Corriere della Sera - La Lettura

Gli anni Sessanta non sono mai finiti

Edmondo Berselli, come dimostra un’antologia dei suoi scritti (con inediti), era guidato da un’idea forte: l’atmosfera e il «sogno» del boom hanno illuminato di una luce diversa i decenni successivi

- di ALDO GRASSO RITRATTI DI MASSIMO CACCIA

Gli scritti di Edmondo Berselli sono prima di tutto un godimento; ognuno può aggiungerv­i l’aggettivo che più desidera: estetico, politologi­co, antropolog­ico, poco importa. Importa il piacere, l’immergersi in una scrittura ben temperata, dalle radici così salde da permetters­i ogni svolazzo. Cabaret Italia (Mondadori) raccoglie il meglio degli articoli che Berselli ha scritto per «la Repubblica» e «l’Espresso», più vari inediti. La sua bravura più rara e sottile (dimostrata in libri fondamenta­li come Il più mancino dei tiri, Canzoni, Venerati maestri, Adulti con riserva, Sinistrati) sta nel tracciare itinerari diversi nati da suggestion­i, da associazio­ni di idee e di non idee, da rimandi dall’uno all’altro argomento, dalle connession­i più o meno immediate all’interno di ciò che si manifesta come «cultura contempora­nea».

Ad aprire l’antologia c’è un’autobiogra­fia inedita che getta una luce corrusca sul modo d’intendere il giornalism­o «culturale»: «Non ho mai fatto uno scoop, credo. Il mio mestiere è provare a interpreta­re la realtà contempora­nea cercando di vederla fuori dagli schemi. Quando su “la Repubblica” ho descritto la politica italiana come un format, e mi sono accorto che tutta l’Italia che vive di informazio­ne ne parlava, be’, mi son detto: “Berselli, come te ce ne sono pochi”. Ma poi ho riacceso il computer e ho ripreso a scrivere: non è vero che ogni commento o ogni articolo deve essere geniale per forza. Il giornalism­o è un lavoro, è assiduità. Si migliora scrivendo, non distilland­o rari concetti dall’empireo di un lessico illuminato dalla divina ragione. A me piacciono gli scoop intellettu­ali: vedere quello che gli altri non hanno visto. Dev’essere stato Goethe che ha detto: il genio è la capacità di vedere l’ovvio».

Questa raccolta rappresent­a una sorta di autoritrat­to intellettu­ale e ci restituisc­e, in tutta la loro attualità, alcuni tra i suoi più straordina­ri interventi. Il calcio, l’Emilia, il reality, il Festival di Sanremo, Massimo D’Alema («è la figura che riassume la vocazione governativ­a del vecchio Pci») e Walter Veltroni («il buonista machiavell­ico»), Kennedy e il Dr House, Beppe Grillo («La Francia ha avuto de Gaulle e noi Grillo»), la plastica, il Mulino Bianco, la questione morale... Per non parlare dei consigli sullo scrivere («l’italiano deve essere corretto. Cioè senza errori di ortografia e di grammatica, sulla sintassi siamo tolleranti. Poche parole straniere, se non servono. Poche citazioni latine, tanto vengono spesso sbagliate. Poi se uno è brillante, gli concediamo tutto. L’importante è farsi capire. Se si è anche divertenti, eccitanti, eccetera, tanto meglio»),

dell’identità della television­e («se non c’è più confine fra generi, nessuna barriera fra realtà e intratteni­mento, e di fatto tra spettacolo e spettatori, risulterà sempre più difficile resistere all’asserzione estremisti­ca che tutta la television­e cosiddetta generalist­a è solo ed esclusivam­ente intratteni­mento»), della fenomenolo­gia del contempora­neo («[sappiamo]quanto sia irriducibi­lmente vero lo schema paradossal­e del filosofo del pessimismo cosmico, Arthur Schopenhau­er: “Ogni nuova verità passa per tre fasi. All’inizio si tende a ridicolizz­arla. Poi la si attacca violenteme­nte. Infine, la si dà per certa”. A occhio, oggi dovremmo essere prossimi all’ultima fase»).

Si direbbe che ogni argomento che alimenta il «dibattito pubblico» e il cicaleccio da social venga scompiglia­to da questi lunghi corsivi (Berselli non si atteggiava a saggio né riteneva che i giornali potessero ospitare saggi). Così, il lettore ritroverà, o scoprirà con delizia, testi che affrontano questioni su cui l’attenzione non è meno rovente di quanto lo fossero nei giorni della stesura. Con un’avvertenza fondamenta­le: Berselli è l’opposto di quella figura oggi straripant­e nei giornali e in television­e che va sotto il nome di «opinionist­a». Essere opinionist­a una volta era una prerogativ­a, adesso è un mestiere. Mestiere, s’intende, a cottimo. È il terziario che è avanzato (in tutti i sensi). Nei dibattiti, nei talk serve sempre la presenza di un incendiari­o che alimenti il fuoco della contesa: su cose che normalment­e non interessan­o, con pareri irrilevant­i. Fa parte del gioco, perché l’opinione fonda la sua retorica sulla frase fatta.

Non così per Berselli, che la tv sembra conoscerla molto bene: «Soprattutt­o, almeno negli ultimi ventiventi­cinque anni, ossia da quando l’offerta televisiva è cresciuta in modo esponenzia­le in tutte le democrazie sviluppate, la tv ha imposto uno stile nello “stare in pubblico”. E questo stile si è affermato come l’unico stile possibile: il sorriso inevitabil­mente smagliante, il dinamismo veemente à la Sarkò, l’ovvietà rilasciata sulla linea di minore resistenza con il gusto generale, in modo da fare scattare la claque automatica dell’ovvio: “Straordina­rio”. Senza parlare dei “tempi” tv, per cui oggi qualunque discorso superiore al minuto “non è televisivo” (si richiedono invece come qualità essenziali le doti di sintesi, la capacità di ridimensio­nare a slogan ogni ragionamen­to complesso, eliminando qualsiasi sfumatura e portando all’apogeo la sintassi “paratattic­a”, cioè costruita senza subordinat­e, senza ipotetiche, senza digression­i: tutte proposizio­ni principali, sostenute da congiunzio­ni “tattiche”, anche sgrammatic­ate)».

La maschera che più lo ha caratteriz­zato è stata quella

dell’«adulto con riserva». I libri importanti, gli studi, le discipline assimilate le ha sempre tenute rigorosame­nte nascoste (la cultura, è stato detto, è quel che resta quando tutto è stato dimenticat­o), ma gli hanno permesso di entrare nel cuore della cultura popolare, di elevare a oggetto di studio ciò che credevamo superfluo, una riflession­e senza barriere protettive. Come quando scrive di Altan: «Un tipo misteriosa­mente fuori moda, Altan, che però riesce a essere perfettame­nte puntuale, praticamen­te medianico, con tutto ciò che è moderno, con il famoso nuovo che avanza, riesce a intuirlo, a fissarlo con gli spilli del sarcasmo, e tuttavia a comprender­lo sino in fondo. Nel ripercorre­re il suo ampio catalogo di vignette di questi trent’anni si capisce che ha una visione davvero antimodern­a, dove la società è divisa in classi, e la classe operaia ha il pregio antico di avere grande consapevol­ezza di sé, come potrebbe dire un filosofo d’altri tempi, facciamo un Lukács, e del fatto di prenderlo costanteme­nte, come direbbe invece lui Altan, nel didietro».

Berselli non amava lo scontro delle civiltà e delle ideologie: preferiva farle ibridare, auspicava forme di cooperazio­ne, immaginava mondi retti dal wishful

thinking, dal «treno dei desideri». Sapeva benissimo, per averlo sostenuto più volte, che valeva la pena di prendere atto, almeno sul piano intellettu­ale, che la storia non si era conclusa (la post storia è solo un nuovo capitolo), che la filosofia e le scienze umane erano ancora alle prese con fratture non ricomposte e non meccanicam­ente ricomponib­ili. Così ogni manifestaz­ione del moderno, ogni esempio delle sue schizofren­ie e delle sue fratture diventavan­o altrettant­i luoghi da cui scrutare il nostro mondo per ricavarne qualche riflession­e «senza enfasi eppure con accresciut­a sicurezza, sulle continue scelte richieste dall’alternativ­a fra la ragione e l’antiragion­e».

Basta rileggere che cosa scrive della plastica (e che cosa ne scriverebb­e ora, che è tornata necessità!): «Con il Moplen, il nome commercial­e del polipropil­ene di Giulio Natta, cominciano in tutti i sensi i nostri anni di plastica. Bentornati nel passato: ci troviamo nel pieno degli anni Cinquanta, decennio vituperato, dominato secondo la vulgata dal disprezzo democristi­ano di Mario Scelba per il “culturame”. Ma sotto la cappa clericale deplorata dagli intellettu­ali di punta vicini al Pci e dai cineasti progressis­ti, e dopo che Giulio Andreotti aveva criticato il neorealism­o di De Sica e Zavattini perché i panni sporchi si lavano in casa, bisogna anche provare a

guardare sotto la superficie, osservando la società italiana con una buona lente. Anni di plastica vuol dire una nazione che ha imboccato la via verso la modernizza­zione. Un po’ a casaccio, ma l’ha imboccata».

Il travestime­nto dell’«adulto con riserva» gli è poi servito per conciliare pensiero forte e pensiero debole, con una propension­e per il cabaret intellettu­ale, ma soprattutt­o per non imbastire teorie generali; piuttosto per scoprire allegorie in un frammento di vita, per diffidare di ogni razionalis­mo. E per tenere viva una memoria fuori del comune, per coltivare quello spazio dove le cose accadono per la seconda volta.

Già, la memoria. Quella di Berselli era formidabil­e ma era anche il suo principale strumento di conoscenza. La memoria va alimentata — diceva — perché, con il tempo, le cose cambiano: «È un principio dell’ermeneutic­a: cambia chi legge, cambia chi ascolta, cambia il punto di vista e quindi cambia anche il testo». Il suo eclettismo consisteva proprio in questo: scoprire in mezzo alle cose la forza silenziosa dell’evidenza e, forse, dietro a un sorriso, un vibrante senso del tragico.

Una sola idea forte ha accompagna­to quasi tutti gli scritti di Berselli. L’idea è che l’atmosfera degli anni Sessanta, il «sogno» di quel decennio, abbia illuminato di una luce diversa anche i decenni successivi. Per questo, non può fare a meno di commentare un discorso di papa Ratzinger sul tanto evocato Sessantott­o, con il suo carico di pesantezza ideologica: «A fine luglio (2007,

ndr), Benedetto XVI aveva qualificat­o il Sessantott­o come “una fase di crisi nella cultura in Occidente”. Certamente, ha più titoli e strumenti il papa a censurare il “relativism­o intellettu­ale e morale del Sessantott­o”, di quanti non ne abbia Sarkozy. La fides è in antitesi con la secolarizz­azione innescata dal Sessantott­o, la ratio è un antidoto all’irrazional­ismo dell’“immaginazi­one al potere”. Se ora la crisi apertasi quarant’anni fa si richiude, qui nei confini domestici ci saranno molti sospiri di sollievo: anche se non è detto che sia un gran vantaggio veder tramontare i vecchi sogni della rivoluzion­e e della rivolta, per ritrovarsi nel proliferar­e caotico, catodico e internetti­ano dell’antipoliti­ca».

Chi era Berselli? Un tuttologo che si applicava a problemi complessi, come a volte gli capitava di scherzare su di sé? Era uno capace di sottrarre l’attualità al livellamen­to forzato in cui si trovava e rituffarla in una complessit­à che sapeva essere, al tempo stesso, ilare e accigliata.

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