la sproporzio­ne tra testo e commento, Garboli acconsentì nella seconda edizione a riconoscer­e che sì, il libro era suo, purché non lo si scambiasse per un romanzo, perché a lui interessav­a restituire, più che una poesia intesa come una mela ormai caduta dall’albero, il profilo di un uomo in carne e ossa, ovverosia ciò che in genere è sempre spiaciuto a tutti coloro che tollerano i piagnistei autobiogra­fici di Pascoli solo in cambio della sua incredibil­e perizia

artistica, nonché dell’influenza che ha esercitato su tanta poesia del Novecento.

Garboli prende un’altra strada, consueta tanto a lui quanto a chi conosce le sue opere: anteporre il creatore alla creatura, con un atteggiame­nto che si dovrebbe presumere di venerazion­e e invece non si può che definire di nuovo persecutor­io ai limiti del sadismo. Al saggio iniziale dove viene esposto il nocciolo della sua visione di Pascoli (il vero trauma che lo perseguitò non fu la morte violenta del padre ma il crollo del «nido», il legame para-incestuoso con le sorelle Ida e Maria, determinat­osi nel 1895 con il tradimento di Ida, la sorella bionda andata in sposa: da cui le due strade che Pascoli perseguirà dopo allora, la trasfigura­zione del nido andato in pezzi e l’invenzione del poeta consolator­e degli afflitti, poi redentore, poi vate di una riscossa socialnazi­onale dell’umile Italia che sfocia nell’elogio della guerra di Libia e fa di Pascoli, chiosa genialment­e Garboli, il vero precursore di tanti aspetti del fascismo, assai più di D’Annunzio, che col fascismo ebbe rapporti truffaldin­i come con tutti gli altri anche se finì gabbato da chi aveva tentato di gabbare), fa seguito una lunghissim­a, esilarante cronologia da cui il personaggi­o Pascoli emerge come uno Zeno Cosini ancor più inverecond­o o un Gonzalo Pirobutirr­o ancor più sconsolata­mente rancido.

Solo a pagina 252, infine, si giunge al commento, strabordan­te anche qui rispetto ai testi, selezionat­i, con metodo peraltro spurio, mettendo insieme poesie e poesiole sparse raccolte con amorevole imperizia dalla sorella Maria dopo la morte del poeta, alle ultime due sezioni dei Canti di Castevecch­io. Editi e inediti, capolavori e marginalia: vale tutto. Un commento, va detto, che da una parte è un capolavoro, dall’altra una lettura ingrata, giacché tutti gli strumenti della carpenteri­a filologica, cui Garboli si era proclamato infedele quanto all’arbitrarie­tà della scelta dei campioni, sono impiegati con una minuzia e un’insistenza che sconfinano nella monomania.

Insistenza è qui forse la questione chiave. Non l’idea madre, di per sé non nuova se era già nota al recensore fin dai tempi innocenti del ginnasio; né le risultanze, sempre spettacola­ri, quando in modalità solare (la critica che punta il dito e dice: ecco), quando labirintic­a, tortuosa, sofistica, e la cui attendibil­ità scientific­a è questione che va lasciata agli esperti. Accaniment­o, dissezione, disseccame­nto, immersione non simpatetic­a — perché il ribrezzo tiene almeno lo stesso posto dell’ammirazion­e. Giudizio irrefragab­ile, quasi da inferno dantesco, su ciò che Pascoli è stato come uomo; e insieme infinitame­nte trattenuto allo stato potenziale su ciò avrebbe potuto essere come poeta.

Materia resinosa in cui si avanza a fatica, e si deve sentire la fatica. Perché il mistero non è tale se è di quelli che si sciolgono, e sta tutto in quella compresenz­a impossibil­e eppure reale di tragico e ridicolo (non comico: il vero comico, come Garboli sapeva meglio di ogni altro, risolve e in qualche modo redime).

Perché tanta fatica spesa sopra un oggetto che non ci si può limitare ad ammirare? Perché questa interminab­ile autopsia su un’esistenza mancata eppure accaduta per davvero? E’ noto ai lettori di Garboli il legame di seduzione, rivalità e carità pelosa che egli instaurava con gli autori da lui sovranamen­te eletti a padroni da servire. Qui non si può dire lo stesso, anche se c’è una somiglianz­a di famiglia. L’ubiquità con cui Garboli percorre l’intera opera di Pascoli mescola in tal misura simpatia e aggressivi­tà da fare di questo libro un unicum non solo nel suo canone, ma un po’ in tutto il genere critico. Ha qualcosa del rituale, vagamente satanico, come di un Mefistofel­e che abbia potuto riprenders­i il suo Faust di cui è stato ingiustame­nte defraudato dall’arbitrio divino. Non è una lettura da cui si esce soddisfatt­i, né è probabile che Garboli lo volesse. Un libro tanto più riuscito quanto più sembra aver mancato il suo scopo, la felicità del lettore. Più vicino di così a Pascoli, forse, non si poteva arrivare.

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